Con la grande pax Setti e Volpi il Verona torna a essere società tecnicamente vendibile. Con i conti pure più leggeri dopo il risanamento di gennaio, realizzato grazie a un mercato in uscita che ha portato nelle casse del club 40-45 milioni di euro. Ciò non significa ovviamente che Setti venderà tutte o parte delle quote, ma che potrà farlo se vorrà.
La domanda cruciale è: Setti desidera davvero vendere? La trattativa quasi chiusa a dicembre, prima del sequestro delle azioni, con il fondo anglo-americano suggerirebbe di sì. E altri indizi raccolti confermerebbero la sua intenzione di fare un passo indietro a giugno (almeno parziale, quindi cessione della maggioranza delle quote e ruolo operativo). Qualcuno dice che Setti, dopo aver passato nei mesi scorsi seri guai finanziari, ora si rende conto di non poter continuare a giocare al limite delle proprie possibilità.
Questo razionalmente. Tuttavia sappiamo che certe scelte hanno anche un carico emotivo: a Setti piace far calcio, è a suo agio nell’ambiente, esserne parte lo vive come status sociale e le amicizie con chi conta in Lega – leggi i Lotito, De Laurentis e Galliani – sono ancora solide. Inoltre c’è il business. Il Verona per Setti è stato ed è ricca fonte di reddito. Si può rinunciare a tutto questo? Peraltro, proprio il carpigiano continua a dimostrare che si può spendere poco, ottenere plusvalenze (da cui riceve ulteriori bonus) e restare in serie A (il Verona ha buone chances di confermarsi per il sesto anno consecutivo), categoria che dà una valanga di milioni in diritti tv e introiti (il fatturato del bilancio 2022-23 è stato di quasi cento milioni…). La serie A è una gallina dalle uova d’oro, altroché.
Affinché il “giochetto” del massimo risultato con il minimo sforzo abbia possibilità di continuare, però, bisogna affidarsi a manager alla Sogliano, capaci di portare qui giovani talenti e di rilanciare i calciatori esperti. Ma comunque non è detto che ti vada sempre bene, come non è detto che Sogliano rimanga a scatola chiusa, ergo senza garanzie tecniche, e si sia in grado di assumere una figura simile a lui.
Il bivio è lì. Se da un lato Setti, da uomo pratico, forse è il primo a rendersi conto di aver rischiato l’osso del collo, dall’altro l’adrenalina che dà il calcio, il suo modo di fare business, i soldi e i rapporti che ci girano attorno, sono comunque argomenti “sensibili” per chi, figlio di un elettricista e di una casalinga, partito da autista e poi magazziniere, in oltre trent’anni di vita imprenditoriale ha costantemente tenuto il piede sull’acceleratore (nei tempi d’oro Setti era arrivato a sedere contemporaneamente in 13 cda) e ha saputo spesso correre sul filo anche con una certa disinvoltura. Ma è ancora tempo di “azzardi”? E fino a quando?