IL VERONA? MOLTO PIU’ DI UNA CLASSIFICA

“Col Napoli non è una partita come un’altra e sarebbe servito un altro atteggiamento, al di là di classifica, punti e di fine o non fine stagione”. Ieri sera al Vighini Show ho esordito così. Il calcio non è solo matematica, marketing o business, ma soprattutto senso evocativo e identitario (suggestioni di cui peraltro si nutre lo stesso marketing) e ci sono partite che hanno una loro narrazione e il cui significato prescinde da tutto il resto.

Checché ne dicano i buonisti d’accatto, i quali blaterano di modello inglese (brividi sulla schiena, Oltremanica hanno nascosto la polvere sotto il tappetto ed eliminato la cosiddetta working class dagli stadi), di “stadi-teatro”, di curve plastificate stile commodore 64 e altre mostruosità simili, il calcio è senso di appartenenza, fazione, rivalità. Popolare e interclassista per definizione, esso è permeato di contrapposizioni del tutto naturali: odio (sportivo s’intende) contro amore, amico contro nemico ecc.

Come già accaduto altre volte (all’andata col Chievo, o lo stesso Napoli e con l’Inter al Bentegodi) in questa bellissima stagione, il Verona ha prestato il fianco a un rilassamento psicologico che, riverberatosi in campo, si è tuttavia alimentato di vigilie troppo morbide e mielose. Ricordate il pareggio impresa con la Juventus? O la vittoria contro il Milan di Balotelli? O il derby di ritorno? Ma anche le sconfitte combattute con le stesse Juve e Milan a casa loro? Quelle domeniche (o quei sabati) ci siamo emozionati non per questioni di classifica, ma per la storia intrisa di rivalsa e rivalità che quelle partite ci suggerivano, per le suggestioni che evocavano. Per le stesse ragioni la sconfitta di domenica sera e le altre succitate ci hanno lasciato un filo di amarezza.

E’ un po’ il discorso dei “40 punti”. Nessuno pretendeva l’Europa, ma solo di sognarla e inseguirla, e non per fregole tecniche o improvvise ambizioni (che lasciamo volentieri a quei club e a quei tifosi che pensano che il senso del calcio sia solo primeggiare), ma per uno slancio romantico, per costruirci il nostro romanzo. L’immaginario di noi tifosi si nutre di sfide: scudetto e gloriosi anni ’80 a parte, ci ricordiamo più dei mediocri anni di Mutti (non me ne voglia il buon Lino), o degli spareggi di Terni, Reggio Calabria, Busto Arsizio, Salerno?

La società, Mandorlini e i ragazzi ci hanno provato a inseguire il sogno (chi non ci crede vada a rivedersi le facce di Setti, Sogliano e del mister all’Olimpico dopo il “furto” di Mazzoleni), tuttavia la sensazione è che abbiano cominciato a farlo troppo tardi. Grida vendetta quel mese di marzo post “40 punti”, quelle 4-5 partite un po’ così…

La speranza è che il prossimo anno, comunque vada (che ci si ripeta, che si navighi a metà classifica, o che si lotti per la salvezza non importa), si tenga sempre tirato il filo della tensione. Perché vestire gialloblu va oltre a punti, classifiche e obiettivi. Vestire gialloblu va oltre a questo calcio moderno sparagnino e calcolatore.

Detto questo, che scrivo in ottica positivista come sprone per il futuro, dobbiamo fare i complimenti a società, allenatore e squadra. Sento in giro: “Stagione irripetibile”. E chi l’ha detto?

 

GRAZIE VERONA!

Va bene va bene così, cantava Vasco. Quel pezzo era più una rassegnata e fatalistica scrollata di spalle, che un gioioso accontentarsi. Ho colto la stessa delusa rassegnazione nella parole di Mandorlini ieri in sala stampa dopo Verona-Udinese. Più che l’orgoglio per il brillante campionato della sua squadra, il tecnico mostrava rammarico per l’obiettivo sfumato dell’Europa League: “Siamo contenti per quanto fatto, ma è ancora troppo fresca la delusione, permettetemi quindi di essere un po’ così…”, il suo esordio davanti ai microfoni.

Quindi oggi anche noi scriviamo “va bene va bene così”, ma a caldo (e solo a caldo) sappiamo che va bene a metà. L’occasione era ghiotta ed è sfumata per gli episodi di Roma lunedì e qualche punto di troppo lasciato per strada.

Il “furto con scasso” (per la sua grossolanità) di Mazzoleni ancora si faceva sentire ieri in campo. Mandorlini alla fine l’ha confermato: “Se avessimo vinto a Roma, avremmo giocato con un altro spirito oggi”. Invece si è visto un Hellas scarico, come se la benzina fosse finita, arroccato sulla difensiva e a maglie larghe nella propria area di rigore. Un Verona che ha confermato quanto diciamo dall’inizio: costruito per offendere e non difendersi, dà spettacolo quando impone il suo gioco, mentre se si “abbassa” troppo prende paga, per caratteristiche e anche per il livello non eccelso dei suoi difensori.

Peccato dunque, ma resta l’orgoglio di essersi riaffermati a grandi livelli dopo tanti anni. Adesso verrà il difficile, confermarsi, ma la sfida sarà anche affascinante. Ma per il futuro c’è tempo, ora digeriamo la delusione e sorridiamo per quanto il Verona ci ha regalato. Troppi anni di retrovie, pugni nei denti e foto scolorite in soffitta, quest’anno ci siamo ripresi il palcoscenico e il voluttuoso piacere di attimi di superba gioia. Grazie Verona!

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FURTO CON SCASSO

Furto con scasso. Altro che “Malox per pettinarci lo stomaco” (cit.), qui brucia tutto e non si pettina un bel niente. Quel rigore alla Lazio grida vendetta. Senso di impotenza, pugni all’aria, nervi a fior di pelle. Sogliano si morde la lingua e chissà quanto gli deve costare. Mandorlini, imbufalito con l’arbitro Mazzoleni, sfiora la rissa con Reja: interviene Gardini che se lo porta via per evitargli guai peggiori (o forse li evita Reja). Mazzoleni, angosciato e remissivo come un bambino scoperto a rubare la caramella, guadagna l’uscita: ha timbrato il cartellino e compiuto il suo dovere.

Italia del Gattopardo. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, spiegava arguto e spregiudicato Tancredi Falconeri nel romanzo di Tomasi di Lampedusa. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’azzecca”, sosteneva Belzebù Andreotti, che di cose maligne se ne intendeva.

Lazio-Verona per il Palazzo doveva finire pari e pari è stato. A cosa è servito Moggi? Perché l’ex arbitro De Santis è stato radiato? L’avete mai letto il corrosivo e sarcastico Daniel Pennac? Inventò il signor Malaussène, di professione capro espiatorio. Designare chi si prende le colpe e sacrificarlo è un modo per fingere di fare pulizia e nel frattempo “gattopardescamente” riciclarsi e combinarne di peggio.

Il calcio non è pulito, non lo è mai stato e Genny ‘a Carogna stavolta non c’entra. Lo sporca anche (soprattutto?) chi non ha tatuaggi, ma porta la cravatta e copiosi sorrisi di circostanza. Signori in abiti eleganti che la faranno franca, fino al prossimo scandalo, fino al prossimo capro espiatorio, fino alla prossima rivoluzione del “tutto cambi perché tutto rimanga com’è”. E mentre noi quel giorno alzeremo le spalle rassegnati e senza stupore, un nugolo di squali complici si mostreranno verginelle violate scandalizzate, in attesa di servire il prossimo Gattopardo. E’ il “circo mangione” (cit.), rutilante e falso, eterno e trasformista. Venghino signori venghino…

P.S. Grazie Verona, società, staff tecnico e giocatori: ci avete fatto divertire e sognare!

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16 MARZO 1988: VENTISEI ANNI DOPO…

“Te lo ricordi?”, cantavano struggenti gli Stadio nel 2000. Dodici anni prima, il 16 marzo 1988, il Verona giocava la sua ultima partita in Europa. “Te lo ricordi?”. Dannata serata di Brema: quarti di finale, Kutzop del Werder che indovina l’incrocio da trenta metri nonostante il volo impossibile di Giuliani, Volpecina che di testa pareggia e ridà fiato alla speranza. Vanamente, alla resa dei conti. L’andata a Verona era finita 1-0 per i tedeschi, sigillo di Neubarth, nervosismo di Elkjaer, assente al ritorno. Il cammino sin lì era stato esaltante, calcisticamente e letterariamente, tra trasferte impossibili negli allora regimi comunisti di Polonia (Stettino) e Romania. “Te lo ricordi?”, la neve della grigia Bucarest, i cronisti di allora che narravano di stucchevoli disagi logistici, Ceausescu che sarà giustiziato appena due anni dopo… A noi bambini attaccati a un sogno quelli sembravano mondi impossibili, specie in quei gaudenti anni ’80, e quelle imprese ai nostri occhi acquisivano ancora più solennità.

Eravamo in film… con un brutto finale. Brema infatti segnò, ipso facto, l’epilogo del grande Verona di Bagnoli. Sebbene l’Osvaldo resterà ancora due stagioni in gialloblù, la magia si spezzò ineluttabilmente quella sera al Weserstadium, contro i verdi di Herr Otto Rehnagel e di Frank Neubarth e Karl Heinz Riedle. Il canto del cigno si formalizzò con un finale di campionato mediocre e le partenze estive degli ultimi reduci dello scudetto, Elkjaer, Di Gennaro, Fontolan e Volpati.

Da lì in poi quasi tutti dolori: Cesena e il condor Agostini, le “Fata Morgana” Caniggia e Stojkovic, la stanca fragilità del Verona di Reja, la mediocrità degli anni di Mutti, la sfacciata presunzione di Cagni, le illusioni di Malesani, gli inganni di Pastorello, i raggiri subiti da Arvedi in un verminaio di cardinali e soldi falsi, faccendieri e malaparata. In mezzo sublimi quanto effimere gioie: la promozione nell’anno del fallimento con Fascetti, l’acquisto di Piksi e l’esaltazione “da spiaggia” di Eros Mazzi (“stano nemo in Uefa!”), “Perotti sì sì sì stano ghe la femo nemo su dalla B”, il gioco arioso di Prandelli e l’indolente genio di Morfeo, la corsa sotto la curva di Malesani e i dribbling di Mutu, le speranze di Ficcadenti…

Fino a Martinelli, fino a Mandorlini, fino a Setti, fino a Sogliano… Fino a questo esaltante campionato che adesso, a tre partite dal traguardo, ha maturato un pensiero proibito: l’Europa League.

Difficile, ma possibile. Mandorlini ci crede eccome, più di quanto dia a vedere. I giocatori idem. Ci riescano o meno, sarà stato bello comunque, ovvio; però tornare a varcare confini che ora non esistono più sarebbe la chiusura dell’ennesimo cerchio. Brema è ancora lì, ventisei anni dopo. “Te lo ricordi?”.

PERCHE’ DEVE FINIRE PROPRIO ORA?

Peccato che sia quasi finita. Paradossi: c’è spazio pure per un filo di rimpianto. Il Verona avvincente di quest’anno si sta superando, lambendo la perfezione a poche giornate dalla conclusione. Un tridente spettacolare, dove l’innesto e la crescita di un centrocampista puro come Marquinho permette a Iturbe (i terzinacci avversari gli consentiranno di finire una partita?) o a Gomez più libertà e quindi a Toni più sostegno. Un Sala nuovo campioncino da coltivare. La scoperta (tardiva?) di Pillud e la virata decisa (finalmente!) verso la coppia centrale (Moras-Marques) più forte. Mandorlini più flessibile e coraggioso. Che diceva Lubrano? La domanda sorge spontanea: perché deve finire proprio ora?

Stiamo coltivando un sogno che non avremmo mai più pensato dopo i leggendari anni ’80. Sarà difficile raggiungere l’Europa League, ma è già bello essere lì a provarci. Serviranno come minimo altri sette punti nelle tre partite che restano, dunque un’impresa a Roma con la Lazio, o a Napoli. Godiamocela.

P.S. Errore madornale la sostituzione di Toni, ma ancora più sbagliata la sua reazione. Non togli alla mezz’ora contro l’ultima in classifica il tuo bomber che sta lottando per i cannonieri, è l’abc della psicologia. Ma quello che ne è seguito è ingiustificabile e fuori luogo.

P.P.S. Mandorlini supera Bagnoli nel computo delle vittorie in serie A in un singolo campionato. Complimenti.

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MANDORLINI, QUESTIONE RINNOVO

Sfidando le leggi della gravità, cioé della precarietà insita nel calcio, Mandorlini l’ha buttata lì. Ridendo, certo. Scherzando, ovvio. “Cazzeggiando”, of course. Ma, intanto, l’ha buttata lì: “Fossi Setti mi farei un contratto a vita”. Sornione e felpato, il mister, tempra romagnola, uomo di mondo che conosce a menadito le leggi del calcio.  Dire a nuora (in questo caso l’opinione pubblica) perché suocera (la proprietà) intenda…

Il tecnico di Ravenna sa usare i mezzi di comunicazione. Irrequieto, esuberante, mattatore, certo, ma anche scaltro, scafato e intelligente. Così tra un elogio a Iturbe, una carezza a Cirigliano e i complimenti al redivivo Donati, il gregario di provincia che fregò il posto al due volte campione del mondo Passarella ha spostato l’attenzione mediatica sul rinnovo del suo contratto. Non è un mistero che lui punti a un prolungamento di almeno due anni a determinate cifre, mentre la società preferisce un annuale ad altre cifre. E’ il gioco delle parti nel corso di una trattativa che merita silenzio e rispetto. E’ in discussione anche l’aspetto tecnico, ovviamente, che poi per il club è strettamente legato a quello aziendale (i giocatori sono pedine da valorizzare economicamente), per il mister è solo…tecnico.

Il calcio è cambiato, si suol dire, spesso abusando di quest’espressione. Tuttavia calza a pennello nella fattispecie. L’organizzazione non è più verticistica e patriarcale, ma orizzontale e manageriale. Ai tempi dei Rozzi, Anconetani o, per rimanere a Verona, dei Garonzi ma anche – seppur sia l’altro ieri – dei Martinelli, il rinnovo sarebbe stato automatico per meriti acquisiti. Adesso così ragiona solo il tifoso, non i club (qualsiasi club, non il Verona in particolare), che partono da una prospettiva diversa: non tanto “quanto è stato fatto”, ma “cosa si dovrà fare”. Ed è anche su questo che si sta discutendo tra allenatore e società. Tradotto: progetto giovani (altri da valorizzare) per Setti, qualche veterano e certezza in più per Mandorlini, che i ragazzi preferisce farli giocare solo se pronti e forti (Iturbe e Jorginho), meno se in fase di maturazione (Cirigliano e Sala).

Eppure, come ho scritto qualche settimana fa, il mister in questi anni ha dimostrato di sapersi adattare (seppur con qualche testardaggine qua e là e temporanei cali di tensione) ai cambiamenti: societari, tecnici, comportamentali. Gli va riconosciuto, credo perciò che abbia tutti i requisiti per cominciare un nuovo ciclo. La società vuole, lui vuole, aspettiamo la firma.

ITURBE DOPO ELKJAER

Corre come Diego Armando, Juancito. A spalle alte e un po’ ingobbite, la palla incollata al sinistro ai cento allora. Il suo fisico è un formidabile equivoco: minuto eppure forte. Il suo calcio è un ossimoro: possente nella corsa, lieve nel tocco. “Iturbe è un incrocio tra Messi e Maradona, con le dovute proporzioni”, l’endorsement di Pierino Fanna lo scorso ottobre. “Ma chi è quello lì? Questo è forte davvero” rivelava l’attaccante del Bologna Moscardelli ad amici veronesi la sera stessa della rumba presa contro il Verona al Dall’Ara, con Juancito che quel pomeriggio aveva danzato disinvolto come un condor spietato tra le macerie dei rossoblù di Pioli.

Erano vagiti di mesi fa. Ora la Iturbe mania impazza davvero. Juancito pare aver stregato tutti. Top club inglesi e spagnoli in particolare, che il portafoglio ce l’hanno gonfio sul serio. “Nessuna squadra italiana può permetterselo”, ha sentenziato l’altro giorno Setti, che sa di avere tra le mani un gioiello. Chissà se la chiosa del presidente è più tattica (per alzare il prezzo) o reale, sta di fatto che il Verona nella sua storia non ha mai avuto un patrimonio del genere. Ok Jorginho e dodici anni fa Mutu, ma i 30 milioni di euro che ballano per il fantasista argentino (di passaporto, perché l’indole è tutta paraguaiana) sono una quotazione inedita per un giocatore del Verona. Certo, solo parte di quei soldi finiranno nelle casse di Via Belgio, ma la domanda qui è un’altra: Iturbe è il giocatore più forte che abbia mai indossato la casacca gialloblù, come qualcuno ha sussurrato?

No, o almeno non ancora. Elkjaer, in assoluto, per ora è inarrivabile. E non lo dico perché Preben è sempre stato il mio idolo, o perché ha vinto lo scudetto. Parla il curriculum di “Cavallo Pazzo”, anche fuori dall’Hellas: secondo al Pallone d’oro nel 1985 dietro a Platini; terzo nel 1984 preceduto dal duo francese fresco campione d’Europa Platini-Tigana; terzo miglior giocatore del mondiale messicano del 1986 alle spalle di Maradona e del portiere tedesco Harald Schumacher. E senza nulla togliere al calcio “scientifico” di adesso, quelli erano anni da leggenda, nei quali – per usare una metafora automobilistica – il pilota (il calciatore) contava più della macchina (il collettivo).

Eppure Iturbe è ormai un calciatore di livello mondiale, che dal punto di vista tecnico (non romantico, dove ognuno è giusto che abbia e si tenga i suoi idoli) può già essere collocato dietro a Elkjaer e davanti ad altri miti gialloblù come Dirceu, Zigoni, Fanna, Briegel…

Ce lo ricorderemo Juancito. Un giorno lo racconteremo. Penseremo a quell’indio terribile che prendeva palla a centrocampo e andava a segnare, come nei cartoon giapponesi, come sognavamo noi da piccoli fantasticando nei pomeriggi invernali con“Holly e Benji” all’ora della merenda.

Macina tutto in fretta questo calcio, anche i ricordi. Poi arrivano quelli come Iturbe, che sospendono il tempo e ti preparano alla nostalgia.

P.S. Avevo lanciato la discussione su fb, grazie a chi è intervenuto per il contributo. (https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512)

 

ARIA DI RIVOLUZIONE

“Basta che non ci manca mai qualcosa da aspettare”, cantava Jannacci. L’istrionico cantan-dottore milanese parlava di progetti e stimoli che nella vita non devono mai mancare. Noi, più modestamente, parliamo di calcio. Cosa si aspetta adesso il Verona dopo l’allegra sconfitta di ieri? Riguardo il campionato, ormai, poco o nulla. Sfumato l’obiettivo Europa, non ci resta che un onorevole piazzamento, ma è chiaro ormai che i punti in palio contano relativamente.

C’è aria di vacanza e…di futuro. La palla ora passa al riconfermato Sean Sogliano. Come impostare il nuovo Verona? Si dovrebbe ripartire da Mandorlini, ma sarà comunque una rivoluzione.

Non inganni infatti il brillante campionato di quest’anno: la sensazione è che il ciclo di quei giocatori che hanno tirato la carretta anche nelle serie minori sia giunto al termine. Qualcuno rimarrà, ma difficilmente con un ruolo da titolare. Aggiungiamoci la sicura partenza di Iturbe, quella probabile di Romulo e l’incertezza legata al futuro di Toni, cioé i tre elementi che sono il 70% della cifra tecnica del Verona attuale.

Antenne dritte quindi e poche illusioni, sul campo si ripartirà (quasi) da zero. Fortunatamente non così in società, con Setti che s’appoggerà ancora a Gardini e Sogliano. Sogliano in particolare è la garanzia (non per niente Setti vuole prolungargli il contratto fino al 2017).

Si punterà sui giovani, che in rosa saranno ancora più numerosi di quelli di quest’anno; si continuerà a pescare in Sudamerica, dove il ds ha agganci preferenziali. Mandorlini riceverà minori protezioni dallo scudo della vecchia guardia – alla quale per sua stessa ammissione spesso si è appoggiato – e senza le individualità di quest’anno (un Iturbe difficilmente lo ripeschi) dovrà per forza di cose completare la sua maturazione tecnica.

Non è ancora tempo di entrare nei dettagli, ma è chiaro che bisognerà intervenire con decisione sul reparto difensivo, perché non sempre è domenica, perché Toni – resti o vada – non è eterno, perché segnare 50 gol a cinque giornate dalla fine è l’eccezione e non la regola. E’ evidente che la terza linea scarseggia di un centrale davvero forte e di terzini all’altezza della categoria (Pillud è da serie A? Albertazzi farà il necessario salto di qualità?). Lo stesso Rafael deve trovare maggiore continuità. Negli altri reparti la situazione è meno drammatica, ma non tranquilla. L’erede di Romulo è Sala e su questo non ci piove, ma il resto? Donadel verrà riscattato? E Cirigliano? Marquinho non ha fatto la differenza, resterà? E Martinho l’abbiamo perso, o può essere recuperato (perché è chiaro che il vero Martinho non è quello di quest’anno)? Questo Jankovic a intermittenza (più spento che acceso, in verità) è utile? E Gomez è solo un rincalzo? Rabusic può essere l’erede di Toni? Certezze societarie molte, certezze tecniche poche: Sogliano avrà molto da lavorare. Aspettiamo con fiducia.

CONTRASTI AL BENTEGODI

Contrasti al Bentegodi. Spazi deserti sugli spalti, eppure là in curva mai come questa volta cantavano incessantemente. L’ecumenico Corini vestiva da prete e passeggiava, tanto nervoso quanto impeccabile, con le mani in tasca; pochi metri più in là lo “spettinato” Mandorlini si sbracciava, sbuffava, imprecava. Al suo fianco in panchina si mostravano Sogliano e Setti, figure di una società che sta colmando piano piano anche l’unico gap rimasto intatto sinora, cioè la distanza dai tifosi e dalla storia del Verona (in questo quadro va vista la riapertura dell’antistadio e anche, perché no, la scelta di regalare il biglietto con l’Udinese ai paganti di ieri, adesso manca il tassello di riconsegnare i colori storici alle maglie e di riappropriarsi di scale e mastini anche per la campagna abbonamenti al posto di stravaganti opliti). In tribuna invece si annidava e masticava amaro Campedelli che, alla resa dei conti, piange sia per l’incasso che per il risultato.

Che diceva quel vecchio proverbio? Chi la fa l’aspetti, uno a zero e palla al centro (in attesa del prossimo derby, perché probabilmente il Chievo si salverà). Se da un lato c’è un club centenario, con uno scudetto e un popolo dietro, resistenza old style ai tentacoli impalpabili ma soffocanti del calcio moderno, dall’altro troviamo una società che ai tempi del “miracolo” perse l’occasione della vita, quella di identificarsi e identificare, di creare e accrescere un suo popolo, di sviluppare un suo marchio antropologico, e che adesso orfana di pathos vive socialmente di riflesso e probabilmente soffre il ritorno dell’Hellas a certi livelli.

Contrasti anche in campo, e non mi riferisco ai tackle, ma all’andamento musicale della partita. Il vecchio gioco del gatto col topo. Primo tempo d’assaggio, col Verona un po’ sulle sue, ma già superiore sul piano delle occasioni (due nitide). Crescendo rossiniano nella ripresa, quando si è svegliato quel mezzo indio terribile, un po’ paraguaiano e un po’ argentino, di Iturbe. L’Hellas ha alzato vertiginosamente il ritmo, facendo impazzire il sottoscritto anche su facebook (“lo facciamo ‘sto cazzo di gol?”, sono stato accontentato dopo trenta secondi, credo) e siglando la rete della vittoria con un bellissimo gesto tecnico di Toni (alla faccia di chi dice che non è agile). Vittoria meritata e gioia, perché – checché se ne dica – questa non era una partita come le altre e si percepiva dalle facce felici di tanti tifosi alla fine. In loro un retrogusto sarcastico di rivincita, un sentimento di rivalsa a fronte di tante (troppe) cose accadute in questa decade.

Mandorlini, uomo molto attento alle sfaccettature della piazza, sembra averlo capito. La sua dedica a chi è rimasto a casa va in questa direzione. Avevo scritto a suo tempo dell’autogol di Campedelli, che alzando i prezzi avrebbe anche alzato la tensione agonistica della partita. E lo spirito, l’atteggiamento in campo e anche le parole del mister a fine partita mi confermano che un surplus di motivazioni Maietta & C. devono averlo avuto anche per la tanta gente di Verona e del Verona. Un plauso.

Nel frattempo ci stiamo riappropiando anche di una classifica che ci compete, adesso si tratta di porsi l’obiettivo dell’ottavo posto, quello più realistico. Mandorlini, uomo che per rendere al meglio ha bisogno del senso della sfida, della pressione e dell’ambizione, sa che riuscendoci firmerebbe il miglior risultato del Verona in serie A, Bagnoli a parte. Chi lo ferma più? Avanti.

 

SOTTO PRESSIONE SI VINCE

Sarà stata la presenza del mio idolo di sempre, Preben Elkjaer Larsen (l’ho detto alla Brera, omaggio doveroso); sarà stato il trovarmi testimone di un presente che sarà consegnato alla storia gialloblù, grazie alla doppietta di Luca Toni che raggiunge due miti come Gianni Bui e Nico Penzo nella classifica cannonieri di un unico campionato del Verona in serie A; sarà stata soprattutto la reazione di orgoglio dei ragazzi di Mandorlini, che sono scesi in campo con la bava alla bocca per zittire il mondo, gli arbitri e noi rompicoglioni (e così doveva essere!).

Saranno state tutte queste cose, non so, ma mi sono emozionato, ecco l’ho detto. Non si vive di solo pane (ergo di 40 punti) – anche se nel calcio contabile sembrano avercelo sordidamente imposto – lo dicevo tempo fa e lo ribadisco ora più che mai. Il Verona dell’ultimo mese era un colpo al cuore perpetuo e non per i risultati, ma per l’atteggiamento inerme e anemico. Non poteva finire tutto lì, non potevamo essere la copia di altre squadre che in passato, raggiunta la salvezza, regalavano punti a destra e a manca. Ma come, noi come gli altri? Anonimi polli da batteria? Comparse tra le tante nel proscenio dei soliti divi?

Oggi dopo 40 secondi ho capito che l’aria era cambiata e l’Hellas si stava riprendendo quanto gli spettava. Non il risultato, ma la dignità. Fatalità abbiamo vinto (ma non è una fatalità, quando il Verona si esprime per le sue capacità vince con almeno 12 squadre in questa serie A), ma anche non ci fossimo riusciti il giudizio sarebbe lo stesso.

Il recupero di questa presa di coscienza  (“fondamentale il faccia a faccia dopo Cagliari”, ha detto Marquinho in sala stampa) è il senso di questa giornata del Bentegodi. Più di un Verona-Genoa che rischiava di trascinarsi nell’anonimato di un’inutile metà classifica. E conferma un dato: questi giocatori e questo allenatore vanno messi sotto pressione per spingerli a dare il meglio e rincorrere nuovi obiettivi. La pax, le mediocri formule assolutorie, le esegesi aprioristicamente buoniste non servono a una beneamata fava.

Quindi bravi a tutti, ma fine dei complimenti. Non esaltiamoci, o perlomeno aspettiamo a farlo. Di mezzo c’è un derby e una convinzione: se il Verona fa il Verona vince. Sabato è una partita da non sbagliare. Caro mister e cari giocatori: sappiatelo!