IL DILEMMA BOJINOV

Come sarebbe andata lo si era intuito fin dal principio. “Bojinov esterno d’attacco non ce lo vedo, non ha la gamba per sostenere un ruolo del genere, lui è una punta”, disse Mandorlini al “Vighini show” poche settimane dopo l’arrivo dell’attaccante bulgaro. Il tecnico ravennate, si sa, non pecca di eccessi di diplomazia e, a differenza di molti altri suoi colleghi, non occorre leggerlo troppo tra le righe per intuire ciò che pensa di Tizio piuttosto che di Caio. Aggiungiamoci altre dichiarazioni settembrine – “Cacia è intoccabile e da Gomez quest’anno mi aspetto che faccia ancora meglio. Cacia, Gomez e Bojinov assieme? Difficile” – e non è azzardato giungere alla conclusione che il bulgaro non rientrava nei piani dell’allenatore. Il quale, non è un mistero, ha accettato suo malgrado il blitz col quale Maurizio Setti l’ ha portato a Verona.  E che, è acclarato, vede l’ex Fiorentina, Juve e City come terzo centravanti dopo Cacia e Cocco.

Lo stesso Bojinov, al di là dei pubblici intenti di rivalsa (“darò tutto per far ricredere l’allenatore, di cui rispetto le scelte”), è consapevole di un progetto tattico che, non dovesse mutare, è a lui estraneo. “Esterno nel 4-3-3 ho già giocato con Zeman a Lecce, ma lui concepisce questo modulo in maniera completamente diversa, gli esterni giocano più alti e hanno meno compiti di copertura rispetto a Mandorlini. Io comunque pur di giocare sono disposto ad adattarmi, anche se il mio vero ruolo è da seconda punta vicino a un altro attaccante”.

Ed è questo il nodo cruciale. Di Bojinov si può avere l’opinione che si vuole: c’è chi lo considera un ex giocatore, chi un potenziale fuoriclasse, chi sottolinea che in estate lo Sporting lo offriva a chiunque pur di piazzarlo, altri che ricordano come il talento di Gorna Ortijovah a 16 anni – all’esordio in una serie A all’epoca stellare – fece 11 gol. Io lo considero un ex campioncino che ha perso il treno per diventare campione, ma è ancora in tempo per riproporsi come ottimo giocatore. Ed è soprattutto un possibile investimento per il Verona, che a “soli” 500 mila euro ha facoltà di riscattare un giocatore che, se recuperato, può diventare il leader del Verona per i prossimi 2-3 anni, anche in serie A.

Ma, comunque la si pensi, non è questo il punto. Il nodo cruciale, dicevo, è un altro ed è lo stesso Bojinov a lasciarlo (lui sì tra le righe) intendere: se vuole sfruttarne appieno le potenzialità, Mandorlini deve cominciare a pensare a modificare l’assetto tattico del suo Verona. Sono d’accordo col mister: il tridente Gomez, Cacia e Bojinov è azzardato e anche poco logico, ma pensare a Bojinov e Cacia vicini,  con Paolo Grossi (giocatore dall’enorme tecnica) a suggerire e Rivas a crossare è fantascienza? In società l’idea serpeggia e chi di dovere l’ha fatto presente. A Mandorlini l’ultima parola.

NON C’E’ FUTURO SENZA PASSATO. SETTI NON “SPROVINCIALIZZI” TROPPO

Mani lunghe e affusolate. Alto e dinoccolato. Barba da santone, denti gialli da fumatore incallito, spalle larghe e fisico invecchiato ma ancora nervoso. Sguardo intenso e carisma innato. A vederlo da vicino, il Max, cofondatore e primo capo delle Brigate Gialloblù negli anni ’70, trasuda tutta la sua storia. “Le Brigate Gialloblù nascono apolitiche, l’unica cosa importante era tifare il Verona”. Da far sbiancare le verginelle mediatiche di oggi, anche il rapporto con presidente, allenatori e giocatori: “Una volta volevamo prendere a calci il grande Gianni Bui, Garonzi ci temeva, e per me è stato il miglior presidente del Verona, adesso basta una piccola polemica, un coro e i giocatori fanno le vittime. Troppo coccolati e strapagati”. Affascinante nei suoi aneddoti, calamita nei ricordi, coinvolgente nel raccontarti gli antefatti della nascita delle Brigate Gialloblù, le quali, piaccia o non piaccia, hanno segnato Verona – non solo sportivamente, o sulle pagine di cronaca – ma soprattutto come fenomeno di costume e di aggregazione giovanile negli anni ’70 e ’80. Sarebbe bello rimettessero in ristampa “I guerrieri di Verona” di Silvio Cametti,  altro fondatore della Brigate, un pezzo di storia a cui qualsiasi giovane tifoso dell’Hellas potrebbe attingere, perché non c’è futuro senza passato.

Le ultime due puntate nostalgiche del “Vighini Show”, quella sugli anni ’70 e sulle Brigate, mi riportano paradossalmente al presente, alla nuova società insidiatasi in via Torricelli, a Maurizio Setti. Sono sempre stato incurante del refrain “Il Verona ai veronesi”. E per me la discriminante sulla adeguatezza manageriale o meno di Mr Setti non è mai stata la sua provenienza geografica. Sono tra coloro che pensano che se viene uno dal Giappone a investire nella mia squadra va benissimo. Anzi meglio, sarà meno condizionato dagli umori della “piazza”. Tuttavia Setti, bravissimo sinora, non deve cadere nell’errore contrario: quello di non badare per niente a ciò che è la veronesità, che come tutte le culture ha i suoi difetti, ma anche i suoi pregi. Spesso ho sentito il presidente affermare che vuole “sprovincializzare” l’immagine dell’Hellas. Bene ma… solo in parte. Le radici sono importanti, anche per Setti vale quanto detto prima: non c’è futuro senza passato.

Il Verona è un qualcosa di diverso dalle altre squadre, qua la maglia e i colori contano di più di qualsiasi risultato, di qualsivoglia vetrina, di Sky, dell’Europa o della televisione. E non è retorica, caro Setti. Per questo sottoscrivo la proposta di Gianluca Vighini: inserire i veterani gialloblù di Nanni, Bagnoli e Mascetti in società, magari – aggiungo io – componenti di un “ministero senza portafoglio” dentro il Consiglio di Amministrazione, esercitanti un potere consultivo, ma non vincolante.

Perché per leggere la storia complessa e controversa del Verona, occorre consultare anche chi quella storia ha scritto. Il rischio, altrimenti, è creare una grande società bella nell’involucro, ma slegata al territorio. Una società di carta velina, attraente alla vista, ma poco resistente. Insomma, Setti non “sprovincializzi” troppo, sarebbe un clamoroso autogol.

MANDORLINI E MEDIA: LIBERTA’ DI APPLAUSO O DI CRITICA?

“La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”. Lo diceva Oriana Fallacci, credo sia una frase universale. Andrea Mandorlini, lunedì sera a margine di Verona-Sassuolo, prima si è arrabbiato con Giovanni Vitacchio per una domanda, poi si è allontanato evitando l’intervista con Telenuovo. E ha sbagliato. Con degli alibi, ma l’errore rimane.

Gli alibi li conosce chiunque abbia anche solo fatto un intervista “a caldo” nella sua vita. I dopo partita in sala stampa sono da sempre carichi di tensione. Figuriamoci quello di lunedì sera, dopo una gara tirata contro una diretta concorrente. Figuriamoci per un sanguigno, irrequieto ed emotivo come il tecnico ravennate. Che, è giusto sottolineare, non è stato il primo e non sarà l’ultimo a baruffare con un giornalista (fa parte del gioco anche questo). Anzi, se vogliamo, il modo in cui lo fa Mandorlini a tratti è perfino buffo da quanto è grossolano. Ci sono allenatori ancora più irruenti e irritanti in giro che, a differenza sua, manco hanno l’umiltà di scusarsi e ti tengono il broncio per l’eternità. Penso al vulcanico Gigi Delneri per diretta esperienza, ma – raccontano i vecchi cronisti – anche a Eugenio Fascetti e all’insospettabile Edy Reja. Lo stesso Bagnoli non era un mansueto. Voglio dire, non tutti sono educati come Remondina, ironici come Ventura, “cardinalizi” come Prandelli , o compassati come Perotti.

Al netto degli alibi, però, il mister ha sbagliato. Ha sbagliato perché Vitacchio (o chiunque nel suo ruolo) in quel momento non è un privato cittadino che legittimamente ti può stare sulle scatole. E’ un (bravo) professionista che rappresenta un emittente e quindi un pubblico, che vuole sentire l’autorevole parere sulla partita dell’allenatore della sua squadra. Montanelli lo ripeteva spesso: “Il mio padrone è il pubblico, io faccio il giornale per esso e non per me stesso”. Quindi il Mandorlini “disertore” manca di rispetto in primis alla gente (la gente che lo ama e che non lo ama, non fa differenza) e solo in secondo luogo alla professionalità di Vitacchio, il quale rappresenta il pubblico (Telenuovo) e non se medesimo. Non bastasse, il Mandorlini “disertore” manca di rispetto anche a… Mandorlini e al suo ruolo, peraltro ben remunerato perché è un bravo tecnico, ma  altrettanto ben remunerato (anche) per sopportare pressioni e critiche (peraltro lievi qua a Verona), giuste o sbagliate che siano. Fanno parte del lavoro anche quelle.

Chiunque lavori in posti di responsabilità ne è conscio: più onori (leggi stipendio e mansione) significa per forza di cose più oneri (leggi pressioni da gestire). Vale in qualsiasi azienda, nella fattispecie vale anche per il professionista (non l’uomo privato) Mandorlini. Se poi lavori sotto la luce dei riflettori, onori e oneri si moltiplicano a dismisura. Essere personaggio pubblico ti dà popolarità, visibilità e guadagni economici (se il calcio non se lo filasse nessuno, col cavolo che girerebbero certi stipendi). Onori, appunto. Ma può servirti anche critiche, domande impertinenti, scazzi e perfino colpi bassi. Oneri, quindi. E’ l’altra faccia della stessa medaglia, una non può esistere senza l’altra, o tutto o niente. Nei sistemi democratici funziona così: esiste la libertà di critica e di fare domande. La libertà di applauso e di genuflessione preferirei lasciarla alle dittature.

VERONA CITTA’ CIVILE. LA DIMOSTRAZIONE DELL’OVVIO

Mi ha pervaso la malinconia ieri pomeriggio al Bentegodi. Non ero l’unico, se può consolarmi. Vedevo i bambini camminare innocenti sull’ex pista d’atletica accompagnati dallo striscione “Moro per sempre con noi”. Sentivo la grancassa di retorica tesa a riparare la vergogna dei cori di Livorno e volta a gridare all’Italia intera l’OVVIO: Verona è città civile.

Mi è scesa la malinconia perché fossimo in un mondo (del calcio) normale, non ci sarebbe stato bisogno di alcunché. Di nessuna manifestazione “riparatoria”, di nessun distinguo, di nessuno striscione. Di nessuna iniziativa per affermare e dimostrare appunto l’Ovvio, e cioè che siamo una città civile, con tutti i pregi e i difetti di qualsiasi comunità, che al suo interno ha ladri e gentiluomini, puttane e suore, delinquenti e uomini onesti. E che dentro una curva (come in tutte le curve d’Italia) mescola borghesi e proletari, passionali ironici e corrosivi, ma anche incontinenti reietti, magari un po’ sbronzi, che vedono nello stadio lo sfogo dei loro peggiori bassi istinti e perfino un senso di (macabra) identità che lì fa cantare contro i morti. In un mondo (del calcio) normale quest’ultimi li tratteremmo con la più totale indifferenza, derubricandoli a “fenomeni da stadio” e lasciandoli nel  vuoto cosmico della loro ignoranza (ma non stupidità, ribadisco il concetto).

Invece siamo nel calcio del “Grande Fratello”, che controlla e monitora tutto, dimenticando il buon senso e la logica, per il falso dio dell’immagine. E allora ci tocca manifestare, ci tocca ribadire con forza che “Verona non è quei venti pseudotifosi” (come se qualsiasi normodotato potesse pensarlo) e che Morosini è “uno di noi”, nonostante manco lo conoscessimo. Così senza che ce ne rendiamo conto, oltre a imporci – nostro malgrado – di strumentalizzare un morto che al limite dovrebbe essere ricordato spontaneamente, questo calcio malato e mediatico, con le manifestazioni di ieri, ci ha indirettamente  messo al livello di quei venti macabri ultras, costringendoci a prenderne le distanze, a calcolarli, a farli sentire, seppur in maniera negativa, ancora parte del gioco.

Non ce ne rendiamo conto perché anche noi, fruitori di questo calcio da troppi anni, abbiamo accettato con pigrizia e un po’ di complicità le sue regole di ingaggio, diventandone parte. E allora dopo il coro “contro” (che non sarebbe dovuto uscire dalla curva), ecco le manifestazioni coi bambini “pro”. Dopo il danno, la “riparazione”. Alla resa dei conti e a ben vedere, un doppio danno al senso normale delle cose.

QUEI CORI (CONTRO MOROSINI) NON SONO FATTI DA STUPIDI

L’imbarazzo di Giovanni Gardini negli spogliatoi di Livorno era palpabile. Quel coro di pochi contro Piermario Morosini ha lasciato il segno anche sul “Richelieu” del Verona, noto per la sua proverbiale  freddezza. Mi è piaciuto il direttore generale, che non ha cercato alibi, non si è nascosto dietro ambigui distinguo, dribblando anche le domande capziose di qualche collega (non di questa testata) che cercava di pareggiare i conti della vergogna parlando della scorta a Mandorlini, o della presunta aggressione subita dal diesse Sogliano. Come se fossero la stessa cosa, come se non ci si volesse rendere conto che quanto successo con quel coro era grave in assoluto, eticamente innanzitutto, ma anche emotivamente e mediaticamente. Mi è piaciuto Gardini, perché non ha minimizzato. Non ha fatto il solito giochino di molti del “se succede a Verona…”, vittimistico quanto provinciale e autolesionistico.

Mi è piaciuto meno sentire definire “stupidi” i protagonisti del coro. Capisco che istintivamente verrebbe da chiamarli così, ma è sbagliato. Costoro sono forse ignoranti, probabilmente frustrati (socialmente, sentimentalmente, sul lavoro, che ne so…), ma non stupidi. Stupido è chi compie un’azione inconsapevolmente, questi invece lo fanno scientemente, per vanità, per egocentrismo, per mettersi in luce un minuto nel buio eterno della loro esistenza, fregandosene delle conseguenze, perché sanno che nulla gli succederà (ma non forse questa volta) e dell’immagine della città non se ne curano proprio (anzi il polverone mediatico li alimenta).

Quel coro poi è indice di un problema più oggettivo che c’è in curva, terra da qualche anno di troppi cani sciolti e, rispetto al passato, orfana di leader carismatici e punti di riferimento. So che qualche anima pia, o qualche progressista all’italiana si scandalizzerà per quel che scrivo, ma è un fatto che in passato anche la “famigerata” curva sud aveva un “suo” codice etico, discutibile fin che si vuole (ma le anime pie devono capire che il mondo ultras è un mondo a se) ma efficace, e dei leader che vegliavano sul rispetto delle regole interne. Adesso forse qualcosa è sfuggito di mano, mi auguro possa essere ripreso.

E basta col vittimismo del “se succede a Verona”. Ci rendiamo conto che questo vittimismo nutre quegli stessi che hanno cantato contro un morto? Siamo consapevoli che il nostro pianto permette loro di rifarsi una verginità fino alla prossima cazzata? E smettiamola di offenderci per come i media nazionali parlano di noi, perché  “i panni sporchi si lavano in casa”. Anche fosse, sarebbe ora di cominciare a lavarli questi panni.

L’HELLAS CONTA DI PIU’ POLITICAMENTE GRAZIE A GIOVANNI GARDINI

Giovanni Gardini è il cardinale Richelieu del Verona, l’eminenza grigia di Maurizio Setti. Il “boiardo” che si muove nell’ombra, ma che per certi versi conta di più di chi si espone alla luce. Mi ricorda, per ruolo, un po’ Gianroberto Casaleggio, il geniale guru di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle.

Specchio cardinalizio, anima spietata, Gardini. Il suo viso paffuto richiama alla mente l’attore Tom Bosley, lo sceriffo rassicurante di Jessica Fletcher ne “La Signora in Giallo”, o se preferite il pacioso  Howard,  ferramenta di Milwaukee e papà di Ricky Cunningham nel conformista scenario dell’America anni ’50 di “Happy Days”. In realtà l’aspetto inquietante, e affascinante insieme, è che in quel viso docile non si muove un sopracciglio. Quegli occhi freddi e gentili non tradiscono mai il disciplinato ed educato cinismo del tipo che ti “elimina” accompagnandoti cordialmente alla porta. Il sorriso affabile è più da “bacio della morte” che da brindisi in osteria e cela il cocktail perfetto di Mr Gardini: un combinato micidiale di instinct killer spregiudicato e ars politica diplomatica, a seconda dei casi, nei confronti di  qualsiasi cosa e persona che si metta dinanzi alla sua principale missione: far contare e proteggere il Verona a “palazzo”. Politicamente ed economicamente.

E’ questo, in primis, il compito che gli ha affidato Maurizio Setti.  Nell’organigramma Gardini risulta direttore generale, di fatto è il numero 2 di Via Torricelli, per certi versi addirittura il numero 1, dal momento che il presidente è spesso fuori sede per seguire le sue aziende e ha dato ampia delega operativa a questo esperto dirigente padovano, nato a Londra da famiglia piuttosto facoltosa e signorile, amante delle Jaguar e del potere, unici suoi vezzi di una vita morigerata e dedita al lavoro, di sicuro meno movimentata e interessante dei suoi sottoposti Sogliano e Mandorlini. Missione che il dg sta compiendo con soldatesca abnegazione e chirurgica precisione. E la sua longa manus, discreta ma incisiva, sta dando i suoi frutti. Checché se ne dica (da tifosi possiamo passare una vita a lamentarci), il Verona è maggiormente tutelato dalla Lega e dagli arbitri. E sta recuperando grande terreno anche a livello commerciale, nel campo del marketing e della “torta” dei diritti televisivi.

Merito senza dubbio del “Cardinale Richelieu” tutto gialloblù, dominus dietro le quinte, eppure anch’egli capace di cedere ai sentimenti in mondovisione il 14 aprile scorso a Pescara, pochi istanti dopo la disgrazia di Morosini, allora suo giocatore al Livorno. Gardini viene immortalato a piangere come un bambino abbracciato al presidente del Pescara Sebastiani. L’immagine fa il giro del mondo e rivela (nella terribile disgrazia) l’affascinante contrasto tra il dirigente chiamato dalla professione a vestire quotidianamente il doppio petto del potere e della discrezione, e l’uomo che si abbandona senza contegno ma con molta dignità al sentimento più vero con l’amore: il dolore.  Anche i “boiardi” si commuovono e ricordano.

P.S. Ricordiamo anche noi.  Sabato, guarda caso, si va a Livorno, partita per mille motivi con un “carico” di tensione per i ragazzi della curva e Mandorlini. Io sono per tutti gli sfottò (anche volgari) del mondo e contro i minuti di silenzio, tuttavia mi piacerebbe che ognuno di noi ricordasse, a suo modo e anche per un solo attimo, Piermario.

UN APPELLO A SETTI E ALLA QUESTURA: RICONSEGNIAMO LA CURVA NORD AI VERONESI

Lande desolate a… nord. Gradoni tristi, grigi e vuoti, che stridono con l’altra metà del cielo, quella “Sud” da sempre così piena di calore. Il problema del (mancato) utilizzo della curva Nord del Bentegodi è annoso, eppure se ne parla troppo poco. Passi (ma neanche tanto) per le parterre, inagibili perché fuori norma (metterle a norma, no?) e comunque settore storicamente poco appetibile per la bassa visibilità. Passi (ma neanche tanto) pure per la tribuna Est superiore, sovrastata come “fascia” dalla Ovest. Ma su quei 6 mila posti… a nord da troppi anni orfani non si può soprassedere.

La Questura, adducendo il (nobile) motivo del mantenimento dell’ordine pubblico, decise a suo tempo di chiudere un settore storico per tutti quei veronesi “moderati” e di ceto popolare che preferivano la tranquillità della Nord, alla rumorosità della Sud, non potendo al contempo permettersi un biglietto di tribuna.  Ricordo negli anni ’80 e primi ’90, quando la violenza negli stadi era forse più diffusa di adesso: i tifosi ospiti venivano messi in parterre, mentre la curva era aperta ai veronesi. Da tempo non è più così, la presenza di poche centinaia di tifosi ospiti monopolizza un intero settore dello stadio. Cosa che non succede in nessun altro grande stadio italiano. Questo preclude al Verona di avere un secondo settore popolare e, mediamente, tre-quattro mila persone in più allo stadio. Mica pizza e fichi.

Qualcuno dirà, dagli anni ’90 tante cose sono cambiate. Sì, ma i “talebani” della sicurezza negli stadi sostengono “sono cambiate in meglio”, grazie alle loro norme introducenti i tornelli, i biglietti nominali e le tessere del tifoso (i famosi decreti d’urgenza da me definiti “post mortem”, dacché vengono varati sempre dopo fatti tragici e quindi senza ratio e molto pathos, l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere l’humus di una buona legge). Perché dar loro torto?

Chi conosce la questione sostiene che il problema siano le “vie di fuga”. Un addetto alla sicurezza mi spiegava tempo fa: “Agli ospiti il parterre non si può dare perché non a norma, per l’assenza dei bagni e di altri parametri. Così vengono sistemati nella Nord superiore, con la conseguenza che sei costretto a chiudere l’inferiore, per evitare una commistione dei tifosi dei due settori all’entrata e all’uscita dello stadio, dal momento che i cancelli sono gli stessi “. E’ così difficile regolarizzare il parterre, almeno in quel settore?  E pensare a un progetto che ridisegni le recinzioni e le vie di fuga? Domande…

Domande forse ingenue. Domande, lo ammetto, di un profano in materia di sicurezza che tuttavia sollecita una risposta degli e dagli esperti. Domande rinsavite la scorsa estate, quando è stato fatto il restyling in alcuni parti del Bentegodi. Sistemare, o perlomeno mettere in agenda anche la “questione curva Nord” era (è) impensabile? Progettare un piano tra Hellas, Chievo e Questura in modo da far convivere la doverosa esigenza di sicurezza con la riapertura del settore era (è) impossibile? Perché altrove succede e a Verona no? Costa troppo? O non ci sono altre vie? Be’ così fosse, sarebbe un fallimento, di civiltà in primis. Perché una civiltà che per renderti sicuro esclude, è semplicemente incivile.

CAMPEDELLI ESONERI SE STESSO

L’esonero di Mimmo Di Carlo è il canto del cigno della “favola di quartiere”. Virgolette d’obbligo ovviamente, dal momento che di favola non si tratta, come  già spiegato dettagliatamente nel topic “Chievo: sottoprodotto del calcio moderno” (http://blog.telenuovo.it/francesco-barana/2012/07/25/chievo-sottoprodotto-del-calcio-moderno/).

I segnali del tramonto sono evidenti. Il Chievo degli ultimi anni ha venduto benissimo (Constant e Acerbi le plusvalenze più importanti) e comprato malissimo. Risorse economiche  limitate rispetto al passato, ergo ricavi non reinvestiti perché messi a bilancio? La chiusura di qualche “rubinetto” finanziario? Chissà, quale che sia il motivo, dichiarare ai quattro venti che “è il Chievo più forte di sempre” quando eleggi come leader della squadra ultratrentenni come Luciano, Pellissier e Di Michele – buoni giocatori ma non fuoriclasse nemmeno nell’età più verde –  e sconosciuti come Papp, lascia perplessi sull’attuale solidità del club. Senz’altro più debole  da quando, scongiurato il pericolo fusione (il sogno di Campedelli, al quale pure il nostro Martinelli stava cedendo per poi redimersi), il Verona è risalito dalla melma della Lega Pro.

E’ chiaro, con un Verona che si riaffaccia ai massimi livelli, il “marchio” Chievo perde facilmente il suo appeal. Un appeal già debole in partenza “anche a causa della poca lungimiranza di Campedelli” – mi confidò qualche mese fa a Tuttocalcio l’ex responsabile commerciale del club. Campedelli, che “finita l’epoca in cui il prodotto si vendeva da solo, proprio per questa storia del miracolo, della favola di quartiere in serie A, e tutto il mondo parlava del Chievo, non ha proposto qualcos’altro per differenziarsi, per far in modo che si continuasse a parlarne”.

Anzi, più che a “differenziarsi”, l’Harry Potter dei pandori ha pensato bene di assimilare. Cosa? Le identità delle due squadre cittadine (la storia dei simboli è nota), subendo tuttavia l’effetto boomerang:  il Chievo ora sta sulle scatole anche ai moderati. Geniale, direi.

In parallelo (ma neanche tanto) il cattivo rendimento della squadra, affidata da poche ore al debuttante Corini, allenatore dal curriculum sconosciuto eppure già in serie A (a proposito del Iachini dixit all’ultimo “Vighini show”). Il simpatico Di Carlo intanto saluta la compagnia, ma si consoli, Campedelli non ci ha dormito la notte. Raccontano di un presidente annebbiato da un tormento: forse non era il caso di esonerare se stesso? E freddato da un pentimento: “Verona non può sostenere due squadre ai massimi livelli”, disse qualche anno fa. Vero, ma la domanda è lecita: presidente è ancora convinto che quella in più sia l’Hellas?

I MANDORLINISTI? PIU’ MANDORLINIANI DI MANDORLINI

C’era una volta Carlo X di Borbone, il re di Francia che tentò di restaurare l’Ancien Régime dopo la Rivoluzione Francese. Uomo reazionario, fu capostipite de “realismo”. Chi erano i “realisti”? Coloro che difendevano il re e i suoi interessi con un intransigenza ben superiore al re stesso, da lì la locuzione “essere più realisti del re”. Un po’ come i mandorlinisti, mi vien da dire, più mandorliniani di Mandorlini. Il quale, rinvigorito dalla vittoria (la “sua” vittoria ancor più di quella del Verona) e dai soliti insulti piovutigli fuori Verona, sta riacquisendo la sua consueta arroganza e idiosincrasia per chiunque osi, anche lievemente, criticarlo (chiedere a Vitacchio o Fontana). Per fortuna, aggiungo io. Gliel’avevo pure augurato, sia pubblicamente che di persona: si sa, un Mandorlini antipatico e greve è la migliore garanzia di un Verona vincente. Il Mandorlini moderato e un po’ molle di inizio stagione, invece, non era un buon segno.

Aggiungo: il Mandorlini arrogante non fa rima col Mandorlini ottuso. Lui, in cuor suo e anche se non lo ammetterà mai (fa parte del gioco), da uomo di calcio consumato è il primo a sapere che la critica è più utile della piaggeria, o del “realismo”. La critica fa pensare, se la cogli con intelligenza. Ancora l’8 agosto mi domandavo (come si domandavano in tanti, ma sottotraccia): “E’ davvero il Verona di Mandorlini?”. Spiegavo che non lo era e concludevo: “Mandorlini come tutti gli emotivi necessita di sentirsi sulla pelle la creatura che ha in mano. Come? L’allenatore DEVE trasformare in “suo” ciò che adesso “suo” ancora non è”.

Be’, gradualmente il nuovo Verona di Setti e Sogliano, rivoluzionato nel mercato estivo, sta diventando il Verona di Mandorlini. Per questo la vittoria di Varese è in primis la vittoria del suo allenatore. Un allenatore che sta gradualmente trovando il “suo” gruppo, i “suoi” giocatori. Scelte scomode ma vincenti: fuori Bacinovic  e dentro Laner, con Jorginho (il miglior centrocampista della B, statistiche alla mano) in regia. Fuori Fatic e dentro Martinho. Fuori Crespo e dentro Cacciatore. Giocatori di quantità (ma anche qualità) a far legna per i “geni”. Sciabola e fioretto. Conseguenza? L’equilibrio che pian piano arriva. La buona stella ha pure aiutato il mister (Bacinovic in nazionale ha fatto emergere Laner, Crespo infortunato ha dato spazio a Cacciatore nel suo ruolo naturale), ma la fortuna bisogna anche saperla cogliere. Non è scontato, ci vuole coraggio, specie quando sai (tanto per fare un esempio) che Bojinov e Crespo sono uomini del presidente e Bacinovic del diesse. Coraggio (ma anche buon senso) da mantenere nonostante, appunto, le pressioni “interne”.

Lo stesso coraggio che occorre nel muovere delle critiche, a costo di far storcere la bocca ai “realisti” del mandorlinismo, appunto più mandorliniani di Mandorlini. Loro legittimamente difendono il loro Re, forse però dimentichi di una cosa: il tifoso fa il tifoso, il giornalista informa e, se necessario, critica.

IL SOGNO DI MR SETTI: LA COPPA DISCIPLINA

Dormo poco e male. Colpa dei bagordi? Ma va. Qualche donna? No, siete fuori strada. La causa è Maurizio Setti. Sì proprio lui, il presidente del Verona. “Ho un sogno” ha chiosato il 13 settembre davanti alle telecamere del “Vighini show”. Quale? “Vincere la Coppa Disciplina intitolata a Scirea, quale tifoseria più corretta d’Italia”.

Sarà stata la frase intrisa di gloriosa retorica – vabbé un tantino inflazionata dopo Martin Luther King (il quale peraltro barbaramente assassinato non può nemmeno chiedere i diritti d’autore), ma sempre efficace. Sarà, forse, l’attuale ascendenza di Carlos Castaneda e del suo libro su sciamani e spiritualità “Gli insegnamenti di Don Juan” che mi ha empaticamente aiutato a entrare nel mondo interiore di Mr Setti. Sarà che mi son chiesto: come si fa a vincere la Coppa Scirea? Quale che sia il motivo, da qualche notte a questa parte faccio sempre lo stesso sogno.

Sono allo stadio, ma non bevo la solita birretta prepartita, non incrocio le solite facce di chi è già più o meno sbronzo, al Nilla o al chioschetto del parcheggio non sento le consuete bestemmie e le urla sguaiate. Tutti bevono Ben Cola (la Coca Cola è troppo capitalista e non sia mai che incida sulla classifica fairplay) e sussurrano. Qualcuno prega, ognuno il suo dio, perché è chiaro siamo tutti tolleranti. Rimango perplesso, ma non ho tempo di pensare. Guadagno lentamente l’entrata e la perplessità muta in stupore: in curva sono tutti seduti, nessuno fuma, canne niente, battono tutti le mani come i boy scout e cantano come al grest. Sono solo famiglie o coppiette, quasi fosse una domenica pomeriggio scazzata sul lago, col plaid e il cuscinetto riposto sul seggiolino perfettamente numerato. Famiglie piccolo borghesi, quindi proletarie visti i tempi, ma non si dice che poi da fascisti e razzisti passiamo a essere etichettati bolscevichi (e anche quello non è in linea col nuovo fairplay pallonaro). Famiglie che coi loro eleganti cestini di vimini improvvisano un innocuo picnic sugli spalti, forse invidiose, o emulanti i vips che poco più in là – al nuovo ristorante sito sul parterre – consumano un romantico pasto giaccaincravattato con vista mozzafiato sul terreno del Bentegodi (che in inverno ghiaccia e sarà ancor più uno spettacolo della natura)

Comincia la partita, ma noto che la curva è mezza vuota, quelli “cattivi” li hanno lasciati fuori. Non sento cori di scherno,offensivi o sarcastici che siano, contro gli avversari, anzi vengo a sapere che siamo gemellati più o meno con tutti e che dopo la partita ci sarà un “terzo tempo” cogli amici tifosi ospiti. Un avversario rimane a terra per un semplice sgambetto, ecco mi dico: “adesso canteranno ironicamente morte”. No, non si fa più, anzi, qualche tifoso mostra viva preoccupazione, qualcuno addirittura piange. I giocatori di colore si applaudono (a prescindere), quelli bianchi si fischiano (ma lievemente, sia chiaro) se baruffano con quelli di colore, così anche Blatter, Platini e Thuram saranno contenti con la loro pelosa campagna “no racism” (mentre si gioca con palloni fabbricati da chissà chi, magari bambini schiavizzati, ma quello non è razzismo, perché non si vede e non si sente).

Ecco il triplice fischio dell’arbitro, ma prima c’è ancora tempo per qualche coro a favore dei terremotati, ma solo a telecamere e microfoni accesi, ché quando si spengono non conta, chissenefrega, continuiamo a costruire case di sabbia e acqua per risparmiare e speculare… Scendo le scale ed è cambiata pure la colonna sonora post-partita. Non più gli ACDC o i Guns n’ Roses, ma Jovanotti, perché “siamo tutti una grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa”. Insomma ci vogliamo tutti bene, mettiamo dentro tutto in un bel minestrone, buoni propositi e intenzioni.

Fine, buio, luce, cuore a tremila battiti. Il fatto è che  quando arrivo a Jovanotti mi sveglio sempre di soprassalto (c’è un limite a tutto). Il libro di Castaneda è lì sul comodino, maledetta empatia da sciamani, le parole del Setti-King ancora mi ronzano intorno, e la risposta che cerco ahimé è lucidamente nell’aria: come si fa a vincere la Coppa Scirea? Bisogna forse… no non voglio saperlo, fa male. Bisogna forse… essere il Chievo?

“Ho un sogno” dice Setti. Ok caro presidente, ma il tuo sogno è il mio incubo, dannazione. Avete capito, adesso, perché dormo poco e male?