MANDORLINI O MANGIA?

 

E’ il nodo di questi giorni. Mandorlini sì, o Mandorlini no? Maurizio Setti e Sean Sogliano si son dati qualche giorno di riflessione. Il redde rationem che sancirà il prosieguo del rapporto, o il divorzio, con tutta probabilità si avrà all’inizio della settimana prossima. Setti, non è un mistero, non ama granché il tecnico ravennate, il feeling tra i due non è mai scattato, eppure questo non sarà decisivo ai fini della storia. Il presidente del Verona è un uomo pragmatico: “Non decideremo in base ai sentimenti, ma a valutazioni tecniche” ha detto durante i festeggiamenti di sabato. Questo può valere in un senso, ergo “non lo amo, ma possiamo continuare assieme”, o nell’altro – “la piazza lo ama, ma noi decideremo diversamente”. Questa, in linea generale, è una buona premessa.

Impressioni? Le quotazioni dell’allenatore sono in risalita, ma la partita è tutta da giocare. A favore di Mandorlini i risultati e il cambiamento, nel corso della stagione (in particolare dopo la sconfitta di Novara), del rapporto col diesse Sogliano, finalmente gerarchico e non più alla pari anche nella gestione quotidiana del gruppo (l’allenatore in qualsiasi società è un sottoposto del direttore sportivo). Sogliano ha ricevuto “carta bianca” da Setti e fin dal suo arrivo ha sempre ribadito: “Il mercato lo faccio io e partecipo anche alla gestione del gruppo durante la settimana, io nello spogliatoio ci entro, sono un rompiscatole”. Insomma, è chiaro chi comanda.

A sfavore dell’allenatore alcune valutazioni che la società sta facendo sul campionato del Verona nel suo insieme. Deludente fino alla sconfitta di Novara, altalenante fino al Brescia (coi pareggi indigesti di Cesena e col Cittadella) e convincente sul finire. E in via Torricelli sono persuasi di aver messo a disposizione del tecnico una “Ferrari” per questa serie B. “Potevamo fare 90 punti. Ci siamo svegliati tardi” il Setti pensiero. Appunto. E la serie A non è la B. Sullo sfondo, ma neanche troppo, l’ombra di Devis Mangia (più di Sannino, che balla tra la conferma al Palermo e il Chievo), allenatore emergente e che gode di grande considerazione tra gli addetti ai lavori. La frase di Setti “punteremo sui giovani, vedremo cosa ne pensa Mandorlini”, appare criptica al cospetto di un allenatore (Mandorlini) che – come molti suoi colleghi in realtà – preferisce i giocatori esperti. Mangia, al contrario, come il Prandelli che fu (nel 1998 al suo arrivo a Verona) viene dalla gavetta dei settori giovanili e delle categorie minori, in più l’esperienza in Under 21 gli ha permesso di ampliare il raggio di conoscenza sui giovani calciatori europei. Sogliano ha una stima infinita per il tecnico varesino – meno gestore e più tattico di Mandorlini, propulsore di un 4-4-2 molto offensivo sugli esterni e aggressivo in mezzo al campo – e ancora qualche mese fa faceva trapelare confidenzialmente la possibilità di metterlo sotto contratto dopo l’Europeo.

Mangia o Mandorlini? Se la società ne è convinta pienamente e gli costruisce una squadra adatta al suo calcio, io dico Mandorlini. Perché lo merita moralmente, per la continuità tecnica e per la solidità difensiva delle sue squadre (in A fattore importante). Altrimenti meglio cambiare subito, perché repetita non semper juvant e gli equivoci e le ambiguità della stagione appena conclusa nel rapporto società-allenatore non ce le possiamo più permettere. La serie A non perdona e il Verona, da sempre e per sempre, è il bene supremo.  

LA BELLEZZA E L’INFERNO

 

La vita spesso è un paradosso. Il dramma può celarsi nella commedia e viceversa. Lo insegnano anche a teatro. La bellezza e l’inferno – prendendo spunto da un bel libro di Roberto Saviano – mischiati e sovrapposti. Ricordate il gol di Morante con la Pro Patria? Esplose il Bentegodi. Impazzii di gioia, nel mio solito posto in curva sud. Idem dopo il gol di Zeytulaev a Busto Arsizio. Eppure mi venne da pensare, qualche anno dopo a freddo, che quei momenti di esaltazione siano stati in un certo senso la punta dell’iceberg di undici anni di inferno. Gioire, esaltarsi, godere per una salvezza in C1. Nacque in quei giorni la reale consapevolezza: ma come eravamo messi? Cos’eravamo costretti a subire? Cosa festeggiavamo a fare? Eppure il popolo del Verona, altro paradosso, si è unito e compattato proprio in quei giorni bui, come non era accaduto nemmeno in epoche più gloriose. Il popolo del Verona nella sofferenza è stato un monolite. La bellezza di un popolo e l’inferno di un mondo (quello della terza serie),  riprendendo Saviano e la dicotomia del titolo.

Adesso siamo a un sospiro dalla serie A, fuori da ogni stucchevole e italiana scaramanzia (“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, Giorgio Gaber). Ci sarà tempo per ragionarci su, per analisi tecniche, per pensare alla squadra dell’anno prossimo (la serie A è un altro mondo e il Verona non sarà costruito per essere una spanna sopra a tutte nella corsa salvezza, come lo è stato quest’anno in quella promozione). Per discutere del budget di Setti, delle strategie di Sogliano, della posizione di Mandorlini (che moralmente merita di restare, ma senza gli equivoci di quest’anno tra lui e la società, la A non perdona), se Cacia, bomber sublime in B, vale la massima serie oppure no (legittimo discuterne senza che l’interessato s’incazzi a favor di telecamera?).   

La serie A significa tante cose. In primis ridare  dignità, anche fisica e di luogo (restituire la propria casa), al Verona. Significa non sentire più la bella avvocatessa torinese, conosciuta a Nizza in viaggio due anni fa, schernirmi: “Ma il Verona che fine ha fatto?” (io involontariamente profetico e volontariamente orgoglioso risposi “riparliamone fra due anni”). Significa riportare una città nella massima serie, con tutto il carico di passione e di gente che ne segue – non solo quella che va allo stadio, o guarda la squadra in tv (a Verona ama il Verona anche chi non si interessa di calcio, altro paradosso). La serie A significa vedere scene da (ieri) pomeriggio al bar: i butei con cui hai condiviso l’adolescenza e la prima giovinezza allo stadio abbracciarti, piangere, brindare, imprecare di felicità, sventolare i bandieroni e cantare. Esaltati? No, ultimi giapponesi romantici in un calcio che dovrebbe guardarli in faccia, ammirarli e vergognarsi un po’ di se stesso per quanto è marcio di cinismo, disincanto e avidità. La serie A significa, non dimenticare, ma fare pari e patta con il “dramma” di Piacenza. Ricordate quel pomeriggio e quella sera? Ecco, possiamo tutti rimetterci il cuore in pace e sorridere.

Undici anni, è cambiato il calcio e anche il mondo (non in meglio). Forse siamo cambiati anche noi.  Il Verona ha toccato l’inferno, adesso abbiamo diritto alla bellezza. “A chi conosce la bellezza della libertà e della libertà di vivere o amare, e non sopporta il puzzo del compromesso, della corruzione, della devastazione della propria terra” scrive Saviano e, chissà perché, oltre a tante cose più importanti del calcio, penso a Pastorello e Cannella. Siamo sopravvissuti a loro, possiamo ancora aver paura? No, voliamo alto e godiamoci la bellezza. “La bellezza salverà il mondo” afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij. Quella gialloblù di sicuro.

 

  

     

SE MI MANDI IN TRIBUNA GODO

Ognuno, in fondo, se la vive a suo modo. Ezio Vendrame, scapigliato attaccante degli anni ’70 (in confronto Zigoni, suo amico, era una suora di clausura), la prendeva in maniera singolare. Nel ’76 ai tempi del Napoli, a Cagliari l’allenatore Luis Vinicio lo spedì in tribuna. Ma mica s’incazzò Vendrame, hippie  sul serio e mica per moda. Macché: “Abbordai una modella sugli spalti, un gran pezzo di figa, qualche  timido bacio, me la portai in bagno e me la trombai”. E’ uno degli aneddoti del suo gustosissimo libro, “Se mi mandi in tribuna godo” (Chaos ed.), uscito qualche anno fa.

Andrea Mandorlini, invece, hippie non lo è per niente. E non c’entrano solo le idee politiche, orgogliosamente molto diverse dalla cultura: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Spesso squalificato e in tribuna, quest’anno, il nostro allenatore ha vissuto le partite dagli spalti teso e partecipe, com’è giusto che sia. “Un leone in gabbia” ha avuto modo di definirsi lui.  “Libero” in settimana si è divertito a giocare su un paragone irriverente: “Canà Mandorlini: multe ed emozioni”, titolava il quotidiano degli Angelucci riferendosi al record di giornate di squalifica del tecnico (otto), un po’ come il mitico personaggio di Banfi nel film.

Vendrame e Mandorlini, così diversi: sornione e rilassato il primo, teso e inquieto il secondo. Tuttavia un filo che li lega esiste. “Se mi mandi in tribuna godo” e Vendrame abbiamo capito come. Mandorlini invece gode vincendo. Otto partite in tribuna: sei vittorie e due pari. Fosse per la cabala, se non altro, lì ci potrebbe rimanere 🙂

“INCIUCI” DI FINE STAGIONE? RIFORMIAMO I CAMPIONATI

 

Scartabellavo da Feltrinelli domenica mattina. Tra uno scaffale e l’altro trovo “Il club degli incorreggibili ottimisti”. Un buon libro per i molti menagrami che vedono ancora le nubi sul Verona. Lasciamoci andare a un po’ di sano ottimismo, fa bene e poi siamo a buon punto, alla faccia della scaramanzia. Il romanzo del francese Guenassia parla di politica, bistrot parigini, filosofia, rock and roll, bevute e amori. E soprattutto di sconfitti che ci credono ancora. Se ci credono loro, non vedo perché non possiamo noi, che siamo in pieno gioco. Poi sembra pure che Mandorlini al telefono renda più che in panchina e che i giocatori in campo non sentano particolarmente la mancanza dei suoi urlacci, anzi. E’ una battuta, ok c’è della malizia, ma passatemela senza fare le isteriche zitelle.

Nello scaffale a fianco trovo “Deja-vù”, onirico romanzo del britannico McCarthy, un Truman Show di attori consapevoli pagati per replicare gli stessi gesti ogni giorno per un’intera vita. Un po’ come il calcio italiano di fine stagione, con partite “strane” (come detto testualmente da Prisciantelli al “Vighini show”) e risultati già scritti. Dicevano che gli scandali, “scommessopoli” e “calciopoli” in primis, potessero mettere in riga presidenti, club e giocatori. Chissà forse è successo e non c’è più dolo, tuttavia la frittata, gira che ti rigira, è sempre quella ed è ciò che più conta. Partite da sonno, ritmi bassi, difese a maglie larghe e gol e risultati scontati. Dalla serie A ai dilettanti. Un deja-vù appunto, che si ripete ogni anno, frutto di un malcostume tipicamente italico.

Così fan tutti, si dice. Vero, infatti è il sistema – ergo i tanti soldi che girano nel calcio e le eventuali perdite che comporta una retrocessione – che rende macchiavellico e sparagnino il comportamento degli addetti ai lavori. Io oggi faccio un favore a te, domani tu lo rendi a me. Con buona pace dei tifosi e dell’etica sportiva (roba da simpatici idealisti, penseranno i padroni del vapore). Realpolitik da inciucio! Lo fanno al governo, non vedo perché dobbiamo reagire da verginelle violate se succede in campo. Ma non è solo una questione di soldi, capita anche in terza categoria e non è che in Inghilterra o Germania giochino gratis. Incidono anche le ambizioni sfrenate e la “mancanza della cultura della sconfitta”, per dirla con un’espressione cara ad Arrigo Sacchi.

Il problema di fondo, tuttavia, è circoscritto nella nostra italianità, permeati come siamo della cultura consociativa del “Francia o Spagna purché se magna”. Cultura che in politica unisce oggi PD e PDL e univa ieri il CAF (Craxi, Andreotti e Forlani) e il Pentapartito, e nel calcio sfocia in stucchevoli gentlemen’s agreement tra “regali” in campo e magari stretti giri di mercato fuori. Non è un reato, fino a prova contraria, solo uno sgradevole malcostume, per certi versi (visti gli interessi in ballo) comprensibile. 

Non scandalizzatevi, o meglio, non ammorbatevi di sterile morale. Non serve a nulla. Scrivo “malcostume comprensibile” perché la FIGC per risolvere il problema dovrebbe innanzitutto comprenderlo. Parliamoci chiaro: “l’occasione fa l’uomo ladro” e mai proverbio fu più azzeccato. Per fermare “l’uomo ladro” bisogna togliergli la terra da sotto i piedi, dunque “l’occasione”. Come? Riformando tutti i campionati, sullo stile del basket e della pallavolo. Poche squadre per ogni girone (16 in A, 18 in B e 16 per ogni girone della C unica), con play off e play out estesi, in modo da ridurre il più possibile le squadre precocemente senza obiettivi.

Una riforma possibile tecnicamente, più ardua politicamente. Perché così fan tutti, dicevamo, ma soprattutto questo sistema sta bene a tutti. Tifosi esclusi, ovviamente, ma loro si sa contano meno di una nota a piè di pagina in una tesina universitaria.

    

PAGINA BIANCA

Massimo Silva negli spogliatoi di Ascoli ricordava il miglior Oronzo Canà. “Sei a zero… è sei a zero!”. Ok, il Verona si è fermato a cinque, ma solo perché non ha voluto (giustamente) infierire dinnanzi alla pochezza di uno sparring partner da “dopolavoro” ferroviario.

Che vuoi dire dopo una partita così? Giornalisticamente parlando questi sono match da “pagina bianca”. Perfetto il Verona di oggi, come nel secondo tempo col Brescia, aggressivo e offensivo, coi due mammasantissima Gomez e Martinho più nel vivo del gioco. Una squadra finalmente coerente col disegno di mercato estivo del suo d.s. e che ha trovato una precisa identità nel momento decisivo della stagione, con un Cacia rinsavito, un Gomez liberato, un Martinho recuperato. Certo, manteniamo l’equilibrio, siamo ancora terzi e se Pro Vercelli e Juve Stabia non preoccupano, l’Empoli non è l’Ascoli.

Tre partite alla fine, vincendole saliamo in serie A, ma credo basteranno anche sette punti. La rotta è tracciata, c’è da riprendere il filo di un discorso interrotto brutalmente nel 2002…

LA “BADANTE” SOGLIANO

 

Il Verona boccheggia, Sogliano parla. Era successo dopo Novara, è ricapitato a seguito del magro pareggio col Cittadella. Un riflesso pavloviano, dalla teoria del riflesso condizionato dello scienziato russo Pavlov. Capita anche questo dalle parti di Via Torricelli, dopo una stagione che comunque vada a finire si è rivelata sotto le aspettative della società, la quale non lo ammetterà mai pubblicamente, ma puntava a una promozione senza affanni (a torto, o a ragione fate voi).

Ma a chi parla Sogliano? Non certo ai tifosi e alla stampa, sebbene li abbia messi nel calderone per sparigliare abilmente le carte. L’obiettivo del vulcanico Sean è rinvigorire i giocatori e soprattutto l’allenatore, di recente apparso spento (anche per i noti motivi personali). Così è stato dopo Novara, così è stato venerdì pomeriggio. In particolare Sogliano è rimasto di stucco, martedì sera, nel vedere gli occhi bassi e la remissività di Mandorlini negli spogliatoi dopo il “cazziatone” generale dei vertici del club. Un atteggiamento sconosciuto in un uomo che avrà mille caratteristiche, ma non certo quella della mitezza.

Sogliano, insomma, ha voluto un po’ scuotere e un po’ proteggere i suoi. Un po’ “badante” e un po’ mamma che nasconde il bambino impaurito sotto la gonna. Dopo Novara e il suo famoso tormentone “giochiamo da auzzider”, il Verona raccolse due vittorie di fila con Varese e Bari. Corsi e ricorsi storici, anche se adesso occorre qualcosa in più. Per raggiungere la promozione senza passare dai play off, infatti, è necessario vincere almeno (sottolineo almeno) quattro partite su cinque e non vorrei dovessimo ricorrere in servizio permanente ai servigi della “badante” Sogliano. E’ vero che in tempi di crisi economica i doppi lavori sono contemplati, ma gli straordinari costano. Eppoi mi manca il Mandorlini che fu: incazzato, riottoso, irascibile, furbo, sguaiato, capopopolo, permaloso, polemico e accentratore. In una parola, detestabile. Caro mister torna caudillo, che per gli “autunni del patriarca” di sudamericana memoria c’è sempre tempo.   

 

I CRITICHINI LAST MINUTE

 

Troppo facile ora. Comodo, anche. E perfettamente inutile. Dico: criticare adesso, gareggiare a chi la dice più grossa. Mandorlini di qua e Sogliano di là, Setti di giù e Marini (il preparatore atletico) di su.

Facile perché è un po’ come scoprire l’acqua calda: il Verona del resto è sempre lo stesso da settembre, non è cambiato di una virgola, sebbene qualche “intelligentone” se ne accorga solo ora (riflessi appannati?). Stesse virtù, ottimo gioco di difesa con l’astuta tattica del possesso palla (alla faccia di chi la critica); stessi vizi, pessimo gioco di offesa, tra giocatori sacrificati, schemi banali, movimenti di smarcamento lenti e prevedibili. Un’assenza di schemi d’attacco spesso celata dalle giocate dei singoli, dai quali abbiamo sempre eccessivamente dipeso, nel bene (spesso) e nel male (fortunatamente di rado). E non è un caso che con le squadre più forti diamo il meglio, giocare negli spazi, si sa, scatena il talento dei nostri stoccatori. Sempre quello anche l’equivoco di fondo: Sogliano ha costruito una squadra a trazione anteriore per un allenatore difensivista. Come voler parlare strettamente in due dialetti diversi. Ed è questo l’errore più grave (ed è di Sogliano, non di Mandorlini). Uguali anche la tipologia infortuni, sovente muscolari. Preparazione atletica sbagliata? Chissà.

Ma criticare ora è anche comodo, dicevo. Siamo in Italia, terra di santi, poeti, navigatori ma soprattutto di conformisti, dove la bastonata allo sconfitto, detta anche calcio dell’asino, è sempre in voga. Ma premesso che sconfitti ancora non siamo (il secondo posto è lì), adesso che Mandorlini è un cavallo meno rampante (Mangia sarà il nuovo allenatore sia in A che in B), tutti a dargli addosso. Dov’eravate prima cari critichini last minute?

Adesso è tardi, non perché la situazione è compromessa (anzi), ma perché il Verona di Mandorlini mica cambierà a cinque partite dalla fine. Pregi e difetti sono questi e con questi andremo alla battaglia finale. Con il nostro orgoglio e le nostre possibilità, che non sono poche. Quindi è inutile adesso star qui a fare gli schizzinosi e puntualizzare. Si sarebbe dovuto farlo prima, quando si era in tempo utile per migliorare, ma voi predicavate ecumenici e molto ottusi “stiamo uniti”. Adesso che bisogna esserlo sul serio, uniti, fischiate e contestate? Tempo scaduto.

  

 

QUELLI CHE… (OMAGGIO A JANNACCI E AL VERONA)

Quelli che…”dobbiamo guardare l’Empoli” e dimenticano che il Verona è stato costruito per vincere e i vincenti guardano avanti, non indietro.  Obiettivo Sassuolo.

Quelli che… “Sgrigna è finalmente determinante!”, un po’ come a La Spezia. Guarda a caso quando ha giocato nel ruolo di una vita. Ci voleva tanto?

Quelli che… “Ferrari e Cacia non possono giocare assieme ché si pestano i piedi”. Infatti sono giocatori opposti e complementari.

Quelli che… “Ferrari, Cacia e Sgrigna adesso devono giocare sempre assieme”. Martinho e Gomez già dimenticati? Carrozza e Rivas proprio inutili? Suvvia, un po’ di equilibrio.

Quelli che… “Mimmo Mimmo Mimmo”! Quelli che… “Nicola Nicola Nicola”! E poi magari il figlio lo chiamano per cognome.

Quelli che… “il modulo non conta, conta lo spirito”, un po’ come in parrocchia. A questi livelli la differenza la fanno i dettagli e un principio logico: è il modulo (qualsiasi esso sia) che si deve adattare ai giocatori e non il contrario.  Per giocare coi boy scouts (con tutto il rispetto) c’è tempo.

Quelli che… “Mandorlini ha ragione sempre”. Quelli che… Mandorlini sbaglia ancor prima (eventualmente) di sbagliare. Mandorlini ha il pregio che sa insegnare molto bene un certo tipo di calcio. Il difetto? A volte bisogna saper cambiare e lui lo fa di rado. Oggi l’ha fatto e non era scontato. Chapeau!

Quelli che… “non dovete remare contro” e confondono i ruoli (come se critica e tifosi fossero un’entità unica). Poi li vedi allo stadio incazzati col mondo smoccolare al primo passaggio indietro.

Quelli che… “a Cesena è dura!”. Lo sarà sempre, ma anche mai. Siamo il Verona e dipende da noi.

Quelli che… “sono tutte finali”. Ecco risparmiamoci le frasi fatte e leggiamo qualche libro in più.

Quelli che…“il Palazzo ce l’ha con noi”. Se non ci piace la Lega (Calcio) compriamoci il Lego e costruiamone uno noi (di Palazzo). Tornare un po’ bambini è terapeutico versus le paranoie.

Quelli che…ci manca già Jannacci, perché quando se ne va un artista un po’ di vuoto resta. Perché “sarà ancora bello quando ti innamori, quando vince il Verona (non il Milan, caro Enzo), quando guardi fuori. E sarà ancora bello quando guardi il tunnel, che è ancora lì vicino e non ci credi ancora. Ne sei venuto fuori e non ci credi ancora. E c’hai la pelle d’oca e non ci credi ancora” .

“Se me lo dicevi prima”, caro Enzo, ti omaggiavo “prima”. Questa tua canzone la dedico al Verona, che il tunnel degli anni ’00 se l’è lasciato alle spalle. Adesso c’è un mondo più bello da inseguire.

 

STADI NUOVI? SOLTANTO UNA GRANDE SPECULAZIONE

“Servono stadi nuovi, i nostri sono vecchi”. Lo dicono tutti, i presidenti dei club, i politici, i tifosi.  Lo si dice da tempo, più o meno da dopo Italia ’90, quando ci si accorse (quasi) immediatamente che le ristrutturazioni dei vecchi stadi e la costruzione dei pochi nuovi (San Nicola e Delle Alpi) in occasione dei Mondiali erano fuori dal tempo per struttura, design e forma. Un’occasione sprecata, insomma, quel Mondiale, non solo per gli azzurri di Azeglio Vicini (da poco 80enne, auguri!), ma soprattutto per il calcio italiano. Non certo, tuttavia, per i palazzinari e i politici che in piena epoca tangentopoli (fine anni ’80) ingrassarono con le vacche grasse da mungere degli appalti truccati e delle “stecche” versate sui conti esteri.

“Servono stadi nuovi” è uno stanco refrain, ma Juventus a parte – che peraltro ha costruito lo stadio nuovo solo grazie ai “buoni uffici” degli Agnelli con l’allora sindaco Chiamparino, che ha ceduto il suolo dell’ex Delle Alpi sottoprezzo, con buona pace dei torinesi a cui del calcio non frega nulla – di stadi nuovi non se ne vedono. Perché? I presidenti accusano i politici: “Il Parlamento non ha mai approvato una legge sugli stadi”. Molti politici, di rimando, replicano che c’è il rischio che i presidenti prendano a pretesto lo stadio e l’appeal che esso può avere sui tifosi per speculazioni e lottizzazioni più grosse. Il che è vero.

Chiarendo che la legge sugli stadi dell’onorevole Alessio Butti è stata scritta ed emendata ed è al momento ferma al Senato dopo essere passata al vaglio dell’apposita commissione parlamentare, il buon senso dell’uomo della strada suggerirebbe: se i presidenti vogliono lo stadio di proprietà, ergo privato, se lo facciano coi loro soldi, a che serve una legge statale? Domanda retorica, ovviamente, in un paese in cui la commistione “politica, Stato e affari” è un must. La legge serve perché i proprietari dei club, spesso loro stessi costruttori o in affari con costruttori, non si accontentano dello stadio, vogliono l’esclusiva di lottizzazione in una vasta area limitrofa al sorgere del nuovo impianto, paradiso terrestre dove costruire centri commerciali, appartamenti ecc.  Un grande, grosso e grasso business, in buona sostanza. Ovviamente il tutto coronato, giusto per non farsi mancare niente, da possibili sconti sul valore delle aree comunali nelle quali costruire e ovviamente incuranti dell’impatto ambientale.

La questione “verde” d’altro canto tocca le corde delle “lobby” ambientaliste (in particolare Legambiente e WWF) , che col loro manicheo idealismo sono l’altra faccia della stessa medaglia del cinismo dei costruttori-presidenti. Gli uni (i costruttori) bloccano la legge perché vogliono troppa libertà di azione, gli altri (gli ambientalisti) – al contrario – spesso ne fanno una questione di principio. Risultato? Tutto fermo e bloccato, altroché pragmatismo britannico, tra deroghe, emendamenti, compromessi ed eccezioni. Una vicenda molto italiana, insomma.

Salvo due eccezioni, chiaramente molto diverse tra loro. Una è quella dei Pozzo, ed è a mio avviso la strada da seguire, con l’Udinese che presto avrà il nuovo stadio (che non sarà altro che il vecchio Friuli ristrutturato e ammodernato), grazie a un accordo intelligente stipulato col comune: tu Comune mantieni la proprietà, io Udinese ottengo in comodato d’uso i diritti di superficie per i prossimi 99 anni.  Delle spese di costruzione se ne farà carico la famiglia Pozzo. In tutto un investimento da 31 milioni, un costo contenuto per un impianto moderno da 25 mila posti. L’altra è quella di Cellino arrestato e finito ai domiciliari perché accusato di essersi fatto lo stadio “Is Arenas” coi soldi pubblici. Della serie privatizziamo gli utili e socializziamo le perdite, o i costi. A pensarci bene, il tutto molto italiano anche questo.

 

 

IL CASO CACIA: E’ LA TRASPARENZA LA NUOVA FRONTIERA

Misteri della fede. O più laicamente della medicina.  Dubbi amletici e perduranti. Voci che si rincorrono, silenzi-assensi, dichiarazioni e smentite stizzite. Roba da forte emicrania causa labirintite acuta. Cos’ha Daniele Cacia? Da tempo si dice che il bomber calabrese soffra di pubalgia. Lui, martedì sera, forse su di giri per essere tornato al gol – sebbene più per demeriti di Leali che meriti suoi – ha smentito tutto, piuttosto seccato anche: “Ho avuto solo qualche acciacco, ne pubalgia ne niente, qui qualcuno parla di pubalgia e magari non sa nemmeno cos’è la pubalgia e parla così per parlare. Sto bene altrimenti non sarei sceso in campo”. Premesso che Cacia è forte e se stesse davvero bene non sarebbe partito dalla panchina due volte nelle ultime tre partite, la vicenda sarebbe grottesca se non fosse maledettamente seria. Perché chiama in causa il club e il suo attaccante più forte.

Andiamo con ordine. Il primo a fare outing a margine della sconfitta di Novara, è Nicola Binda, prima “firma” della serie B alla Gazzetta dello Sport. Binda, notoriamente in ottimi rapporti con l’attaccante di Catanzaro, scrive: “Cacia soffre di pubalgia”. Qualche giorno dopo, ufficiosamente (quindi off records) Roberto Bordin, vice di Mandorlini, conferma raccontando di quando, da calciatore, ne soffriva lui. Ma è il ds Sean Sogliano nella famosa conferenza stampa “dobbiamo giocare da outsider” a togliere ogni dubbio. Dunque non ci si scappa: se ha ragione Cacia (non credo, molti calciatori negherebbero pure un raffreddore di stagione pur di giocare, ma ne sarei lieto perché Cacia sano significa serie A sicura) hanno torto il suo ds e il suo viceallenatore, che hanno riportato ai giornalisti cose sbagliate. Se fosse il contrario, sarebbe fuori luogo la rabbia e l’orgoglio bilioso del centravanti davanti a microfoni e taccuini.

A molti può sembrare una nota a margine, di poca importanza, in particolare dopo la vittoria di Lanciano, fortunosa ma fondamentale nella corsa promozione. In realtà lo snodo è cruciale. In primis perché stiamo parlando non di un panchinaro qualsiasi, ma del cannoniere del Verona, del giocatore più importante (e pagato) dell’intera rosa, quello che in base ai suoi gol o alle sue “stecche” ha sempre cambiato nel bene o nel male i destini gialloblù, pertanto i tifosi hanno il diritto di sapere. In secondo luogo perché “una società seria quale noi siamo” (il mantra di Sogliano) è seria anche nella gestione di queste delicate questioni. E che serietà c’è se società, staff tecnico e calciatore danno visioni contrastanti di un’analoga vicenda?

Assodato che nell’era di internet e dello streaming  escono, per inerzia, anche gli spifferi (questo lo dico a coloro che rimasti al medioevo credono che certe notizie non dovrebbero uscire), un club mediante l’ufficio stampa e lo staff medico dovrebbe quotidianamente aggiornare e comunicare il “bollettino medico” ai media e ai tifosi, possibilmente in modo particolareggiato (coi limiti imposti dal buon senso e della privacy nei casi gravi, ovviamente). Le bugie o, come in questo caso, gli omissis, anche se a fin di bene, oggi hanno le gambe sempre più corte, specie se sono numerosi i network che ti seguono. E’ la trasparenza la via maestra, la nuova frontiera da seguire per evitare il rincorrersi di voci spiacevoli e infine distorte (secondo il meccanismo del “telefono senza fili” a cui giocavamo da bambini). Piaccia o meno, fornire notizie oggi è rimasto l’unico modo per controllarle.