HELLAS O VERONA?

Alambiccamenti filologici. Siamo il Verona, o l’Hellas? Ricordo lo spot di quel marchio di maglieria intima degli anni ’80: “Si dice liàbel o liabél?”. Alla fine la voce fuoricampo risolveva la querelle: era liabél e basta. Ma lì era solo una questione fonetica, di accenti. Scusate la disgressione profana.

Torniamo alle cose serie: è Hellas o Verona? Ok tutte e due, ovvio. Ma c’è di più a ben guardarla. Nei cori in curva sud la scelta non si è mai posta. Alcuni di essi inneggiano al Verona, altri all’Hellas. Ed è giusto, per il tifoso sempre della stessa squadra si tratta. Infatti. Ma non è questo il punto: la vertenza, infatti, riguarda la rappresentazione esterna (fuori da Verona) del club e il legame tra il medesimo e la città. Per questo è rilevante decidere se ci piace di più Hellas o Verona.

Tuffiamoci nella storia. Nel 1903 gli studenti del Maffei fondarono l’Hellas. Tuttavia nel corso dei 110 anni abbiamo cambiato più volte denominazione. Ricordate l’AC Verona del 1957, che ottenne la prima promozione in A, e la mitica canzone dei nostri vecchi: “Forza l’AC Verona la squadra del cuore…”? Divenne Hellas Verona AC solo l’anno seguente, fino al 1991, data del fallimento, allorché il nome Hellas malinconicamente sparì e mutò in Verona FC. Nel 1995  il “marchio” Hellas venne riacquisito dai Mazzi e si passò alla denominazione attuale Hellas Verona FC.

Fu proprio il 1995 l’anno della svolta. Fino ad allora per tutti (dentro e fuori le mura) eravamo (innanzitutto) il Verona, al massimo l’Hellas Verona, o il Verona Hellas. Dal ‘95 la vox populi – in un sussulto di comprensibile fierezza per la riacquisizione del nome Hellas – ha (via via sempre più spesso, sino alla degenerazione attuale) cominciato a chiamare la squadra con la denominazione greca, spargendo i semi, inconsapevolmente, di un sottile, ma non trascurabile equivoco.    

E qui entra in gioco, incolpevolmente, anche il Chievo. Nel 1990 Luigi Campedelli decise di cambiare la denominazione del suo club in ChievoVerona per identificarlo maggiormente con la città. Legittimo, perché Chievo è una frazione di Verona. Era il periodo in cui il Verona, da poco retrocesso, contestualmente navigava in cattive acque finanziare e Campedelli senior, l’anno dopo, avrebbe tentato di rilevarlo dal fallimento (diversi giornalisti hanno scritto e affermato più volte che l’idea di unire i due club balenava già all’epoca).  

In realtà il Verona fu acquisito nel 1991 dai Mazzi (come Verona Fc, appunto) e tornò in A, mentre il ChievoVerona continuò a navigare in serie C ancora per qualche stagione. Il discorso lì per lì sembrò chiuso e nessuno diede troppo bado a quel nome “ChievoVerona”. In fin dei conti era la denominazione di un piccolo club ancora lontano dalla ribalta.

Adesso è il 2013 e molto è cambiato. Il ChievoVerona è ormai una realtà consolidata in serie A, conosciuta e rispettata in tutta Italia, mentre l’Hellas Verona si riaffaccia nel calcio che conta dopo undici anni.

E qui si palesa l`equivoco, dunque ripasso dal via e torno all’incipit. Siamo il Verona o l’Hellas? Pur amando (da tifoso) il nome Hellas e conscio che nel 1903 nacque l’Hellas, nella vulgata mediatica preferisco Verona, perché il club è ancora LA squadra della città che la rappresenta in giro per l’Italia, e non “solo” UNA delle squadre della città. Riconoscendosi soprattutto come Hellas, il rischio è relegare il nome Verona a semplice corollario, in comune, appunto, ad altre illustri concittadine, rinunciando alla riaffermazione del proprio primato sin dal nome.  

Sottigliezze? Cazzeggio estivo del sottoscritto? Io rimango della mia: la differenza spesso la fanno i dettagli. Si tratti di nome, maglie, colori sociali da rispettare, o simboli.

FACEBOOK, BALOTELLI E IL MILAN…

Facebook esiste “per fortuna o purtroppo” (cit). Già, chissà che avrebbe detto, scritto e cantato Gaber al riguardo. Gente come lui ci manca ogni santo giorno. Siccome non è mia abitudine scomodare i miti (specie Gaber) invano, vengo al punto. Vighini ha scritto di recente un blog sulla cosiddetta “rete” e i social network. Che ne penso? Che è un’ arma potente che non tutti possono (e devono) maneggiare. Per questo esistono i professionisti dell’informazione, intermediari tra i fatti e la pubblica opinione. Vi fareste mai operare da un fruttivendolo? Comprereste mai la frutta da un chirurgo? Ecco.

Ma non voglio fare accademia, scusate il preambolo. E´ che ieri sera, appena si è saputo che il Verona esordiva col Milan, sul web qualche buontempone già si divertiva a pubblicare frasi, vignette e campionario vario sull`arrivo di Balotelli a Verona. Dando vita a un tam tam fastidioso basato, tuttavia, sul nulla. Perché nulla succederà. Balotelli farà la sua partita: quindi provocherà, cascherà a ogni refolo di vento, gesticolerà, ci marcerà. E a fine partita dichiarerà. Farà il Balotelli insomma (quello peggiore, sperando non giochi quello migliore, potenziale fuoriclasse). I tifosi del Verona, invece, faranno i tifosi del Verona. Qualche fischio e al massimo uno sfottò ironico (la miglior arma “made Curva sud”), come succede a migliaia di giocatori in giro per il mondo. E chiusa lì, alla faccia di chi – forte coi deboli e debole coi forti –  ci vuole male e non vede l`ora di scrivere e raccontare la cazzata dell’ idiota di turno (vedi fatti di Livorno), categoria peraltro presente in ogni tifoseria d’Italia e, in generale, in ogni comunità.  

Ciononostante questi buontemponi da tastiera, che pensano di essere pure divertenti, non si rendono conto dell`irresponsabilità delle loro azioni. Immagino (ci vuole poco) non abbiano mai studiato sociologia e non sappiano manco chi sia Robert Merton, che teorizzò “la profezia che si autoadempie” solo per averla espressa. Eppure non sarebbe necessario conoscere Merton, basterebbe solo un po` di cervello prima di mettere nero su bianco. Ma, si sa, “l’intelligenza non si attacca, la scarlattina si” (cit). A proposito di Gaber…

GUARDIAMOLA IN FACCIA LA REALTA’

Domande d’estate. Ma perché il mercato è aperto (quasi) tutto l’anno, che poi gli affari si fanno gli ultimi giorni di agosto? Giocano sulle mie illusioni, io che perdo tempo a immaginare il nuovo Verona e poi mi rendo conto che la squadra ad oggi è largamente incompleta e dovrò aspettare. Fatica sprecata, meglio non leggerli i giornali ‘sto periodo. Le trattative mi sfiancano, i “se e ma e forse” mi infastidiscono. E’ il sistema, bellezza. Un sistema bulimico e viziato, del mercato perenne per finta. Cui prodest? Intermediari e procuratori (i veri padroni del vapore) e anche certi giornalisti. Ma poi in fin dei conti il mercato, quello vero, si fa al fotofinish, in tempi di “saldi”, quando dopo mesi di partite a scacchi e avvitamenti strategici, i giocatori in vendita e le società che li devono piazzare abbassano le pretese. Quasi per disperazione, credo.

Del resto il fenomeno “saldi” del calciomercato è andato di pari passo con quello dei negozi.  Nei ricchi anni ’80 e soprattutto ’90 (quelli di Berlusconi, Cragnotti, Moratti, Tanzi, Cecchi Gori nel calcio, della lira e del lavoro fisso nella vita) servivano per piazzare “fondi di magazzino” e solo se ti andava bene facevi l’affare. Adesso sono necessari per vendere tout court. Segno dei tempi, succede al Milan, figuriamoci se non debba capitare al Verona.

Ecco, il Verona. C’è entusiasmo, dicono. Ma quello c’è sempre stato, anche nei tempi bui. Il sentimento predominante, direi, è la curiosità. Perché, tocchiamoci gli zebedei, forse qualcosa è cambiato. Non è solo il ritorno in serie A dopo undici anni, credo, ma la sensazione generale che stavolta ci si possa restare finalmente a lungo (ritoccatina d’obbligo). La realtà è brutale: dal 1990 la A l’abbiamo vista solo cinque volte. Cinque volte in 23 anni, pochino no? Ma Setti, uomo che non brilla per simpatia, finezza e cultura, ci sa fare, non c’è dubbio. Lo vedo talmente determinato che mi fido. Per lui la A è un affare, non mollerà l’osso tanto facilmente. Pastorello (lo cito perché è stato l’ultimo presidente nel massimo campionato) era forse anche più capace, ma non così determinato e soprattutto aveva tutt’altri interessi. Perché poi è questo che conta, la molla che ti fa agire. Qual è quella di Setti? Che il Verona resti in A. Non per amore certo, ma a noi cosa importa?  

Eppure qualche domanda è giusto porsela. Sono arrivati Gonzales, Donati, Toni, Cirigliano e (di fatto) Jankovic, tutti nomi da catalogare alla voce “scommesse”, “incompiute” e “giocatori al tramonto”. Sono rimasti (per ora) Jorginho e Martinho e questa è una gran cosa. Basta? No, Sogliano l’ha ammesso: “Ci servono altri innesti”. E non pochi. L’ho già scritto: niente sogni di gloria. Partiamo per soffrire e il mercato che stiamo facendo lo conferma. Il budget è quello che è, la squadra che sta nascendo anche (almeno per ora). Si sogna Bradley (Sogliano ci proverà fino alla fine) e si punta a Romulo, qualcosa va fatto anche in difesa (portiere compreso) e come ha ribadito Setti un’altra punta arriverà. Mi fermo qua e non mi soffermo sui dettagli (a ognuno il suo mestiere). Solo una considerazione: “La salvezza è il nostro scudetto” ha detto il presidente. “Il primo anno è il più difficile, abbiamo tanti giocatori che erano i più bravi in B, ma la A è un’altra cosa” gli ha fatto eco Sogliano. Non è understatement, è realtà. Guardiamola in faccia, “è più sicura” (cit Vasco Rossi).   

L’ACCORDO CON NIKE ANDAVA SPIEGATO MEGLIO

Premessa: non infierisco sulle nuove maglie, basta guardarle. I più sagaci, peraltro, avevano già capito tutto da settimane con un semplice clic sul web

(http://www.discountfootballkits.com/Nike_Striker_III_Football_Shirt).

Sono, sostanzialmente, maglie da catalogo. Reazioni? I “vecchi” tifosi storcono il naso, per loro l’identità si misura anche dai dettagli. I collezionisti sono accigliati. Poi, vabbè, ci sono gli entusiasti in servizio permanente, quelli non mancano mai. Sono la minoranza chiassosa e insolente (come qualsiasi minoranza che soffre nell’esserlo). Li riconosci dal cipiglio ruvido e arrogante. Entrano a gamba tesa coi soliti banalissimi insulti ormai da sbadiglio. Hanno un pelo sullo stomaco da far invidia e un senso estetico pari a quello di un tedesco sul lago, o di una ragazza coi leggings zebrati e le “ballerine”. Poveracci, devono avere una vita dura, ragion per cui si fanno andare bene tutto per tirare a campare.

Non infierisco, dicevo. Perché capisco la società. Anzi a dirla tutta, avrei fatto la stessa cosa. Quando un’azienda come Nike ti apre uno spiraglio, difficilmente puoi dettare le condizioni. E come se Belen volesse andare a letto con te. Mica fai il prezioso, ci vai. Nike ha aperto una trattativa e Setti e Gardini si sono fiondati e, con intelligenza pratica, hanno portato a casa l’accordo. Rinunciando – per ora e a causa dello scarso lasso di tempo (la trattativa si è chiusa a ridosso della nuova stagione) – a qualcosa da una parte (avere delle maglie personalizzate), in cambio dell’apertura di nuovi orizzonti commerciali dall’altra. Nike, per inciso, che non è sponsor tout court, ma fornitore tecnico (vi suggerisco questo link  http://romanews.eu/it,a113335/Roma-nike-Ecco-Perche-Giallorossi-Devono-Aspettare-Un-Anno-Indossare-Il-Baffo-Br).

Gardini, tuttavia, ha promesso che dalla stagione 2014-15 le magliette saranno realizzate su misura e con la partecipazione dei tifosi. E noi gli crediamo. Intanto pur condividendo il senso dell’operazione, muovo solo un piccolo appunto alla società, per il resto ottima: parli di più e meglio ai tifosi. Se la partnership con Nike fosse stato spiegata nei dettagli, magari tanta attesa non si creava. Mi riferisco alla grancassa mediatica (questa sì molto provinciale) genere: “con Nike siamo come Inter e Juve”. In realtà gli accordi sono diversi. E anche fosse stato, chissenefrega, noi siamo l’Hellas Verona. Unici e orgogliosi di esserlo.   

NIENTE SOGNI DI GLORIA

Sean Sogliano ha colto la palla al balzo presentando l’uruguagio Alejandro Gonzales. “Viene dal Penarol, dove la garra, come dicono loro, non manca. Ed è quello che servirà a noi quest’anno”.  Già perché sarà un campionato di sofferenza per il Verona, almeno sulla carta. La garra  è una tipica espressione uruguagia (non sudamericana). E’ la stizza, l’orgoglio, la grinta delle squadre uruguagie che si ispirano ai Charrùa, tribù antica del luogo, indios che hanno combattuto invasioni e segregazioni. 

Il Verona la sua garra dovrà metterla in un campionato che si preannuncia difficilissimo. Banditi gli illusionismi alla Silvan, smentite le ranzanate presidenziali da spiaggia (Matri), Sogliano ha voluto essere chiaro. Forse per sgombrare il campo dagli equivoci e dai voli pindarici che si sentono in città. Sarà stato l’accordo con Nike, l’entusiasmo per il ritorno in A dopo undici anni,  la generosa campagna acquisti dello scorso anno, ma qua e là ho sentito e letto di Europa League e acquisti sfarzosi. Non sarà così, sebbene “per un giocatore spenderemo, perché dobbiamo evitare di salvarci all’ultima giornata”, il Setti dixit  alla Gazzetta dello Sport.  Confidando ovviamente che il presidente sia di parola, tuttavia è giusto essere onesti,senza voler peraltro sfociare nella retorica da pelosissimo low profile (genere che detesto). Lo scudetto del Verona, almeno quest’anno, sarà salvarsi, anche succedesse all’ultimo minuto dell’ultima giornata. Il budget a disposizione non permette altri pensieri, piaccia o no.  E se in B puoi costruire una corazzata anche cogli scambi e gli svincolati, in A la competizione è più scientifica. Prosaicamente detta: quelli bravi costano.

Il Verona da neopromossa senza un mecenate alle spalle, per forza di cose, non ha tanta liquidità. Il rimedio? Intuito, conoscenza del mercato internazionale “minore”, corsie preferenziali coi grandi club e rapporti granitici di fiducia coi procuratori e gli intermediari, che possono consigliarti, come fregarti. Il nostro mercato sta andando in questa direzione, tra scommesse calcolate (Gonzales, Seferovic?), giocatori da batteria (Donati, Pegolo?) e vecchi campioni (Toni?). In attesa del colpaccio (personalmente sogno Bradley, ma anche Kozak non sarebbe male) e dando per scontate le conferme di campioncini come Jorginho e Martinho (poi per carità tutto ha un prezzo), il resto lo farà l’ambizione e l’orgoglio di un gruppo che vorrà dimostrare di essere all’altezza.

La garra appunto, quella stessa che ha dentro Andrea Mandorlini, il quale come scrissi a suo tempo (quando davo per scontato la sua non conferma in A, sbagliando) nel massimo campionato paradossalmente può esprimere ancor di più le caratteristiche del suo gioco: difesa coperta e aggressiva, verticalizzazioni e contropiedi assassini.  Che poi è il gioco del 2011-12 da neopromossi in B, quello che ci ha fatto più divertire. Certo bisogna mettergli a disposizione giocatori adatti, che non significa – specifico – i giocatori che vuole lui,  ma quelli con determinate caratteristiche. E Sogliano, a differenza di un anno fa, così si sta muovendo.

Pur considerando Cacia molto forte (ma con precisi limiti caratteriali e comunque tutto da valutare in A), là davanti serve un simil Ferrari. Per capirci, quello che fu Corradi nel Chievo di Delneri, giocatore “da sportellate”, forte fisicamente, centravanti di manovra, capace di farsi rispettare in area e nel gioco aereo. Toni e Seferovic sono, per motivi opposti, scommesse (ma qua torniamo al budget e agli impossibili sogni di gloria), ma rispondono perfettamente all’identikit. Kozak, ne giovane e ne vecchio, sarebbe la perfetta sintesi tra i due.  Anche in mezzo al campo qualcosa cambierà. Jorginho tornerà a fare la mezz’ala destra come due stagioni fa, Halfredsson e un nuovo acquisto di peso se la giocheranno a sinistra (e c’è pur sempre Martinho che può arretrare), davanti alla difesa è stato preso Donati, ma non basta (e qua torniamo al sogno Bradley), perché l’ex Milan, Atalanta e Palermo  viene da una stagione opaca e da retrocesso. La difesa è forse il reparto che più cambierà. Cacciatore e Agostini meritano una chance, ma verranno affiancati da compagni di pari valore. Maietta potrà essere il Ceccarelli dello scorso anno, Bianchetti è un talento su cui poter contare, Gonzales – a sentire Sogliano –  il suo ideale compagno. Lì in mezzo però serve un altro innesto di qualità che sappia giocarsi una maglia. Tra i pali, confermato Rafael,  un conto è se arriva un Neto, un altro se firma un Pegolo, che difficilmente accetterebbe senza garanzie precise. Di certo la società non punta a scatola chiusa sul brasiliano, che è migliorato fuori dai pali, ma non sulle punizioni (e quanti specialisti ci sono in A?).

Ed è giusto così e vale per tutti: la gratitudine è una bella cosa ma salvarsi anche di più.  Tutti perciò devono restare sul filo, perché il nostro campionato sarà sul filo. Quello dell’incertezza e della sofferenza. Per i sogni di gloria rivolgersi a un futuro più lontano.

  

IL CALCIO E’ NIENTE SENZA I TIFOSI

 

“Proletari di tutto il mondo unitevi” esortò invano Marx. Quello che non riuscì al filosofo tedesco, è riuscito – suo malgrado – alla Football Association, l’istituzione che governa il calcio inglese. I tifosi-proletari, non di tutto il mondo ma d’Oltremanica, giovedì scorso hanno messo da parte per un giorno le storiche rivalità e si sono ritrovati davanti al pub Globe di Londra, di fronte a Baker Street,  e dopo qualche pinta di birra hanno marciato uniti fino sotto alla sede della F.A.

“Football without fans is nothing” lo slogan. Il caro biglietti e il calcio televisivo che non rispetta il tifoso, le ragioni della protesta. L’idea di questo corteo è nata dopo un paio di incontri organizzati dai gruppi di tifosi del nord-ovest dell’Inghilterra e di Londra con gli Spirit of Shankly del Liverpool, i veri ideologi della marcia. Il tutto sulla scia delle proteste nate un anno fa negli stadi contro i prezzi troppo alti. Così i tifosi dell’Arsenal hanno marciato a fianco dei loro rivali degli Spurs e i tifosi del Liverpool stretti a quelli del Manchester United. Uniti per una causa nobile: far tornare la working class allo stadio e riconsegnare il football alla sua vera dimensione, quella di sport (e non di mero spettacolo televisivo) interclassista e popolare. Due aggettivi che il tanto celebrato modello inglese, quello che noi a sentire i soloni dovremmo supinamente copiare in tutto, ha ridimensionato fin dagli anni ’90. Da Murdoch a Berlusconi (e ai loro tanti piccoli emuli) poi il passo è stato (fin troppo) breve e si è propagato un po’ dappertutto. Risultato? Il football è sempre meno sport e sempre più entertainment glamour e non per tutti. Fa in parte eccezione la Germania, cogli azionariati popolari diffusi e i settori popolari rimasti… popolari, sia per il modo di vedere la partita (in piedi a tifare), che per i prezzi in rapporto al reddito.

I sudditi della Regina, in altre parole, si stanno ribellando allo status quo da almeno un anno. E noi? Formalmente cittadini di una repubblica parlamentare – sebbene “imperi” de facto “Re” Giorgio Napolitano, e il Parlamento, a furia di decreti legge del governo di turno, sia spoglio di ogni potere da anni – siamo sudditi di una cosa ben più modesta, eppure complessa della Regina: l’italianità. Ci aumentano sensibilmente gli abbonamenti, nonostante la crisi economica e soprattutto senza migliorare le condizioni di accesso agli stadi (tornelli, tessere del tifoso) e all’interno degli stessi (bagni, bar ecc)? Sbraitiamo, ci incazziamo, urliamo, imprechiamo… mezza giornata. Poi accettiamo tutto passivamente, anzi insultiamo chi nell’immobilità generale si è limitato ad alzare appena un sopracciglio. Reagiamo all’italiana, ecco: subito incazzosi e riottosi, poi remissivi, pavidi e conformisti. Spesso addirittura più papisti del Papa, diamo di gomito al più forte (le società in questo caso) per sentirci moderni e fighi, additando a tristi sfigati lagnosi i “ribelli”. Un doppio sbaglio.

Basterebbe invece che ogni tifoseria avesse una sua “lobby” istituzionale davvero indipendente, che con intelligenza, metodo e rispetto per le ragioni del proprio club di appartenenza, incidesse sulle scelte del medesimo quand’esse riguardano direttamente  la vita del tifoso (biglietti, abbonamenti, decoro degli stadi, rispetto dei simboli e dei colori). Perché  “Football without fans is nothing”. Perché il calcio non è e non sarà mai un’azienda come le altre. Perché dietro a ogni club non c’è solo un patrimonio economico (che spesso varia in base alle categorie), ma anche umano (ricordate quella squadra con diecimila abbonati in C?). Perché nella storia di un club medio-piccolo le categorie variano, i tifosi no. Mi piacerebbe accadesse, che nascesse sul serio un vero contropotere istituzionalizzato, affinché non passasse sempre tutto sotto silenzio. Anche a Verona e al Verona. Farebbe bene anche ai club, perché senza voler scomodare Rosseau, Voltaire e il liberalismo francese, qualsiasi organizzazione sociale, se non vuole implodere, si regge grazie al bilanciamento e alla contrapposizione dei poteri, nel rispetto dei ruoli. Ma dubito accadrà, siamo italiani mica inglesi.

LA MAGLIA NERA E’ BELLISSIMA

Ho cambiato repentinamente idea, quasi più velocemente di Giulianone Ferrara. La maglia nera – pardon Total Black ché noi veronesi ce la caviamo con l’inglese – è bellissima. Molto gialloblù anche, vabbè non nel colletto o nel bordo manica e nemmeno nel baffo, ma non facciamo i difficili, noi siamo inguaribili romanticoni, sebbene inclini al taffazzismo, e ci basta l’anima. Peraltro essa smagra, fondamentale – oserei dire decisiva – argomentazione estetica in suo favore. Qualche perdigiorno che spulcia il web h24 l’ha derubricata nei commenti di questo e altri blog “maglia da catalogo a 16 euro con aggiunta del simbolo e degli sponsor”. Buontemponi maliziosi e menagrami! Siamo in serie A, non vi va mai bene niente? Ricordate i campetti della C? Do you remember Pastorello, Cannella, i cardinali e i soldi falsi rifilati al povero Conte Arvedi? Cosa c’entra questo con la maglia? Niente, ma fa bel gioco dirlo, così da zittire i piantagrane lamentosi come voi. “Ma noi abbiamo solo detto che siamo orgogliosi di Nike, ma ancora di più dei nostri colori e simboli”. E come vi permettete sobillatori da quattro soldi? No Global! No Tav! Comunisti! Anarco-insurrezionalisti! Pretoriani da destra sociale anticapitalista! Indipendentisti! (“punto! Due punti! ma sì, fai vedere che abbondiamo… Abbondandis in abbondandum..” diceva Totò). “Ma se abbiamo ricordato il grande merito della società, in particolare di Gardini, in tutta questa operazione commerciale? Certo ci siamo solo domandati, con garbo e umiltà, se non c’è il rischio cogli anni di smarrire parte della nostra identità per il marketing, come sta succedendo ad altri numerosi club. E’ questo il calcio?”. Vecchi nostalgici tromboni, piantatela di piangere, fatevi una scopata e godetevi la vita, no? Blogger stilosi senza argomenti, ma non avete una fava da scrivere? Chessò parlate d’altro, delle previsioni del tempo, dell’afa estiva e del gelo invernale, degli esodi di ferragosto, del problema di Palermo che “è il traffico caro Johnny”. Altrimenti tacete petulanti maestrini perennemente col ditino alzato! Un giorno faremo la Champions League, magari in maglia a pois. Così anche i francesi ci stenderanno i tappeti rossi.

P.S. Topic volto a sdrammatizzare e farsi due risate e chiuderla qua. Il mondo del calcio si prende tremendamente sul serio. Si sta parlando di maglie e non di crisi, disoccupazione, precariato ed esodati.

P.P.S. Voglio bene a Gianluca Vighini, innanzitutto come persona. Come giornalista parla la sua storia, dentro e anche fuori le mura (un giorno forse vi racconterà gli aneddoti gustosissimi dei suoi anni di Roma). Io sono solo un blogger da strada, senza pretese. Forse il giornalista-blogger veronese con più partite in Curva Sud e su certe questioni viene fuori la mia anima identitaria e tifosa, quindi prendete i miei deliri per quello che sono.  Io e Gianluca siamo due sanguigni fottutamente narcisisti e altrettanto permalosi, e  la pensiamo diversamente su quasi tutto. Per fortuna, dice sempre lui, meno male, aggiungo io.  E’ proprio questo il bello. Infine  io conosco la gratitudine e a lui sarò sempre grato. A prescindere.

MAGLIA NERA E SIMBOLI: L’IDENTITA’ NON HA PREZZO

Posso dire che la maglia nera non mi piace, o passo per bastian contrario?  Posso, chessò, almeno sussurrarlo, o passo per sfigato? Posso, di grazia, intimamente non desiderarla indossata dal Verona e ricordare che noi siamo giallo e blu e basta, o passo per nostalgico o, peggio, conservatore?  Posso gentilmente e giuro, sì, garbatamente farlo presente, o sono un reietto riottoso, trombone e chiaramente frustrato? Mi è permesso di scrivere, con calamaio opaco e penna delicata, of course, che all’ovale strisciato (sottolineo strisciato) simile a quello di molti club (strisciati), preferisco il rombo col mastino stilizzato degli anni ’80, più originale e identitario?

So bene che quella nera sarà solo  la terza  maglia. So altrettanto bene che la maglia nera ce l’abbiamo avuta in questa stagione e anche in qualche annata dei ’90, dunque non è una novità e non mi scandalizzo. Aggiungo: qua non si sta mettendo in discussione l’ovvio, ergo il ruolo di Nike. Siamo tutti orgogliosi, io per primo, che un marchio così importante si sia legato al Verona per quattro anni. Il fautore dell’accordo è stato Giovanni “Richelieu” Gardini, mosso credo da un’idea: creare un business “di riflesso”, cioè un effetto domino, avvicinando al Verona altri marchi importanti. Giusto così: il calcio si evolve e il marketing è fondamentale. E la serie A costa. Tuttavia alcune scelte sono discutibili e prese una a una – ieri il simbolo ovale e strisciato col mastino in formato mini, oggi la maglia nera senza scala e bordini gialloblù, domani chissà – rischiano di minare l’identità di un club. E l’identità, scusate il lagnoso romanticismo, non ha prezzo. In attesa di vedere la prima e seconda maglia, la Nike ci pensi.  

LA “METAMORFOSI” DI SOGLIANO

 

Non sarà un mago della sintassi, Sean Sogliano, anzi.  Spesso il ds baruffa coi congiuntivi, si scontra con la grammatica, s’arrampica affannosamente sui soliti aggettivi, figuriamoci quando s’avventura negli inglesismi (auzzider, rimarrà sempre una perla). Ma se la forma lascia a desiderare (ahimè, ci sono affezionato), lo stesso non si può dire della sostanza. Il direttore sportivo del Verona, infatti, ha due pregi (rari dato il ruolo che ricopre): non dice grandi bugie (piuttosto omette) e parla chiaro arrivando al cuore del problema. “Il mercato della serie A è più difficile perché non puoi prendere tutti i giocatori che vorresti” ha detto ai cronisti prima di partire per il Sudamerica. Tradotto: se sei più povero, devi essere più bravo e scaltro. Hai detto poco.  

Ed è questo il punto. Sogliano dovrà dimostrare di essere un manager da serie A. Nella stagione appena conclusa il ds figlio d’arte ha svolto egregiamente il compito assegnatogli. Ma in serie B. La proprietà gli aveva chiesto di portare a Verona il meglio della cadetteria e lui c’è riuscito, contenendo (cosa non da poco) il più possibile i costi con operazioni intelligenti, tra svincolati (Rivas, Moras e Laner), prestiti con diritto di riscatto (Martinho e Cacciatore) e giocatori in offerta (Cacia). E’ stato bravo il ds, perché – checché ne dicano i soloni che stupidamente credono che al mondo tutti possano fare tutto e che coi soldi è facile di default  – a certi giocatori ci arrivi anche con le relazioni e il tempismo giusti. E poi per costruire una squadra non basta comprare il meglio, ma anche metterlo al posto giusto, senza doppioni, o ruoli mancanti. Sogliano, dicevo, in tutto ciò è stato bravo. Ma non bravissimo, perché il presidente Setti offriva i migliori ingaggi su piazza a quei livelli e i giocatori che giravano erano, tutto sommato, i soliti noti. In A, al contrario, serve fantasia, intuito, conoscenza del mercato internazionale e giovanile. Occorre ampliare il raggio delle relazioni (il mondo non si ferma a Varese) e dei contatti. Occorre (il Chievo insegna, lasciando stare l’inarrivabile Udinese) creare anche una struttura di collaboratori che battano i campi minori (ma un Prisciantelli o un Gibellini come capo degli osservatori sono di troppo?) e internazionali.

In buona sostanza se “la serie A è un altro sport” (copyright Setti), essere ds in una neopromossa è un altro mestiere (copyright mio). Sogliano avrà carta bianca, si consulterà con Mandorlini, ma deciderà lui. E, statene certi, non costruirà una squadra a immagine e somiglianza dell’allenatore. E’ la strategia societaria che lo impone e poi non è più il calcio di una volta. Setti vuole patrimonializzare (legittimo, lo fa per business mica per passione, l’importante è che il business sia conciliabile con le ambizioni sportive, quindi non pastorelliano) e gli allenatori – al contrario – sono razza precaria per vocazione. Da qui le  nette parole di Sogliano: “Non lavoro su giocatori che non sono nostri”. Quindi niente prestiti, possibilmente (l’eccezione sarebbe il fenomeno di turno). I nomi che circolano, se veri (il calciomercato è di per sé civettuolo e falso), sono promettenti, staremo a vedere. Quello che è certo è che il giovane e ambizioso Sean adesso si gioca la credibilità (in sintesi “sono bravo, non mi manda papà”) e la carriera. “Non riesco mai a godermi i risultati raggiunti, penso sempre allo step successivo. Sono un irrequieto”, mi ha confidato il giorno dopo la promozione. E’ una buona premessa, in bocca al lupo.  

MANDORLINI COME NAPOLITANO

 “Re” Giorgio e “Re” Andrea. Accomunati e accompagnati da un destino. Tornare nel giro quando tutto (per loro) sembrava finito. Napolitano come Mandorlini, Mandorlini come Napolitano. Scusate l’azzardo, o il parallelismo volutamente esagerato, ma questo totoallenatore mi ha ricordato un po’ la recente corsa per il Quirinale. Romano Prodi? Impallinato. Franco Marini? Idem. Stefano Rodotà? Fuori dai giochi. Un po’ come Beppe Sannino e Devis Mangia, dati da tutti (me compreso) come i probabili nuovi allenatori del Verona e invece, alla resa dei conti, superati nei sondaggi di Via Torricelli e, in particolare, dalle intenzioni del ds Sean Sogliano (il vero fautore dell’operazione) da chi c’era già. Restaurazione? Nel caso di “Re” Giorgio sì, nel caso di Mandorlini le parole esatte sono continuità e meriti sportivi. Infatti le somiglianze finiscono qua, perché se a Roma sono stati i partiti ad andare col “cappello in mano” dal Capo dello Stato per la sua rielezione, consegnandogli di fatto le chiavi del Paese, in via Torricelli è stato Mandorlini a fare un gesto di umiltà. “La serie A è la mia occasione, sono pronto a rimettermi totalmente in discussione”, le apprezzabili parole del tecnico lunedì durante l’incontro. Parole che hanno fatto piacere a Sogliano, che la sera stessa, privatamente, affermava: “Mi dispiacerebbe non andare avanti con lui”. 

Detto e fatto. Giusto così, diamo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Fuor di metafora, se è vero  che Setti e Sogliano hanno costruito una fuoriserie per la serie B, è altrettanto giusto, a bocce ferme, riconoscere all’allenatore di aver condotto in porto la nave. “In qualche modo” ha ribadito Setti al Vighini Show di una settimana fa. Certo, Mandorlini ha commesso più di un errore, Setti e Sogliano gli rimproverano, in particolare, la discontinuità nell’intensità degli allenamenti e gli infortuni muscolari (lo staff tecnico fa capo a lui), la testardaggine nel modulo, qualche favoritismo di troppo con alcuni calciatori e la gestione emotiva delle sconfitte (da qui le famose conferenze stampa di Sogliano). Tuttavia il tecnico si è ritrovato la scorsa estate una rosa forte, ma ampiamente rinnovata e soprattutto – per le caratteristiche dei suoi giocatori (alcuni fondamentali nelle idee societarie come Bacinovic, Rivas e Carrozza) – poco “mandorliniana”. Come se a un artigiano (perché questo è Mandorlini, allenatore vecchio stampo) avessero cambiato di punto in bianco gli strumenti in laboratorio.

Un equivoco, questo, durato una stagione intera e nato da una scelta – la conferma di Mandorlini – un anno fa più subìta che altro da Setti e Sogliano, appena insediatisi. Un equivoco che poteva generare disastri. Ciò non è successo perché, per la strada, Mandorlini e Sogliano si sono avvicinati. Il ds ha lasciato che l’allenatore disegnasse pian piano la “sua” squadra (fuori Bacinovic, Rivas, Carrozza, Grossi, Crespo e Bojinov), Mandorlini a sua volta ha accettato con umiltà il contributo deciso di Sogliano nella gestione del gruppo. Un equivoco, tuttavia, che non poteva ripresentarsi in serie A. Da qui le parole dure e nette di Setti al “Vighini Show” e i giorni di riflessione che la società si è concessa.  Mandorlini ha recepito e ha fatto un passo indietro sia con Sogliano, che con Setti e il dg Gardini, i quali parallelamente gli hanno chiesto rassicurazioni  sul suo comportamento fuori dal campo (lo impone la serie A ipermediatica di oggi) e nei suoi rapporti col club. Mandorlini – l’auspicio del patron – non deve essere un corpo a se stante rispetto alla società, con il suo marchio e la sua “corte” (composta anche da qualche giornalista amico), ma essere un tutt’uno. Rassicurazioni avute e fine delle ambiguità, si spera. Ora comincerà una nuova storia, più difficile (la serie A è davvero un altro sport), ma forse ancora più bella.