IL PENULTIMATUM

Cassano ci ha ripensato di nuovo. Resta. E noi stiamo impazzendo come dei poveri cretini 

Un tira e molla degno di Ridge e Brooke. Sarà una stagione lunga, molto lunga.

Ti amo. Ti odio. ma in realtà ti amo. Ti prendo e ti lascio. Ma poi ti riprendo. Uno psicodramma.

“Ho avuto un momento di debolezza”. Non che noi, Antonio, ci sentiamo tanto bene. Antonio fa caldo (cit.).

“Ti volevano fregare”. “Li hai fregati tutti tu”. (autocit.).

Deve avere letto il mio pezzo di ieri:

[E’ sempre stato tutto molto divertente: loro ti tiravano per la giacchetta della morale e delle convenzioni e sul più bello che si spalleggiavano del loro nulla per essere riusciti a convertirti… tu quella giacchetta te la toglievi del tutto e tornavi a scandalizzare, irriverente e incontrollabile”. E ancora: “Ezio Vendrame, oggi poeta e scrittore, negli anni ’70 calciatore sontuoso, ribelle e anticonformista come Meroni e Zigoni, nel suo libro “Se mi mandi in tribuna godo” racconta che in una puntata della ‘Domenica Sportiva’ di Gianni Minà in cui era ospite, Aldo Agroppi, opinionista della trasmissione, gli disse: “Io con i tuoi piedi e tu con la mia testa, ecco il fuoriclasse assoluto”. Vendrame, anziché incassare quello che voleva essere un elogio, rispose irriverente davanti a milioni di italiani: “Ti regalo volentieri i miei piedi, ma la mia testa non la cambio con nessuno, tanto meno con te”].

Devo averlo ispirato, Cassano. Dite: “Lui ti dà argomenti”. Mi sa che sono io a darli a lui.

Antonio è tornato. Come i bis delle star ai concerti.

L’ultima parola di Cassano è come l’ultima birra della sera. Non è mai l’ultima.

Love.

P.S. Il club esce ammaccato dalla vicenda. Prima l’entourage di Cassano dà la notizia alla Gazzetta (senza che nessuno della società sapesse nulla), poi Cassano chiede di indire una conferenza stampa. Alla conferenza stampa non si smentisce nulla, ma si fa retromarcia. Il cerino è rimasto in mano alla dirigenza del Verona. Do atto però a Fusco di averci messo la faccia.

 

L’ULTIMA CASSANATA

Caro Antonio,

ti hanno voluto fregare. Volevano normalizzarti. Tra una cassanata e l’altra loro ci provavano: “Ora si è messo a posto” dicevano. Quante volte l’hai sentita questa frase? Ma li hai fregati tutti tu: sei rimasto quello che hai sempre voluto essere. Bello o brutto, puro o stronzo, sensibile o forse solo egoista, eccessivamente generoso, ma anche irrimediabilmente egocentrico…comunque tu.

E’ sempre stato tutto molto divertente: loro ti tiravano per la giacchetta della morale e delle convenzioni e sul più bello che si spalleggiavano del loro nulla per essere riusciti a convertirti… tu quella giacchetta te la toglievi del tutto e tornavi a scandalizzare, irriverente e incontrollabile.

Nel loro cieco e ottuso moralismo ti hanno pure chiesto se “ti sei pentito”, perché loro che misurano tutto in grandeur, gloria e trofei pensano che hai sprecato un’occasione per il tuo talento. Ma tu sai che l’occasione l’hanno persa loro e non solo di tacere, ma di vivere senza sovrastrutture, compromessi, finzioni sociali o istituzionali. Una risata li seppellirà, anzi li ha già seppelliti.

Il fatto è che tu hai sempre e solo voluto disegnare calcio a modo tuo e che non ti rompessero i coglioni. Lo hai fatto. Non aveva senso farlo alla Roma, al Real Madrid, all’Inter o al Milan come dicevano loro; meglio farlo alla Samp o al Parma come dicevi tu.

Loro non si rendono conto che tu non avevi alternative. Sì, una volta ci hai provato a fare il bravo scolaretto (europei 2008), forse per vedere l’effetto che fa. Ma ingabbiato nella disciplina che ti eri auto-imposto ti eri smarrito e appiattito anche in campo, perfettino, senza sbavature, ma anche avulso, impalpabile, modesto. Non eri tu, tu sei nato per altro: per il genio e la follia, per l’incanto e il tormento, la magia e il ripudio, il sogno e lo scandalo. Prendere o lasciare. Pacchetto completo.

Ezio Vendrame, oggi poeta e scrittore, negli anni ’70 calciatore sontuoso, ribelle e anticonformista come Meroni e Zigoni, nel suo libro “Se mi mandi in tribuna godo” racconta che in una puntata della ‘Domenica Sportiva’ di Gianni Minà in cui era ospite, Aldo Agroppi, opinionista della trasmissione, gli disse: “Io con i tuoi piedi e tu con la mia testa, ecco il fuoriclasse assoluto”. Vendrame, anziché incassare quello che voleva essere un elogio, rispose irriverente davanti a milioni di italiani: “Ti regalo volentieri i miei piedi, ma la mia testa non la cambio con nessuno, tanto meno con te”.

Ecco Antonio, non so ora se ci regalerai gloria o fallimento, solo il tempo lo dirà. Ma lo sbaglio che faremmo qui a Verona (Setti, Fusco, Pecchia, i tuoi compagni, noi giornalisti e i tifosi) è provare con presunzione ciò che hanno già provato altri: voler cambiare la tua testa. No, finché crediamo in te (e ora ci crediamo, abbiamo il dovere di crederci) dobbiamo accettarla e capirla, proteggerla e coccolarla.

E’ l’unico modo perché la scommessa si tramuti in successo. E a quel punto sì che ci regalerai l’ultima cassanata, un sonoro vaffanculo agli scettici.

L’AUTOGOL DI TONI

Luca Toni e Preben Elkjaer sono la coppia d’attacco dei sogni. Immaginate voi un Verona che li avesse avuti in campo insieme. Abbondandis in abbondandum avrebbe detto Toto, se dobbiamo sognare sogniamo in grande. Ecco io vorrei che di Toni restasse immortalata la fotografia del campione, del goleador, del ‘vicesindaco’, la parte romantica della sua storia. Abbiamo bisogno come il pane e l’aria di bei ricordi, l’antropologia del calcio si fonda buona parte su di essi, non disperdiamoli. 

Il resto sono polemicucce di bottega, specie per un fu campione del mondo per sua stessa ammissione “ambizioso” anche nella carriera da dirigente che si vuole costruire. Se Toni ipoteticamente mi avesse chiesto un consiglio mediatico-comunicativo gli avrei detto di lasciar perdere, di non lasciarsi trasportare dal fuoco fatuo di polemiche fini a se stesse. E non per buonismo, paraculaggine, ipocrisia, ma per una ragione più semplice: Toni non aveva nulla da dire e infatti non ha detto nulla. Mezz’ora di banalità a spiegare in sostanza che lui, al di là del ruolo formale, voleva intervenire nella gestione tecnica (“dare qualche consiglio, dopo 22 di calcio penso che ne avessi diritto”) e che Fusco che della gestione tecnica è, nel bene o nel male, il responsabile gli ha detto “no”, ben più severo dell’uomo Del Monte che invece diceva sì, ed è per questo che ha sbattuto la porta. Una situazione che nel calcio e nella vita è capitata un po’ a tutti, che è normale – ricordate la vecchia storia dei due galli in un pollaio? – ma anche nella fattispecie esclusivamente personale. Perché allora dover sfogare i propri scazzi al mondo? Quale l’interesse pubblico? Se Toni chessò ci avesse dato delle notizie oggettive, legate alla sfera dell’interesse pubblico dell’Hellas, avrebbe avuto tutto il diritto, anzi il dovere, di parlare e noi giornalisti avremmo avuto il diritto, anzi il dovere, di approfondire. E invece la montagna ha partorito il topolino: Toni se ne va perché non può decidere e non può decidere perché decide già Fusco, a cui Setti ha dato le chiavi del Verona.

E’ chiaro che nel gioco della stanza dei bottoni del calcio influisce anche l’area di procuratori a cui ognuno fa riferimento. Toni ha i suoi legami e le sue amicizie, Fusco ne ha altre, Sogliano ne aveva altre ancora e questo vale più o meno per tutti i manager del mondo. Procuratori significa sfere di influenza, correnti politiche, network di business tutte cose per cui anche si può arrivare a litigare, pure legittimamente e comprensibilmente. Ma poi conta il Verona e le capacità che ha un manager di allestire con le risorse a disposizione una squadra competitiva. Sogliano ci riuscì, Gardini e Bigon (con relazioni anche in comune con il mondo di Toni) no, Toni chissà.

Setti, al bivio dopo un anno di convivenza tra ruggini e incomprensioni, ha scelto Fusco e bocciato Toni. Posto che Toni non avrà mai la controprova, positiva o negativa, del suo lavoro, Fusco verrà giudicato per i risultati in rapporto agli obiettivi prefissati e alla forza economica a disposizione. Il resto sono scazzi personali di cui francamente non ci frega nulla. Il resto è un autogol clamoroso di un vecchio bomber che uscito dal campo per una volta ha sbagliato porta.   

IL CALCIOMERCATO È L’OPPIO DEI POPOLI

Maledetto giugno. Sordo silenzio. Tutto si ferma, né campionato, né ritiro, né amichevoli. Apatia, caldo e nulla. Anzi peggio, ascelle ammassate in buchi di piscina, villaggi turistici con animatori rompiballe, il finto entusiasmo dei deejay con i dischi sempre uguali che ci fanno battere le mani come imbecilli, cocktail annacquati, tristissimi acquagym e desolanti corsi di zumba. Ci organizzano pure il tempo libero che dunque non è più… libero. Bisognerebbe imparare dai gatti, diceva Bukowski, nel loro beato ozio si cela la verità. Forse il prete per chiacchierar c’è pure, checché ne dicano Celentano e Paolo Conte, la verità è che manca il pallone, anche fosse un dannatissimo trofeo Birra Moretti agostano, e di qualche diavolo di cosa bisognerà pur parlare. Dove sei Verona? Impaziente nostalgia. E allora vai di valzer, no Strauss non c’entra, la grancassa che suona è quella dei procuratori che creano aste e ingrassano, l’orchestrina ammaestrata e interessata sono i mass media che reggono il microfono e il gioco. E i tifosi inebetiti sognano, vagheggiano, inseguono, discutono, immaginano. Li capisco, tutto pur di scansare il fottutissimo acquagym. E’ il calciomercato, bellezza. E’ il calciomercato, salvezza!

“Arriva Marchetti”. “No Marchetti no troppo caro”. “Ma ecco Calabria, vertice con il Milan”. “No Calabria no, nessun vertice”. “Vuoi mettere Cassano? Ha già firmato”. “No Cassano non serve”. Voci, echi, titoli, dibattiti, articoli su quello che…non c’è, come cantavano gli Afterhours. O un Vasco Rossi d’annata, ricordate? “Fantasie che volano libere, fantasie che a volte fan ridere, fantasie che credono alle favole”.

Personalmente ho un’idiosincrasia per il calcio mercato fin da ragazzino. Quante mance estive buttate nel cesso a comprarmi i giornali per vedere chi acquistava o trattava il Verona; quanto inutili salti all’edicola per trastullarmi con le ipotetiche formazioni. Sogni infranti, illusioni peggio dei flirt estivi scambiati per amore che sarebbero seguiti. Pensavo fosse… Kirsten e invece era un calesse. Sì perché l’ho sognato un’intera e maledettissima estate (1991) Ulf Kirsten, per poi trovarmi Raducioiu. Prova tu a sognare Miriam Leone e ritrovarti la tata di Vianello.  Da allora ho smesso di inseguire inutili treni, anche da giornalista, preferendo la via materialista, dunque la realtà. Meglio capire e far capire come si muove una squadra – nel nostro caso il il Verona o le sue avversarie dirette – nel suo complesso, la filosofia che spinge il club e il direttore sportivo di turno a ingaggiare questo o quel giocatore.

Soprattutto se di soldi ne hai pochi e il tuo traguardo è una salvezza molto di lotta e poco di governo come l’Hellas che sarà (dimentichiamoci i primi due anni di A Setti-Sogliano-Mandorlini, quelle erano squadre costruite con altre risorse). Si cercherà, tra i titolari, di confermare i gioielli Zuculini Jr e Ferrari, di ingaggiare un portiere di categoria, due difensori e due esterni d’attacco che facciano la differenza e gol. Il centrocampo è il reparto più completo, ma le mosse qui dipenderanno dalle conferme di Zuculini Jr appunto e di Romulo, sui cui la società sta facendo una profonda valutazione.

Per il resto non badate a nomi troppo ricchi e altisonanti, non arriveranno. Non inseguite chimere. Il calciomercato è l’oppio dei popoli.

IL NOSTRO MARKETING È L’IDENTITÀ

Un’internazionalizzazione è per sempre. Almeno nel gioco delle intenzioni, perché poi nei fatti si vedrà. Il brand da internazionalizzare, ricordate? Vecchia storia, annoso tormentone, iniziato quando Setti nel 2012 acquistò il Verona. E Setti ne è tornato a parlare l’altra sera in radio.  Sia chiaro, l’intento è di per sé meritorio e lodevole e do atto al presidente del Verona di aver posto per primo una questione fino ad allora tabù. Ma il punto non è questo, in discussione non è l’obiettivo, ma il percorso da intraprendere: il come arrivarci.

Setti, nel 2013 dopo la promozione in serie A, a mio avviso ha scelto la strada sbagliata, provando a internazionalizzare indebolendo – se non snaturando – l’identità, a cominciare da maglie lontane dalla tradizione del Verona (non brutte o belle, questo è soggettivo e ci interessa poco). Invece io penso che un buon marketing non può prescindere dall’identità. Tradotto: se vuoi internazionalizzare il brand prima devi avere il brand, costruirlo, valorizzarlo. E il Verona ce l’ha da sempre già in casa bello che fatto, con la sua storia di 114 anni, i suoi volti, i suoi colori, i suoi simboli, la sua tifoseria atipica, i suoi eroi, il suo popolo e il suo scudetto che rappresenta un unicum.

Ecco vorrei che il presidente partisse da questo patrimonio, altrimenti seguendo altre improbabili strade, scimmiottando ciò che non siamo, rincorrendo le metropoli, si rischia di commercializzare una minestrina insipida, né carne né pesce, di inseguire mille altri treni “per trovarsi ovunque ma non qui” (cit. La Crus), di smarrire se stessi e di non arrivare nemmeno agli altri. L’internazionalizzazione deve partire dall’identità.

CASSANO? FISCHIETTO LA TERRA DEI CACHI

Cassano sì Cassano no, puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita…”.

La fischietto sulle note de La Terra dei Cachi, perché qui ci vuole la sagace e raffinata ironia degli Elii per stemperare un po’ quello che pare essere l’inizio di un tormentone estivo, nonché di un dibattito (“No, il dibattito no” per dirla alla Fantozzi) molto italiano tra il partito dei pro e quello dei contro.

E, dato che ci sono, scomodo anche Dio, quello pagano di noi adepti s’intende, cioè Preben Elkjaer che se avesse voluto rimanere anonimo e conformista sarebbe rimasto Larsen. Invece essendo Elkjaer, lui e lui solo, mica ti ha sbrodolato la solita melassa di tanti ex (un altro mai banale è Domenico Volpati). No, lui d’istinto ha detto come la pensa al Corriere di Verona: “Ma Cassano gioca ancora?”. Pure quel galantuomo di Domenico Penzo ha bocciato l’ipotesi Fantantonio: “Troppe incognite”. E non è parso entusiasta, diciamocelo, neppure il ds Fusco, quello che sì “Cassano è un grande campione e fanno piacere le sue parole di stima nei miei confronti”, ma “a gennaio in B non l’ho voluto, in A invece se Cassano fa il Cassano è un valore aggiunto, ma ci sono tante variabili, difficile dare una risposta”. Già, “tante variabili” e un “se” fuschiano grande come una casa.

Non proprio un’elegia, tuttavia le parole di Fusco si possono interpretare anche come un temporeggiamento, come poi anche i pensieri di Elkjaer e Penzo, che letti oltre la sintesi da titolo giornalistico riconducono al nodo della questione Cassano: la sua condizione atletica dopo un anno di inattività (ricordiamo la fatica di Rafa Marquez, reduce da anni sabbatici negli Stati Uniti, e di Romulo? Il paragone con Toni invece non regge, lui veniva da una stagione vera a Firenze).

Ecco io limiterei il dibattito su questo aspetto e non sul carattere bizzarro di Cassano, ché di giocatori “matti” ce sono ma magari non lo dicono. Anzi io la prima cosa che direi all'(ex) ragazzo di Bari Vecchia è: “Non diventarmi normale, ché sennò poi ti appassisci”. Se le tabelle e i dati scientifici certificano che il giocatore è ancora integro e con una condizione atletica accettabile allora può essere ingaggiato, altrimenti meglio evitare.

E’ chiaro che Maurizio Setti ci pensa, perché al di là del ritorno di immagine (opzione che tuttavia non va mai sottovalutata nel calcio), c’è anche un senso di sfida se volete visionaria e comprensibilmente narcisistica: arrivare dove molti altri non sono riusciti. Vi pare poco?

MA ORA SCENDIAMO DALL’ALTALENA

Dannato vivere. Il popolo del Verona a festeggiare e io qui a scrivere. Guardateli, toccateli quegli oltre 4 mila di Cesena là nella curva ospiti del Manuzzi. Guardateli, toccateli quei 5 mila in Bra pronti a buttarsi nella fontana. “Ciò che conta è avere sempre qualcosa da attendere” scriveva Didier van Cauwelaert. E Verona l’attendeva questa promozione. Verona oggi attendeva la partita, tra un senso di repressione lungo una stagione da voler finalmente sfogare e quel filo di ansia che accompagna sempre le vigilie che indicano uno spartiacque.

Che promozione è? Forse ce ne sono state di più epiche, inaspettate ed emozionanti anche in tempi recenti. Ma questa potrebbe essere la promozione più significativa e importante degli ultimi anni. Innanzitutto perché anche i simboli hanno il loro peso: Cesena 27 anni fa rappresentò la chiusura di un decennio irripetibile e leggendario, quello degli anni ’80. Quel nefasto pomeriggio il Verona senza saperlo saliva su una vecchia altalena cigolante: da allora infatti più bassi che alti, con solo 8 campionati di A, 15 di B e addirittura 4 di C. Chissà invece che adesso Cesena possa rappresentare l’inizio di un nuovo ciclo. Non si chiede ovviamente lo scudetto (sarebbe da irrealisti e irresponsabili), ma un consolidamento in serie A quello sì, come promise Maurizio Setti quando acquistò il club nel 2012. 

Dopo 27 anni è ora di scendere da quella vecchia altalena cigolante.

DIECI GIORNI DA BRIAN DE PALMA…

Chiamate Brian De Palma. Fiato sospeso, giornata thrilling lungo lo Stivale tra Verona e Benevento. Ma non era un dvd del regista di The Untouchables o Carlito’s Way. Il Verona, sul filone di quest’anno, stava complicandosi ancora una volta la vita, quella reale. Così al Bentegodi eravamo tutti tra color che son sospesi, con gli occhi e il cuore a sperare di riagguantare lo scorbutico Carpi (da Nereo Rocco e Castori il tempo si è fermato, non ce ne voglia il paron), ma con le orecchie a Benevento, dove sull’1-1 molti temevano un gol del Frosinone in extremis (che avrebbe voluto dire addio alla promozione diretta). E invece ecco che il finale ha sovvertito il timore e accompagnato l’amore (per l’Hellas) con il gol di Ganz (un anno in panca, 5 minuti da copertina) e soprattutto quello di Ceravolo al Vigorito.

Brian De Palma è tra noi, perché poi è da 10 giorni che qua a Verona si vive con il fiato sospeso, tra ispettori federali dal sordo zelo, Osservatori del Viminale con i loro bizzarri timori burocratici e politici già in campagna elettorale che cavalcano. In tutto questo hanno vinto i tifosi gialloblu che, nonostante queste continue provocazioni, a Chiavari in due ore sotto vento e acqua hanno spiegato a lor signori l’essenza del calcio, che se ha ancora un significato – nonostante gli scandali e le opacità di chi lo dirige – è grazie a persone che ci dedicano soldi e tempo per un amore incondizionato. Bravo questa volta è stato anche Setti, che ha adottato la terza via: da un lato ci ha messo la faccia per tutelare club e tifosi, dall’altro non ha alzato troppo i toni, consapevole che con un ricorso in itinere era preferibile la via della diplomazia e del basso profilo. Al resto ci ha pensato l’avvocato Fanini, che conoscendo le intricate vie del diritto sportivo fin dall’inizio aveva manifestato un cauto ottimismo sull’evolversi della vicenda.

La serie A ora è a mezzo passo: fuori da ogni scaramanzia e salvo terremoti o masochismi da kamikaze è fatta. A Cesena giovedì basta un punto e i bianconeri nulla hanno da chiedere alla stagione. Cesena ci può ridare quello che nel 1990 ci tolse: la serie A. Corsi e ricorsi storici. 

L’EPICA CHE MANCAVA

Vedi pure un arcobaleno sulla strada verso casa. C’è un raggio di pallido sole a illuminare la ricerca di quiete dei propri pensieri. La tempesta è finita. Tempesta di pioggia e di ormoni, di vento ed emozioni coronariche. Provaci tu a raccontare quello che è successo al Bentegodi tra l’88’ e il 95′. Sette minuti come le 9 settimane e 1/2 di Kim Basinger e Mickey Rourke. Spengo la musica, tanto non la sento: guidare porta a pensare e allora rivedi la classe di Bessa, dieci d’antan, efficace bellezza; la folle anarchia di Romulo, che s’eclissa e si illumina, si concede e svanisce, lo maledici e lo abbracci; la metamorfosi di Troianiello, lui l’incredibile Hulk sguaiato che si strappava le camicie e che ora da docile padre invita al basso profilo.

Rivedi e rivivi lo stadio, la curva, la bolgia, i colori, il turbinio di emozioni di cui non puoi scrivere perché non le puoi descrivere: ci dovevi essere e basta. Scorrono gli abbracci e le urla pure in tribuna stampa, perché ok la professione, ma il Verona batterà sempre il disincanto e certe giornate prendono a pugni qualsivoglia razionalità. Ecco allora che ribalti i tavoli, ci salti sopra, c’è la gioia in quei gesti, ma anche la frustrazione repressa di tanti minuti: frustrazione e gioia, i contrasti emotivi rendono l’essere umano così affascinante. E poi tutto quello che era ammassato lì – carte, file word, parole, righe, pensieri – non conta più. La storia scritta fino ad allora è vecchia, il mondo è cambiato in sette minuti. C’è chi piange attorno a me: cazzo vuoi parlare di tattica, cambi, ripartenze e amenità? Siamo in ventimila a cui è cambiata la giornata, forse pure il senso di una stagione vissuta fianco a fianco a un Verona indiscutibilmente forte, a volte pure bello, molte altre assente, ma sempre e costantemente anonimo, anemico, in assenza di carisma, come quella ragazza che passa due ore a scegliersi le scarpe perfette, ma è priva di sguardo, femminilità, malizia.

Abbiamo convissuto un’annata con un ds dall’idealismo fin troppo accademico, un allenatore dall’animo nobile ma impalpabile e un gruppo di ragazzi troppo perbene, ma in campo ci è mancato un qualcuno o un qualcosa, una partita, o anche solo un episodio capace di trasportarci, di farci battere il cuore, di immergerci nella lisergica via del pathos. Non c’è mai stato un vero motivo per buttarci nel fuoco e non c’entra la tecnica, la tattica, il gioco che non c’è. E’ questione di feeling, che quest’anno non è mai scattato.

Ecco, credo sia stata l’epica la grande assente. Oggi improvvisamente si è presentata in quei sette minuti. Pioveva, magicamente ha smesso. E io sulla strada di casa ho spento la musica (che tanto non si sentiva): volevo assaporare la lievità dei miei pensieri: l’Hellas Verona, lo stadio, la curva, chi piangeva attorno a me, la felicità. Che bello.

VOLATA FINALE TRA RIMPIANTI E OTTIMISMO.

Basta poco. E la rabbia è che il Verona ne abbia preso consapevolezza tardi e ci faccia penare fino alla fine. Assecondando istinto e passione così è ancora più bello, certo, una volata finale ha sempre il suo fascino, sia vissuta dagli occhi di un tifoso che giornalisticamente. Ma qui per motivi di credibilità siamo condannati a guardarla in faccia la realtà e la realtà dice che il Verona alla buon ora ha capito come giocare in serie B. Bagno di consapevolezza (e di umiltà) tardivo, ma efficace:  se si gioca anche un po’ di rimessa, allineati, equilibrati e coperti il giusto, con raziocinio sparagnino e sornione, aspettando di innescare per inerzia la propria qualità individuale, poi i punti si portano a casa quasi per default.

E 4 punti tra Bari e Perugia sono un ottimo bottino. Alla vigilia del San Nicola – conscio dei nostri limiti organizzativi e tattici e timoroso di qualche altro estemporaneo ribaltone ideologico pecchiano, osservante la crisi del Frosinone e preoccupato della qualità di un allenatore come Bucchi – avrei firmato anche per prenderne solo 3. A quattro partite dalla fine ci ritroviamo così in pole position e dipende solo da noi. Credo si deciderà tutto tra Vicenza ed Entella e credo pure che non serva vincerle entrambe, ma basti una vittoria e un pari. Ciò che conta è mantenere questo atteggiamento razionale e minimalista, e tenere da parte i vagheggiamenti irresponsabili che furono, quelli visti in troppe partite, quelli della sconsideratezza tattica e della dissennatezza di un calcio utopistico e irresponsabile a questi livelli.

Siamo al redde rationem e ci siamo arrivati colpevolmente affannati rispetto alle (giuste) aspettative. Ma ora siamo in pole position e dipende solo da noi. Avanti.