SETTI AL BIVIO

Mi suona nell’orecchio una Viola Valentino d’annata. “Comprami io sono in vendita” è il refrain di questi giorni di riflessione se penso alla rosa del Verona. I pochi giocatori buoni che abbiamo (Ionita e Gollini) sono sul mercato; Pazzini si sfila dicendo che i cinque anni di contratto non sono un problema, Siligardi confida che una parte del gruppo preme per andarsene, non sappiamo chi saranno il ds e il dg e quali compiti avranno; non sappiamo se e come verranno utilizzati i 25 milioni di “mongolfiera” (alias “paracadute”), se per il bilancio o per la squadra; sappiamo però che la rosa attuale, per mille motivi, è inadeguata per un campionato di vertice in B (a differenza del Chievo 2007 di cui tanto si parla come termine errato di confronto), sappiamo che un ds non vale l’altro, sappiamo che Baroni non è Iachini. Nel frattempo l’amministrazione comunale ha messo con le spalle al muro Setti: “Per il centro sportivo di Forte Lugagnano tutto è fatto, ora servono gli investimenti del Verona”, in soldoni il messaggio, per nulla casuale, trapelato da Palazzo Barbieri. 

Setti è al bivio della sua storia a Verona: continuare a fare calcio e mantenere le promesse pubbliche (centro sportivo e immediato ritorno in A e consolidamento nella massima serie), o alleggerire le pendenze economiche per rendere appetibile e accessibile il Verona a nuovi acquirenti da qui a fine anno? Le prossime mosse saranno indicative, dal budget che verrà messo sul banco, al management scelto, passando per quello che succederà appunto a Forte Lugagnano. Ci siamo: il tempo delle parole, dei temporeggiamenti, delle supercazzole, degli alibi è finito. Del “modello Borussia Dortmund” e vanità (e amenità) varie non sappiamo che farcene; noi voliamo più basso: ci basterebbe un “modello Verona”. 

IL “GRANDE FREDDO” (QUANDO MANCA IL SENTIMENTO)

Il Bigon minore disse che a lui non interessa l’opinione della gente; presumo abbia poco a cuore anche il turbamento della stessa se domenica, restando serio, ha acceso il solito disco del “non è questo il tempo di dare spiegazioni”. Lo dice da mesi, più facile a questo punto l’immediato scioglimento dei ghiacciai, o un bel disco di Pupo. A che serve dare un’intervista se poi non si risponde alle domande? Un consiglio al ds: la prossima volta parli allo specchio di casa sua.

Setti pontificò in diretta tv (locale) che i tifosi del Verona sono come tutti gli altri; mesi prima, sempre in tv (nazionale), tenne invece una lezione magistrale su sedicenti studenti greci fondatori del Verona. Li stiamo ancora cercando.

Gardini precisò che i colori (delle maglie) non sono importanti, e c’è da capirlo da uno che oltre al grigio (dei completi) non va.

L’allenatore di prima invitò chi lo criticava a seguire il Chievo, incurante di offendere i tanti che magari amano il Verona da quando lui amava l’Inter e sanno ancora distinguere tra il Verona Hellas e il fantomatico Mandorlini Fc.

L’allenatore di ora scambia Romeo e Giulietta per Giulia e Rometta e da settimane ci racconta supercazzole su Toni, Pazzini e Jankovic, quasi che ritenga, come il Bigon minore, le conferenze stampa un inutile esercizio di (cattivo) stile e non il mezzo per rendere conto ai tifosi del proprio operato.

Poi, improvvisamente, salvificamente (per noi) e improvvidamente (per loro), domenica sera a 91° minuto è arrivata la signora Susi, che turbata – come nella bellissima canzone di Ivan Graziani che porta il suo nome – per l’infausta stagione dell’Hellas e con la voce rotta ha zittito in un sol colpo la sicumera autoreferenziale dei personaggi di cui sopra. L’emozione commossa di Susi ce lo ha ricordato: il Verona è innanzitutto un sentimento, l’Hellas è della gente e dei suoi tifosi, ancor prima che di Setti.

A Setti fregherà? Ho seri dubbi, d’altro canto è ormai assodato il suo “grande freddo” nei confronti della piazza che, direttamente (con gli abbonamenti) o indirettamente (diritti tv e sponsor), gli permette di fare calcio. Dall’obbrobrio identitario delle maglie, questione che il sottoscritto sollevò già nell’estate 2013 e scambiata dai più superficiali come mera questione estetica, all’aumento “fisiologico” (sic) degli abbonamenti, passando per un’internazionalizzazione del brand (rimasta peraltro lettera morta) spacciata per necessità di sprovincializzarci, quasi che essere fieri della propria identità (e semmai esportare quella) e contrari a qualsiasi omologazione fosse una cosa da minus habens,o da vecchi tromboni nostalgici e non un valore fondante da preservare.

Setti, d’altronde, non ha tempo per queste quisquilie. Altre cose più importanti lo distolgono: le plusvalenze di ieri (Jorginho, Iturbe, Donsah, Sala, Hallfredsson) e quelle di domani (probabilmente Ionita e Gollini), la Nike e lo Store, il paracadute (anzi la mongolfiera), tutti motivi che tra l’altro, a rigor di logica imprenditoriale, lo allontanano per ora da un interesse a cedere le quote (il calcio non è mai stato un potenziale business come ora, i compratori non mancherebbero, vedi il Bari in B). E, ovviamente, i famosi studenti greci, ignoti a tutti noi comuni mortali, tranne che a lui, Ranzani.

UNA SOCIETÀ IN MOLTI ASPETTI DEBOLE

Come ho sottolineato la settimana scorsa il caso Toni (che nasce da lontano) è la cartina di tornasole di una società per molti aspetti debole, condizionata nel bene e nel male dai personalismi.

Lo insegna la vicenda Mandorlini, allenatore che – sebbene qualcuno finga di dimenticare – prima ha voluto una squadra a sua immagine e somiglianza (rosa corta, rinnovi di Jankovic e Gomez e mancanza di un fantasista perché non funzionale al suo 4-5-1) e infine è stato esonerato a campionato già ampiamente compromesso (6 punti in 14 partite, un po’ come dare 20 metri di vantaggio nei 100), lasciando una squadra atleticamente in affanno e uno spogliatoio ultimo in classifica ma dalle gerarchie inviolabili, ergo un campo minato. Lo insegna, appunto, la vicenda Toni, sino a qualche mese fa talmente potente e rappresentativo da condizionare financo il calciomercato e designare il suo vice (Pazzini, di cui condivide il procuratore), ora invece paragonato irrispettosamente da Delneri a un Furman qualsiasi.

E’ la storia degli estremi che arrivano a toccarsi, è la parabola del caudillo descritta anche da Garcia Marquez ne L’Autunno del Patriarca, è la vecchia ed eterna morale delle grandi vittorie a cui seguiranno inesorabilmente grandi sconfitte. Il problema è che a farne le spese poi è il Verona. E il Verona sta ancora pagando proprio certi personalismi, gli eccessi di potere di qualcuno che poi sono diventati eccessi di debolezza. Ma sempre di eccessi, prima e dopo, si è trattato, con due assenti eccellenti: l’equilibrio e una solida organizzazione societaria.

In un club organizzato, il Toni in ascesa sarebbe dovuto rimanere solo un giocatore (e Mandorlini solo un allenatore) e, allo stesso modo, il Toni in discesa non sarebbe mai dovuto diventare un caso di Stato. Perché non gestire con più efficacia le voci che già a gennaio davano il capitano futuro dirigente, domandandosi quale effetto potessero avere sul gruppo?  In una società organizzata, e qui ritorniamo all’incipit, il caso Toni non sarebbe mai nato, perché Toni non si sarebbe mai permesso di delegittimare la squadra di cui è capitano e Delneri, di conseguenza, non sarebbe stato costretto a escluderlo per salvaguardare lo spogliatoio. E’ evidente infatti a chiunque abbia giocato a calcio, ma anche a qualsiasi persona padrona della logica che Delneri non aveva altra scelta, e questo al di là delle simpatia di ognuno per Tizio o per Caio. Altra cosa è il comportamento,  a mio giudizio esecrabile e anche in un certo senso triste, del Delneri mediatico, che per giustificarsi si è umiliato a raccontare “supercazzole” che nemmeno il conte Mascetti di Amici Miei. I tifosi, di fronte al coinvolgimento di un giocatore così importante, avrebbero meritato più rispetto, ma il paradosso, se vogliamo, è che Delneri forse ha mancato di rispetto anche e soprattutto a se stesso.

In un club organizzato la riserva di un bomber di 38 anni – che proprio per l’anagrafica a ogni nuova stagione è di per sé un’incognita – non la propone il bomber medesimo; senza scomodare più o meno reali conflitti d’interesse (leggi il procuratore in comune), o motivi di opportunità calcistica (che coinvolgono le scelte tecniche dell’allenatore, gli stimoli a diventare titolare di chi è stato scelto dal titolare stesso, e la vita dello spogliatoio), un tassello così determinante per l’economia di una squadra che per due anni ha vissuto sui gol della punta lo deve scegliere il direttore sportivo (come fece Sogliano con Toni due anni prima), che è pagato per quello ed è per ruolo al di sopra delle parti. Incomprensibile anche che un ds che si avvale di “uno dei migliori scouting d’Italia” (Setti dixit), scouting tra l’altro ben remunerato, ingaggi Souprayen, il cavallo di ritorno Albertazzi e giocatori imbolsiti (Matuzalem e Emanuelson) proposti dai procuratori, anziché volti nuovi e talenti in erba. A che diavolo serve allora lo scouting?

In una società organizzata l’allenatore della prossima serie B (nonostante il ciapa no delle concorrenti ci lasci ancora un lumicino di possibilità, incredibile ma vero!) dovrebbe essere già stato individuato e la scelta non dovrebbe essere influenzata da questo finale di torneo, come ho letto sui giornali, cioè da una valutazione contingente ed effimera, ma dal progetto, dal mercato e dalle ambizioni che si hanno in testa, dunque da una visione complessiva.

Una società organizzata, e questo è un augurio perché  a Setti voglio concedere ancora un bonus, ripartirebbe da un nuovo management (via Bigon e gli uomini scelti da Gardini ancora operativi) e, lo dico e scrivo da tempo, da un nuovo allenatore. Delneri in assoluto non ha fatto male (è partito in forte svantaggio e la classifica del girone di ritorno, cioè da quando si può giudicare il suo lavoro, ci darebbe salvi), ma, rispetto alle aspettative, nemmeno bene (le partite con Udinese, Samp e Carpi gridano vendetta). E in B serve un altro tipo di allenatore.

CASO TONI: HELLAS PIÙ IMPORTANTE DEI PERSONALISMI

Max Weber teorizzava il potere carismatico poggiato sulla figura di un leader all’interno di un’organizzazione sociale.

E’ un po’ quello che in parte succede a Verona da anni, prima con Mandorlini, già ai tempi di Martinelli, poi con Toni, sebbene Setti si sia sempre vantato di aver creato, a differenza dei predecessori, una società modello nella quale ognuno ha il suo ruolo. In realtà il Verona in questi anni, e anche con l’attuale presidente, è parso essere condizionato da figure che hanno tracimato dalle loro funzioni, creando appunto un sottopotere plebiscitario e personale basato sul loro carisma. Risultato? Un “totalitarismo” capace di oscurare il lavoro determinante dietro le quinte di altre personalità autorevoli (penso a Martinelli, al primo Setti, a Gibellini e Sogliano); un leaderismo con picchi di ipertrofia tali da condizionare l’opinione pubblica e i dibattiti mediatici, e scomodare mostri sacri inarrivabili e innominabili come Bagnoli e Elkjaer pur di legittimarsi.

Attenzione, nessuno toglie merito a Mandorlini e Toni, nessuno dimentica le loro vittorie e i loro gol, ma da qui a condizionare le vicende di un club ai personalismi ce ne dovrebbe correre. Invece a Verona credo sia accaduto, sino purtroppo al naturale epilogo in casi come questi: Mandorlini e Toni in questa stagione sono divenuti vittime di loro stessi e il Verona, in un certo senso, vittima del loro declino.

Il Verona invece se vuole crescere deve strutturarsi, evitando di votarsi troppo a chicchessia, senza creare ingombranti personalismi che nel tempo, anche senza volerlo, implacabilmente tendono a creare delle problematiche. L’Hellas deve diventare solida struttura e inviolabile organizzazione, superiore e indipendente a qualsiasi singolo. “Non fare di me un idolo mi brucerò, non fare di me un megafono mi incepperò” scriveva e cantava quel genio che è stato ed è Giovanni Lindo Ferretti.    

RESTAURAZIONE O RIVOLUZIONE?

Leggo e sento di un ritorno di Mandorlini e staff. Leggo e sento di una conferma di Bigon e staff. Leggo e sento che Luca Toni – che nel post Carpi ha parlato da dirigente in pectore – potrebbe entrare nei quadri societari. Leggo e sento del ruolo di Tullio Tinti, procuratore tra i più potenti in circolazione, nella stanza dei bottoni di via Belgio da quando se n’è andato Sogliano (che forse è stato allontanato proprio per questi nuovi equilibri).

Leggo e sento tutto ciò da più parti, anche autorevoli e beninformate, e nessuno smentisce. Ma lo scrivente non vuole scatenare uno sterile e stucchevole dibattito Mandorlini-Bigon-Toni sì o no, perché sarebbe fuorviante, un’arma di distrazione di massa.

Setti decida ciò che vuole, ovviamente, magari gli riuscirà meglio che scrivere lettere fuori tempo e fuori luogo. Il punto è un altro: capire il perché il presidente deciderà in un modo o nell’altro.

L’eventuale ritorno di Mandorlini sarebbe, credo, da imputare più a un risparmio economico che a un vero endorsement settiano (il presidente non ha mai amato il tecnico di Ravenna e a gennaio negò un suo rientro). Si parla di due milioni di euro lordi a carico delle casse del Verona tra il suo ingaggio e quello dello staff. Un suo ritorno, poi, avvalorerebbe il legame tra l’Hellas e Tullio Tinti, vicino alle vicende professionali del Grigio (e anche a quelle di De Zerbi, altro nome accostato al Verona). Idem la promozione di Toni (seguito da Tinti) nei quadri dirigenziali con funzioni, beninteso, operative nel calciomercato e non di mera rappresentanza. Toni che peraltro si è già cimentato la scorsa estate come ds de facto avendo un ascendente nell’ingaggio dell’amico Pazzini (altro uomo della scuderia di Tinti). Lasciando giudicare a voi i risultati, mi chiedo: giusto investire su un Toni dietro a una scrivania, nonostante la sua totale mancanza di esperienza? E’ opportuno avere due caselle fondamentali, quali allenatore e manager, legate alla figura dello stesso agente? E, se questo fosse il quadro, Bigon, accusato indirettamente da Toni (“siamo scarsi”), con quale credibilità rimarrebbe? Viene da pensare che anche la sua sarebbe una riconferma dettata da un contratto in essere (si parla di 1 milione di euro al lordo compreso lo scouting).

Ribadisco, Setti decida ciò che vuole, ogni scelta, anche nel contesto sopra descritto, sarà legittima. Tuttavia – e la mia, attenzione, vuole essere una critica costruttiva a un presidente a cui, dopo tre anni buoni e uno pessimo e nonostante qualche caduta di stile, concedo ancora credibilità –  torno a ripetere quanto ho scritto la settimana scorsa: serve un nuovo assetto dirigenziale, senza ombre, confusioni di ruoli, rapporti troppo stretti con i procuratori e minestre riscaldate. E soprattutto se Setti vuole mantenere la promessa (immediato ritorno in A) occorre investire e non risparmiare riutilizzando professionisti solo perché ancora sotto contratto. Che progetto sarebbe quello che nasce condizionato dagli errori del passato? 

SETTI CHIEDA SCUSA E RIFONDI LA SOCIETÀ

Una lenta e lunga agonia. Il Verona sprofonda e ammaina la bandiera con due mesi di anticipo. Oddio, il fondo si era toccato da un pezzo, ma tra Udinese, Samp e, oggi, Carpi si è pensato bene di scavare. Mai nella sua storia il Verona si era umiliato così, mai si erano toccate queste vette di arroganza, mista a impotenza, assenza e incapacità. Pure il Verona 1978-79 chiuse ultimo, ma quella era una squadra al termine di un grande ciclo decennale, mentre questa avrebbe dovuto essere quella del “consolidamento” (parola di Setti), con l’obiettivo dichiarato – essendo “clamorosamente adeguata alla salvezza” (Bigon dixit) – di “migliorare la classifica della scorsa stagione” (parole ancora di Setti).

Ecco io credo che tutto sia partito dalla presunzione estiva. Rottamato frettolosamente, con parole per nulla grate e poco signorili il “vecchio” (Sogliano) in diretta tv, si è pensato forse che tutto fosse dovuto, scontato, facile, persino normale. Anche, per dire, affidare la gestione sportiva a un amministratore di bilanci (in rosso) come Giovanni Gardini. Da lì una sequela di errori (anzi orrori), attacchi sguaiati e financo personali ai (pochi) critici, boriosa stizza, arroganza, cattiva perseveranza (mercato di gennaio) e fragorosi abbandoni (Gardini). Fino alla Caporetto odierna, con Setti inquadrato tutto solo in tribuna con il suo sigaro, unico compagno di viaggio rimasto, immagine che suggella una società che il presidente deve rifondare.

Bigon ha un altro anno di contratto, ma l’umiliante ultimo posto in classifica (in un campionato con Carpi, Frosinone e un Palermo in queste condizioni) e le spietate dichiarazioni di Toni nel post partita (“siamo scarsi”) sono emblematiche del cattivo operato del ds, che non può essere confermato. Lo stesso vale, mi spiace dirlo, per Gigi Delneri, il meno colpevole del disastro, ma che ci ha messo anche del suo, avallando il mercato di gennaio e poi andando via via in confusione.

Da Setti invece credo sia giusto pretendere le scuse pubbliche e ufficiali. La sua storia, di imprenditore della moda e di presidente di calcio, racconta di un uomo che ha sempre delegato. Quasi sempre bene, nelle sue aziende deve molto alle sue stiliste poi diventate socie, nel Verona ha ottenuto risultati grazie a una figura come Sogliano. Quest’anno male.

Setti deve tornare a scegliersi i collaboratori giusti, altrimenti la serie B sarà una montagna da scalare, paracadute o meno. Il presidente ha promesso un pronto ritorno in serie A e la parola data va mantenuta, ma serve un vero uomo di calcio nelle stanze di via Belgio e lo spirito rampante di un allenatore emergente.  

CLASSIFICA E BILANCIO IN ROSSO…E PARACADUTI

Il cerchio che si chiude. Il gol del vituperato Lazaros è il metaforico boomerang che ritorna, l’emblema del disastro compiuto la scorsa estate dal cardinal “Schettino”-Gardini e dal suo fidato “curato” Bigon, con l’avallo di Mandorlini, che per un anno l’aveva menata lamentoso sui “18 giocatori nuovi” di Sogliano. Risultato? Rosa corta, poca qualità in campo, zero tra le riserve, mancanza di carismatici riferimenti in società. L’anno scorso i non titolari Nico Lopez, Lazaros, Saviola, Obbadi e Ionita diedero 20 punti su 45 con i loro gol, ma noi, per dire, abbiamo preferito puntare tutto sui soli Jankovic e Gomez, fidati soldatini senza dribbling e senza fantasia, rinunciando all’eclettismo e alla ricchezza di scelte dei precedenti organici. Abbiamo voluto scommettere sulla precarietà fisica di Viviani in un ruolo determinante come quello di regista, senza cautelarci con un suo doppio (Marrone è arrivato a gennaio). Eccetera eccetera.

Apprezzo Delneri, lo considero un maestro di calcio, ma ieri è stato pessimo nella gestione di Fares, prima mortificato da terzino (ancora!), ruolo in cui c’entra come io a un convegno di fisica quantistica, poi sostituito anzitempo per un Gilberto che conosce la tattica come io le canzoni di Mengoni. Confusione?

Gardini se n’è andato, lui era l’uomo dei conti e il Verona, nell’esercizio 2015, ha il bilancio in rosso per 6,92 milioni. L’esercizio precedente si era chiuso in utile, ma solo grazie alla cessione del marchio, definita da Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore di ieri “un’operazione di cosmesi contabile praticata da molte squadre con i bilanci in profondo rosso, per far emergere una plusvalenza che coprisse i buchi di bilancio”, dunque “un’operazione fittizia”. “Senza plusvalenze fittizie – continua Dragoni – il bilancio è tornato in rosso nel 2015”. Eppure in questi anni non sono mancate le plusvalenze vere (10,2 mln nel 2014, 10,3 nel 2015) e i ricavi dei diritti tv. Evidentemente, assodato il giro di affari diminuito e il costo del personale aumentato, la gestione non è stata ottimale. Ciononostante il congedo tra Richelieu e Setti è stato tutto miele che neanche una canzone di Gigi D’Alessio. C’è una logica? Il mondo al contrario?

A proposito di introiti. Da quanto è stato deciso il mega-paracadute pare scemata la tensione emotiva del Verona. ‘Hellas è già in B, con la consolazione di un paracadute da 25 milioni. Alla società conviene la retrocessione, questo l’epilogo più triste” scrive il collega Alessio Corazza del Corriere di Verona sulla sua pagina fb. Bigon smentisce e dice che con i costi che ci sono nel calcio quei soldi verranno “fumati” (usa questo verbo il ds) e quindi retrocedere “sarebbe drammatico per i nostri conti economici”.

Il futuro? Setti deve ripartire da un nuovo assetto societario, ergo una nuova dirigenza. Sull’allenatore invece sospendo il giudizio, anche se ritengo Delneri adatto più a una provinciale ambiziosa in A che a un campionato nervoso e lungo come quello di B. Campedelli, che è uno che nel calcio qualcosa ha fatto (al di là della rivalità), nel 2007 gli preferì Iachini, considerato più adatto per una B a vincere. Riflettiamoci.

Ma non mi stupirebbe se il presidente confermasse  sia il ds che il tecnico. Gino Bartali chiosò: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Ma lui andava in bicicletta, non con il paracadute. 

SETTI, I TIFOSI NON HANNO L’ANELLO AL NASO

Gardini se ne va. C’è chi gli dedica due pagine e titola “sogni di gloria”. Gloria, presumo, quella che lasciava “le chiavi in cucina, nel cestino accanto alla frutta” (cit “Il Piccolo Diavolo”). O, forse, gloria, cioè l’ultimo posto in classifica, un brand internazionalizzato non si sa dove e come, l’aumento del costo degli abbonamenti – memorabilmente definito, in piena crisi economica, “fisiologico” dalla società.

Gardini se ne va, ma Setti dice che non lo sostituirà perché ha già Bigon, che di Gardini è amico, e Barresi, che di Gardini era assistente. Una (non) scelta, l’inerzia della continuità, mentre sarebbe servita una netta demarcazione dal passato visti i risultati conseguiti.

Setti, che quasi quattro anni fa promise un centro sportivo, l’internazionalizzazione del brand (in coro con Gardini) e una serie A stabile. La realtà parla di ultimo posto in classifica, speranze di salvezza residuali (e solo grazie a Delneri), di centri sportivi per ora mai nati e di un’Europa e di un mondo dove il “brand” Hellas è più o meno quello che era prima: pressoché inesistente. La realtà racconta di un Setti a cena con i vertici di Infront, perché poi quello che conta in questo calcio sono i soldi delle tv per sopravvivere, i milioni in più o in meno di un “paracadute”. Vale per Setti come per molti altri presidenti, e non c’è nulla di cui vergognarsi, dato che il sistema è questo e non è certo un presidente con risorse limitate che ha l’onere e la forza di cambiarlo. Il resto è contorno, il resto, per adesso, sono “parole parole e parole”, perlopiù prive del carisma e della classe di Mina.

Per questo, fossi in Setti, darei un taglio al Ranzani dei mirabolanti annunci e resterei preferibilmente Maurizio, quello che deve pensare a budget e management adeguati per rilanciare le ambizioni del Verona, qualsiasi sia la categoria (e le previsioni finanziarie sono ottimistiche anche in caso di retrocessione se il “paracadute” delle retrocesse sarà, come sembra, più alto rispetto agli anni scorsi). I tifosi cantano, amano, soffrono, pagano di tasca loro per l’Hellas, ma non hanno l’anello al naso.   

CULLIAMO IL SOGNO

“Questa squadra avrà mille difetti, ma ha un grande cuore”. La frase di Delneri dopo il derby è sintomatica: il Verona viaggia oltre i suoi limiti tecnici e di organico, in una disperata e romantica rincorsa ed è questo che entusiasma il popolo gialloblu.

Dieci i punti nelle sette partite del girone di ritorno, da quando cioè l’impronta (tattica e atletica) di Delneri e staff ha cominciato fisiologicamente a mostrarsi. L’allenatore ha lavorato anche sui singoli: ha consacrato quello che da molti mesi ritengo pubblicamente il centrocampista più completo del Verona (Ionita), ridato fiato e fiducia a Pazzini in coppia con Toni, migliorato Helander e Wszolek, oggetti misteriosi nella gestione precedente.

Il mercato di gennaio ha poi consegnato, con “appena” 6 mesi di ritardo e di mezzo l’ingaggio del fragile (fisicamente) Viviani e dell’inutile Matuzalem, al Verona un regista. Marrone è determinante e a Roma Greco ce lo ha ricordato (senza colpe, essendo l’ex romanista diventato un centrocampista centrale per mancanza di alternative e non certo per vocazione).

Ecco, credo che l’allontanamento tardivo di un allenatore e il mercato estivo deficitario siano due peccati mortali per qualsiasi dirigente di calcio. Ne ho già parlato, ma lo ribadisco, perché il tema è di stretta attualità se è vero che per il post Gardini (dirigente che non rimpiangeremo) si parla di conferma e ampliamento di poteri per Bigon. Che sia il caso Setti?

Nel frattempo culliamo il sogno che Delneri ci ha regalato. L’impresa resta improba: 12 partite, 3 proibitive (Napoli, Fiorentina, Juventus) e 1 difficile (Milan), le altre 8 invece alla portata. Tra queste tre scontri diretti in casa (Sampdoria, Carpi e Frosinone), ma prima va sbancato il Friuli e risucchiata nella lotta l’Udinese. Non vedo alternative.    

IL SOGNO DI DELNERI E LA DEBOLEZZA POLITICA DI SETTI

Un telespettatore oggi ha telefonato a 91° minuto chiedendo: “Ma voi ci credete alla salvezza?”. “Io non ci credo, ma ci spero” è stata la mia risposta. La classifica continua a piangere e 9 punti dalla quart’ultima (la Samp stasera in posticipo) rimangono un Everest da scalare a 14 partite dalla fine. Però il Verona di Gigi Delneri convince e ci regala un sogno, perché gioca, corre e lotta. Malediremo per l’eternità il tardivo esonero di Mandorlini, la scellerata gestione degli infortunati e gli errori-orrori di mercato della società in estate, ma perlomeno adesso abbiamo riacceso gli entusiasmi e, per come si era messa, non è poco.

Delneri mi è piaciuto anche nelle dichiarazioni della vigilia: “Inutile guardare la classifica, – aveva detto – i punti sono pochi, dobbiamo pensare da grande squadra, cioè vincere spesso, raggiungere Carpi e Frosinone e giocarcela negli scontri diretti”.

Una mentalità che si è concretizzata oggi con l’Inter, con il Verona che per lunghi tratti ha frastornato un avversario forse confuso nel gioco, ma di grande qualità tecnica. Da tanto, troppo tempo l’Hellas non emozionava così; da tanto, troppo tempo non giocava alla pari con big rodate e in piena corsa per l’obiettivo. Ovvio ora nutrire qualche aspettativa anche in vista dell’Olimpico laziale, dove non disdegnerei un punto, a patto di vincere poi il derby.

Sulla mia pagina pubblica facebook in settimana facevo due calcoli sulle 15 partite che rimanevano: mettendo Inter, Fiorentina (fuori), Juve (in casa) e Napoli (fuori) tra le impossibili; Lazio (fuori) e Milan (in casa) tra quelle molto difficili, ma in cui cercare l’impresa; e le restanti 9 come quelle alla portata da non sbagliare. In quest’ottica il punto con l’Inter, in prospettiva, può essere considerato guadagnato, a patto di rispettare una certa regolarità nei 14 incontri in calendario, specie con avversari inferiori. Poi forse non ci salveremo comunque, forse ci mancherà qualche punto, ma in quel caso e a freddo non sarebbe certo questa la domenica in cui cercare rimpianti.

Nonostante, e sia messo in chiaro quest’aspetto, un arbitraggio davvero irritante. Passi (ma anche no) il 3-3 di Icardi in fuorigioco, ma la mancata espulsione di un Felipe Melo per l’ennesima volta in versione Tuco di Breaking Bad (di cui è il sosia) grida vendetta. Senza contare la gestione discutibile della gara. Stefano Rasulo sempre a 91° minuto, ha esortato Setti a farsi sentire, in sede pubblica o privata a sua discrezione. La mia sensazione, però, è che il club in questo momento sia politicamente debole, con Setti che sta giocando la sua partita finanziaria in ottica B (a quanto ammonterà il paracadute e quindi il budget?) e Gardini, l’uomo delegato ai rapporti in Lega Calcio, dato per certo all’Inter (notizia confermata, fatalità, proprio nella settimana della partita con i nerazzurri, le ambiguità di questo calcio!). Meglio dunque non inseguire pie illusioni con il Palazzo. Meglio, decisamente, confidare in Delneri e nel redivivo Hellas. Aggrappandosi a un sogno.