ADESSO DIPENDE TUTTO DA SETTI

Una società, il Verona, e un uomo, Maurizio Setti, in mezzo al guado. Questo emerge dal calciomercato appena concluso. Il limbo dantesco si pone tra la strada delle buone intenzioni, quelle di poche settimane fa (“in caso di retrocessione tenteremo l’immediata risalita”, l’ipse dixit settiano nella conferenza stampa del 13 gennaio), e lo stretto sentiero della dura realtà di una sessione caratterizzata da cessioni milionarie (Sala e Hallfredsson) e ingaggi di calciatori perlopiù in prestito secco.

Qui non si contestano le operazioni in uscita, che anzi il bilancio in rosso, la serie B alle porte e la fine di un ciclo suggerivano; la grande perplessità sta nell’incapacità momentanea del club di guardare al futuro e gettare le basi tecniche per la prossima serie B. Mi sembra che in via Belgio, ora come ora, non abbiano la forza per programmare un nuovo ciclo vincente e che a Setti serva ancora qualche mese per capire con quale budget andare avanti.

Solo una volta misurata la capienza del salvadanaio seguirà a cascata tutto il resto, dalla scelta del management, a quella dell’allenatore e del nucleo di giocatori, penso a Ionita, Gollini, Helander, e Viviani, da cui ripartire se hai ambizioni, o piazzare sul mercato in caso di ridimensionamento e di un torneo di transizione. 

Adesso davvero dipende tutto da Setti. La palla a lui.

LA PROMESSA E LE SCELTE FUTURE DI SETTI

C’è il decadentismo, c’è Nietzsche: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga il tormento degli uomini”. Calza a pennello con lo stato d’animo di chi vive quest’anno le vicende sportive del Verona. Volgiamo settimanalmente lo sguardo avanti con vana attesa: di un futuro più salubre, di un domani più fresco, per non sprofondare nel vuoto del presente, nella viziosità dell’oggi. Ci confortiamo a vicenda che il giorno dopo sarà meglio e la prossima partita quella vincente, scioriniamo i nostri migliori auspici, mostriamo le nostre promettenti intenzioni. E’ un atteggiamento umano e comprensibile, eppure la realtà è impietosa e forse, ancor più dopo il pareggio odierno, sarebbe ora di meditare davvero su una classifica che solo a vederla spazza via il nostro illuso vagheggiare. Una classifica, si badi bene, che è solo la spia sul cruscotto. Al netto della gestione Mandorlini (Setti ha onestamente ammesso l’errore di un esonero tardivo), sono stati compiuti sbagli determinanti nella costruzione della squadra (rosa corta e valutazioni errate in ruoli chiave), che alla prova dei fatti si è indebolita senza il fattore Toni e un parco riserve di minor qualità (la stagione scorsa 20 dei 45 punti finali vennero dalla panchina). L’avvento (tardivo) dell’ottimo Delneri, che ha dato una logica e un gioco, oggi paradossalmente avvalora questa tesi.

Setti nella conferenza stampa del 13 gennaio ha promesso che, in caso di retrocessione, l’obiettivo è risalire immediatamente. Nella stessa circostanza ha ammesso anche di non essere arabo e di non avere gli occhi a mandorla. Pochi giorni dopo il portale Calcio e Finanza ha riportato i dati dell’incidenza negativa della retrocessione (19,4 mln), una perdita coperta in parte da un paracadute di 15 mln (se retrocediamo con Carpi e Frosinone). Senza sceicchi e mecenati, dove non possono i soldi però possono le idee, l’intuito e suole delle scarpe resistenti. Credo che in questo quadro il presidente debba riflettere bene, ancor prima che sull’allenatore, su chi gli costruirà la prossima squadra in sede di calciomercato. Servirà raffinato talento e visionaria creatività soprattutto lì. Suggeriva il grande pubblicitario Bill Bernbach: “Le regole sono ciò che gli artisti rompono; ciò che è memorabile non è mai nato da una formula”. 

LA RETROCESSIONE PIÙ MASOCHISTICA DELLA STORIA

Maggio 2013, Maurizio Setti venne ospite a Telenuovo dopo la promozione in serie A. Pur elogiandolo, specificai che l’avrei valutato solo dopo la quarta annata della sua gestione, ricordando che anche Pastorello fu promosso in A al primo tentativo (con Prandelli), categoria che mantenne poi per tre stagioni. In cuor mio speravo fosse un personale eccesso di prudenza, alla prova dei fatti postumi il mio tiepido entusiasmo di allora era giustificato.

Anche Setti ha dalla sua una promozione e tre campionati di A, ma nel fatidico quarto anno si avvia a far peggio del manager vicentino, dal momento che è riuscito a retrocedere virtualmente già a gennaio in un torneo con Frosinone e Carpi. Nella storia del Verona non era mai successo. Come non era mai accaduto che concludessimo un girone di andata senza vittorie e a soli 8 punti. Siamo quasi al livello del leggendario (si fa per dire) Ancona 2003-04, probabilmente la squadra più scarsa della storia, che concluse il girone di andata a 5 punti, ma in 17 partite (la A era a 18 squadre).

Numeri che si commentano da soli. Numeri figli di una gestione sportiva scellerata, con Giovanni Gardini silente regista di un mercato dai colpi costosi e sbagliati, e poco equilibrato anche nella tempistica – a luglio erroneamente bulimico (Viviani e Pazzini) e ad agosto-settembre già anoressico (Matuzalem). Un mercato, ricordo, condiviso e approvato da Mandorlini, per sua stessa pubblica e spontanea ammissione.

Setti in estate ha rotto gli equilibri consolidati negli anni precedenti; Gardini si è rivelato non all’altezza del ruolo, il resto ce lo ha messo Mandorlini, che aveva dato avvisaglie di stanchezza già l’anno scorso. Sembrava impossibile poter distruggere in pochi mesi un patrimonio di 100 punti in due anni. I nostri tre eroi ci sono riusciti. Se a Piacenza fu la retrocessione più rocambolesca e assurda della nostra storia, questa è la più masochistica. A Piacenza ero triste e incredulo, oggi sono incazzato e consapevole. Non so cos’è peggio.

IL 2015 SIA DA ESEMPIO

Liberate Godot-Ranzani dal “tafazzismo”. E’ questo il mio auspicio per il 2016 che va iniziando. Godot-Ranzani è Maurizio Setti, per la sua inclinazione ad alternare mediaticamente fasi di esuberanza stil-ganassa acuta (Ranzani) – l’ultima è la dichiarazione del 16 novembre “questo è l’anno più bello a livello societario, abbiamo fatto il miglior mercato possibile” -,  ad altre di silenzi e sparizioni (Godot). Liberate il presidente da quel “demone” masochistico che nel 2015, a differenza del passato, gliene ha fatte indovinare poche. Peggio del proverbiale orologio rotto che almeno due volte al giorno segna l’ora giusta, c’è la sequela di errori commessi dalla società di via Belgio da gennaio in poi, cioè dalla detronizzazione nei fatti di Sean Sogliano.

L’ex ds venne messo alla porta in via ufficiosa già un anno fa, con la conseguente promozione di Giovanni Gardini, un uomo dei conti posto, in sostanza, a capo dell’area tecnica. Qui non si tratta di questioni personali e-o estetiche, e non è un’elegia a Sogliano, che peraltro non ne ha bisogno per i risultati conseguiti e la stima che gode nel mondo del calcio. L’analisi è strutturale e complessiva: se Sogliano, a detta di Setti, aveva fatto il suo tempo, andava sostituito con una figura simile per ruolo, potere e carisma. A ognuno il suo, dice un vecchio adagio, ma al Verona così non è stato e l’assetto orizzontale (area amministrativa e tecnica gestite da due manager diversi), che era stato la cifra vincente della prima presidenza Setti, è diventato assetto monocratico, con Gardini uomo forte al ponte di comando e Mandorlini promosso con un biennale (lui che, per sua stessa ammissione, il meglio lo dà sotto pressione) e qualche accredito sul mercato (nonostante i precedenti fallimentari di Tachtsidis e Bielanovic). I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Va ripristinata la versione originale e Bigon deve pretendere, già da questo mercato, di far da sé (assieme a Delneri). Assodato questo e a prescindere dalla categoria, con l’estate Setti dovrà ovviamente provvedere a una seria valutazione del lavoro degli stessi Gardini e Bigon. Perché sbagliare è concesso a tutti e a Verona non se n’è mai fatta una questione di categoria, ma perseverare sarebbe imperdonabile. Tradotto: se sarà serie B ce ne faremo una ragione (ma con dignità e lottando, of course, per questo sono sgangherate le recenti dichiarazioni di Mandorlini sul “retrocedere tutti assieme”, quasi che il Verona fosse lui); in caso di miracolosa salvezza avranno diritto di far festa solo i tifosi. Per Setti, in ogni caso, l’occasione sarà propizia per meditare sui propri gravi sbagli, in modo da non replicarli. Che il 2015 sia da esempio.

MA SETTI, GARDINI E BIGON DOV’ERANO?

Gigi Delneri, stasera: “Fisicamente abbiamo margini di miglioramento elevatissimi. Dobbiamo riempire il serbatoio, oggi al termine eravamo sfiniti, a Milano anche. I giocatori dovranno lavorare anche in questi sette giorni di riposo, da casa, poi andremo in ritiro e se sarà necessario faremo anche lavoro doppio. A metà gennaio dovremmo essere a posto”.

Parole che sarebbero normali a fine agosto, o ai primi di settembre, dopo i turni eliminatori di Coppa Italia o le prime giornate di campionato, ma che suonano inquietanti il 20 dicembre, dopo quasi quattro mesi di campionato e cinque dall’inizio della preparazione. La domanda sorge spontanea: che situazione ha ereditato, il 30 di novembre, Delneri da Mandorlini? Come si lavorava prima? Giovanni Vitacchio, stasera, ha riferito le parole di Maurizio D’Angelo, collaboratore tecnico di Delneri, sugli esiti drammatici dei test atletici effettuati sui giocatori dal nuovo staff tecnico al suo insediamento. Eppure Setti, Gardini e Bigon, che avrebbero dovuto, da dirigenti, monitorare, analizzare e controllare, per lunghi mesi ci hanno detto che i cattivi risultati erano solo sfortuna e colpa degli infortuni, e non hanno mosso foglia. Non si sono accorti di nulla? I test atletici prima non erano consuetudine? E se sì, non ne hanno chiesto conto? Hanno fatto finta di niente, sperando che accadesse l’imponderabile a segnare una svolta positiva alla stagione? Perché, intendiamoci, con siffatta condizione atletica (tralasciando quella tattica per carità di patria), quella che, per dirla con Delneri, “i macchinari ci segnalano”, solo l’imponderabile o la biblica manna dal cielo avrebbero potuto resuscitarci.

In entrambi i casi, insipienza o noncuranza, saremmo di fronte a un errore gravissimo della dirigenza. Un errore che solo un miracolo sportivo potrebbe non rendere esiziale.

DELNERI E QUELLA LETTERA A SANTA LUCIA…

La settimana scorsa avevo parlato di tempo perduto, riferendomi al tardivo cambio di allenatore. Adesso vorrei scrivere di speranza. Flebile, piccola, ma una speranza c’è. Ce la riconsegna Santa Lucia; la letterina l’ha scritta Gigi Delneri, che si è dimostrato non meritevole del carbone, dando al Verona nuova linfa attraverso tre elementi: la tattica, la psicologia e il carisma.

TATTICA. “Ora c’è una logica” aveva detto Delneri, nonostante l’immeritata sconfitta, nella sala stampa del Bentegodi dopo la partita con l’Empoli. Aveva ragione e la partita di San Siro lo ha confermato. “L’Empoli non è stato un fuoco di paglia” ha chiosato, rinfrancato, ieri il baffo di Aquileia. Già, l’Hellas ora è disposto in campo con criteri moderni, squadra più alta e più corta, l’assetto favorisce un regista come Viviani, che la palla la sa far correre, l’estro di Siligardi, che ha bisogno di minuti per affinare una condizione atletica che ancora non gli permette di essere lucido nell’ultimo tocco e nei cross dal fondo, e l’universalità di Ionita, che già qualche mese fa annoveravo come il centrocampista più completo della rosa. E’ chiaro che, al di là dei moduli (4-1-4-1 o 4-2-3-1 con Ionita guastatore, o il proverbiale e presumibile 4-4-2 delneriano con il rientro di Pazzini) giocando così servirebbe reperire sul mercato un ala destra di valore, ma di mercato parleremo nello specifico dopo il Sassuolo.

PSICOLOGIA. Delneri lo ripete come un mantra: “Non guardiamo la classifica”. Non è una frase di circostanza, ma uno slogan che racchiude una filosofia: predisporsi mentalmente per la partita singola, ricercare la motivazione nella bellezza che può rappresentare l’impresa domenicale. “Dobbiamo giocare per il senso di appartenenza che rappresentiamo, cioè il club con la sua storia e i suoi tifosi, e dobbiamo giocare anche per noi stessi e la nostra dignità”. Delneri non vuole caricare il gruppo con l’ansia dell’ultima spiaggia, nel timore di perderlo mentalmente in caso di incidenti di percorso. Ovvio che il confine è labile: lo stress da classifica fisiologicamente subentra comunque, ma Delneri lavora per ridimensionarlo. E’ una finezza per nulla scontata.

CARISMA. Delneri ha pedigree e storia, ha guidato grandi club (Porto, Roma, Juventus) e allenato in piazze calde (Samp, Palermo e Atalanta) e non ha nulla da perdere e solo da guadagnare (è subentrato a situazione compromessa). Ecco spiegata la serenità e la convinzione che emana e che è riuscito a trasmettere alla squadra. A sentirlo parlare e nel vedere il Verona in campo, se non conoscessimo la classifica, ci sembrerebbe di essere in piena corsa salvezza.

Basterà? Razionalmente no. Ma oggi una speranza c’è. Viviamola.

L’AMAREZZA DEL TEMPO PERSO

Dopo aver visto il Verona di ieri (difesa alta, squadra corta, gioco e intensità) abbiamo la conferma che nulla prima aveva senso. Non lo aveva la squadra in campo; non lo aveva il campionario di frasi fatte per giustificare ogni debacle; non lo aveva una mentalità fatta di amici e nemici, di iconologici gufi e presunte cornacchie, da additare al pubblico ludibrio per abbandonarsi poi al furbo vittimismo; non lo aveva la difesa ad oltranza dell’indifendibile.

Ma abbiamo perso. Abbiamo perso ancora, obietterà qualcuno. Certo, contro l’Empoli sorpresa del torneo (capace di battere la Lazio e fermare Napoli e Fiorentina). Ma abbiamo perso e nel calcio, si sa, contano i risultati. Magari perderemo anche con il Milan e la Juve e non batteremo il Sassuolo. Il calendario (Palermo a parte) da qui a fine girone di andata è proibitivo e giocare con l’affanno psicologico di chi è disperato e all’ultima spiaggia porta a perdere partite come quella di ieri, quando l’Empoli – inferiore sul piano delle occasioni e del possesso palla, ma sornione, lucido e libero – alla lunga ha vinto sui nervi.

Eppure ieri abbiamo visto… calcio. Tiri in porta. Giocatori nel loro ruolo. Un’organizzazione di base. “Ora abbiamo una mentalità con la quale possiamo cercare di andare a vincere in ogni campo” ha detto in sala stampa Luca Toni a Giovanni Vitacchio. (Già, ora).

Straordinariamente ordinario, sorprendentemente banale. Irrimediabilmente amaro nel retrogusto di un’inquietante consapevolezza: quella di aver perso tanto, troppo, tempo.

P.s. Inopportune le parole di Toni sul suo ritiro a fine stagione, ma dettate da istintivo sconforto, dalla comprensibile e nervosa amarezza del momento, dai gol sbagliati (come ha ammesso lui stesso) e da una condizione che ancora non arriva. Non da dietrologie o secondi fini, come ho letto.

UNA GESTIONE CONFUSA

C’è un’assenza nel tempestoso flusso di cronaca. C’è un vuoto nella frenesia di queste ore. Lucidità, questa sconosciuta, pare, in via Belgio. La gestione dell’esonero di Mandorlini e della nomina del suo successore mostra la confusione che da qualche mese a questa parte alberga nella dirigenza del Verona.

Ricapitoliamo. Ieri Mandorlini si presenta a Peschiera, dove si allena la squadra, da esonerato (di fatto). Contemporaneamente, e per lunghe ore, si consuma il surreale triangolo Verona-Corini-Chievo. Vallo a spiegare a un tifoso dell’Hellas che per avere Corini (non Ferguson, non Ancelotti), simbolo Chievo, con un plus di vecchie ruggini per un derby passato, devi chiedere permesso a Campedelli, per i tifosi del Verona simpatico come una zanzara in camera da letto (ciò non toglie che Campedelli, avendo Corini sotto contratto, ha tutto il diritto di tutelare i suoi interessi per svincolarlo). Ieri un maestro del giornalismo come Adalberto Scemma è stato tranchant: “Pensare a Corini è da neuroni scollegati”. Ovviamente Scemma esagera, utilizzando da abile maestro qual è il genere giornalistico dell’invettiva, tuttavia appare chiaro come la dirigenza sia arrivata con il fiatone a pensare al dopo Mandorlini. E col senno di poi forse si spiegano le numerose chanches, quasi a sfiorare il grottesco, concesse al vecchio allenatore, che sarebbe stato da esonerare prima di arrivare alla disperazione.

Lo scrivo con disincanto, al di là del carico di sentimenti (innegabili) che l’allontanamento di uno come Mandorlini porta con sé: per i suoi cinque anni carichi di significato, per i risultati ottenuti con Martinelli, Gibellini e Sogliano, e soprattutto per il rapporto intenso con la piazza, da capopopolo prima, da intoccabile a prescindere o capro espiatorio di tutti i mali poi, quando il suo nome è diventato divisivo. Di Mandorlini non mi è mai piaciuta la tendenza a prendersi i meriti e ad additare i suoi critici come ‘non tifosi’ del Verona (invece l’amore per il Verona e la critica a un allenatore-dirigente-calciatore sono due piani distinti e non sovrapponibili). Non ho mai amato la sua tentazione di scaricare le colpe (il ritornello dei “18 giocatori nuovi” dell’anno scorso) e cercare nemici inesistenti. Avrei preferito senz’altro che il suo gioco non fosse monotematico e che evitasse fissazioni per alcuni giocatori e idiosincrasia per altri. Mi è piaciuto da matti invece nel suo politicamente scorretto: la tuta in panchina anche in serie A, lo spareggio di Salerno, le corna di Cittadella, la canzone degli Skiantos. Cose di calcio, cose di campo, cose di nervi, cose di fazione, che dovrebbero lì nascere e morire, e invece (purtroppo) puntualmente vengono megafonate in negativo da un circuito mediatico ipocrita e paraculo.

Non so cosa riuscirà a combinare Gigi Delneri, che ho conosciuto nella sua seconda esperienza al Chievo nel 2006-07, ai tempi in cui per il Corriere di Verona e il Corriere del Veneto seguivo giornalisticamente le vicende del club di via Galvani. Una carriera scostante quella del ‘baffo di Aquileia’, di grandi alti e grossi tonfi, prima precursore tattico (la difesa altissima e il fuorigioco sistematico) e poi dimenticato.  Con lui ebbi anche uno ‘scazzo’ a Veronello per un articolo, ma gli ho sempre riconosciuto la ruvida sincerità del ‘non mandarle a dire’.

La situazione è disperata e le sorti del Verona sembrano segnate. Ma “io credo nei miracoli” canta l’eclettica Cristina Donà. Metto lo stereo e mi affido a lei.

QUELL’AMORE CHE CI FA (ANCORA) SPERARE

Scorgi speranze nelle parole, accarezzi rivalse nelle interviste: l’eterna fiera degli auspici, l’imperitura mostra degli intenti. Poi c’è il campo, crudo e amaro, dagli echi sordi e l’esito spietato. Poi c’è il calcio, questo immancabile assente negli arancio-giallo-fluo-blu navy. Ma si sa, anche “i colori non sono importanti” (sic) disse Richelieu, che infatti veste sempre di grigio, e poi anche Ranzani in tv, a domanda di un tifoso, tuonò sarcastico al riguardo, avendo dimenticato l’empatia oltre che i calzini. “Conta lo spirito”, ci raccontò Gardini, a cui noi – umani, sentimentali, deboli che ci innamoriamo della vita, del Verona, della musica, della carnalità, degli edonistici tormenti di Hemingway, delle donne – cediamo incantati al fascino del suo statuario celarsi, alla superiorità del suo disincanto. E lo spirito in effetti c’è, nel senso che è un fantasma e non si vede.

Palpabile invece è lo shock, il nostro, per la piega surreale che ha preso la stagione e per come viene (mal) gestita la crisi: con dichiarazioni sconcertanti, poca umiltà, alibi alla lunga grotteschi, infortuni muscolari dopo una sosta di due settimane, disperata ricerca di inesistenti nemici. Setti ci racconta di un grande mercato e di una società che mai ha lavorato così bene, puntualizza che il Verona è suo (e noi gli crediamo), senza tuttavia smontare punto per punto l’articolo del Corriere della Sera sulle finanziarie; Bigon spiega che lui è contro i ritiri, ma poi comincia a mandare la squadra puntualmente in ritiro; sempre Bigon convoca conferenze stampa per fare domande anziché dare risposte; ancora Bigon concede un “mi prendo le colpe”, salvo poi non specificare quali e anzi negarne un bel po’; Gardini – che poi è quello che decide – invece se ne sta dietro le quinte, mentre Mandorlini, spaesato, non sa più che fare e dire (e mi dispiace, per il Verona, ma anche per lui, che è colpevole, ma meno di altri, e poi a forza di criticarlo mi ci sono affezionato e non dimentico cosa ha fatto assieme a Martinelli, Gibellini e Sogliano).

Ma noi, che abbiamo vissuto un’infanzia felice, di affetto familiare, gioco, amici, curiosità e amore per il Verona non vogliamo incupirci, anzi è proprio l’amore per l’Hellas che ci tiene aggrappati, pur affannati, impauriti, forse increduli, alla speranza. Ci affidiamo al rientro di Toni, al vecchio stellone (dove sei?) di Mandorlini e alle parole di un uomo vero come Vangelis Moras (“siamo sempre usciti dalle difficoltà”). Con Frosinone e Empoli avremo il groppo in gola e lo stomaco spettinato per l’ansia: ci giochiamo le residue speranze di salvezza. Teniamole vive.

COMANDA SETTI, MA DECIDE GARDINI

Il “rappresentante della proprietà” (cit.) è Maurizio Setti, ma chi decide, nel Verona, di fatto è Giovanni Gardini, personaggio che, nel ‘cono d’ombra’ in cui ama rifugiarsi, detta la linea al titolare di Manila Grace, che invece appare e scompare, tra Ranzani e Godot, tra gli istrionici interventi con lustrini e paillettes per presentare Pazzini e le significative ‘fughe’ di sabato sera.

Il Cardinale Richelieu, che è un abile tessitore politico, intelligente, scaltro, cinico quanto basta, è l’uomo che esce vincitore dalla ‘vicenda Mandorlini’ (alla resa dei conti spero vinca anche il Verona, ma lasciatemi i miei umani e modesti dubbi). E’ lui infatti il ‘padre’ del biennale al tecnico romagnolo; ed è lui – dice chi lo conosce bene – che in questi giorni si è prodigato nel ‘lavorare ai fianchi’ Setti per evitare l’esonero del suo pupillo. Il mantra utilizzato? Il solito: con il recupero degli infortunati, e soprattutto di Toni, la situazione migliorerà e bla bla bla. A fronte di queste ‘alte’ motivazioni non ci resta che inventarci una speranza, aggrapparci alle “fantasie che volano libere” di vaschiana memoria. Nel frattempo vorrei smontare qualche luogo comune di questi giorni.

Non è vero che Mandorlini rimane perché “non c’erano alternative”. Le alternative a questi livelli ci sono sempre, dipende ovviamente dal peso delle proposte. Anzi, più un dirigente (sportivo e non solo) sa individuare alternative a ciò che non funziona, più è bravo. In sintesi: chi vuole può e chi non vuole non può.

Non è vero che “piuttosto di Ballardini e Di Carlo, meglio Mandorlini”, come sostengono gli ottimisti (si fa per dire). Come ho detto sabato a 91° minuto, Mandorlini ora è il più antimandorliniano degli antimandorliniani. Mesto e rassegnato in sala stampa, inerme e inefficace in panchina. Certo, non si dimetterà mai (c’è un biennale in ballo), ma sabato parlava già da ex (“non sarò mai un problema per il Verona”). Quale filo logico-sportivo può aver indotto alla sua riconferma? Io non lo trovo, ma Gardini è senz’altro più intelligente di me. La sensazione, anzi la quasi certezza, è che rispetto a questo Mandorlini, anche i vituperati Ballardini (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che oggi ha firmato per il Palermo, non la Longobarda) e Di Carlo (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che in A ha un pedigree migliore di Mandorlini) avrebbero fatto la loro figura. Ma non solo loro.

Non credo nemmeno che “siano finiti i soldi”, altro ritornello da social e nei sussurri del bar. Perché allora non si spiegherebbero i milioni di euro spesi in estate per il cartellino di Viviani e per contrattualizzare cinque anni il 31enne Pazzini. Certo, tante cose non si spiegano, ad esempio perché dopo i botti di luglio ci si sia ridotti a ingaggiare a settembre lo svincolato e stagionato Matuzalem, determinante come Mauro Repetto negli 883. Ma questo, abbiate pazienza, ce lo spiegherà Max Pezzali.