SETTI, MANDORLINI (E SOGLIANO) E IL FUTURO DEL VERONA

Chiamatelo gioco delle parti. Setti che di tanto in tanto lancia stoccatine nemmeno troppo vellutate a Mandorlini, che pur col sorriso risponde con del pepe nell’insalata della diplomazia. In mezzo al guado Sogliano, il meno personaggio dei tre, figlio d’arte, ex calciatore, uomo di calcio a tutto tondo e mediatore tra le ragioni aziendali del presidente e quelle “di campo” dell’allenatore. Mediatore nato Sean, perché ds atipico, leale, per cui conta di più il risultato finale dell’azienda che la vanagloria personale – dunque dovesse andarsene sarà fondamentale sostituirlo bene (per intenderci non con personaggi alla Lo Monaco). Eppure nel vivace rapporto dialettico tra l’imprenditore emiliano e il tecnico romagnolo si delinea quello che sarà il futuro del Verona. Ma andiamo con ordine.

L’ultimo scambio di battute tra presidente e allenatore si è avuto nel dopo Verona-Lazio. In diretta tv e streaming per giunta, roba da far impallidire Bersani e gli sherpa di Grillo nel famoso (e bizzarro) video di inizio legislatura. Potenza della rete si dirà, o ambizioni da Pulitzer, fatto sta che Setti  si è travestito da giornalista e ha incalzato pubblicamente l’allenatore: “Non crede mister che potremmo avere qualche punto in più visto anche il tipo di campionato di quest’anno?”. Mandorlini  ha fatto buon visto a cattivo gioco, ma ha risposto per le rime: “Sì, ma potremmo averne anche di meno”. Poi sorridendo alla platea dei giornalisti presenti: “Lui (Setti, nda) non è mai contento”. Qualche giorno prima l’industriale di Carpi in un’ intervista a L’Arena aveva sottolineato pure la mancata valorizzazione di alcuni giovani patrimonio del club (Cirigliano, Bianchetti e Sala). Anche qui, seppur indirettamente, Mandorlini ha risposto ammettendo che su alcuni veterani, vedi Gomez ed Hallfredsson, “mi riparo nelle situazioni di incertezza”.  

La storia del calcio è piena di dirompenti dialettiche tra presidenti e allenatori e Setti e Mandorlini hanno i profili adatti per rinverdire la tradizione. Per niente cardinalizi, esuberanti e con un ego dominante, i due sono condannati alla solitudine dei numeri primi. Entrambi li definirei “anarchici adattati”. “Anarchici” di indole (Setti: “Non mi piace la Lega Calcio, lì si chiacchiera e non si fa”; Mandorlini: “Ho preso tante multe perché mi chiamo Mandorlini e alleno il Verona”), “adattati” per forza di cose – e malgrado loro – al sistema.  Eppure i  due non potrebbero essere più diversi nel modo di pensare.

La loro mentalità, infatti, viaggia in parallelo. Setti ha un’intelligenza imprenditoriale, vede il calcio come un mercato e il club che presiede come un’azienda con una precisa mission, che ai risultati agonistici deve coniugare la valorizzazione del proprio patrimonio. Ci piaccia o non ci piaccia (ai romantici come me non piace) ha ragione, perché questo è il solo modo di far calcio oggi in una società media come il Verona. Così i giovani calciatori di talento per lui sono “materie grezze” su cui creare il “prodotto” e da cui trarre profitto da reinvestire. L’allenatore nella sua testa dovrebbe essere l’operaio specializzato che con le sue qualità esegue la trasformazione nel “ciclo produttivo” (il campionato). Dico dovrebbe, perché poi tra il dire e il fare esiste ancora (e per fortuna) il calcio inteso come sport e quindi smentitore di qualsiasi ratio presente nelle aziende normali, permeato com’è di suoi sottili equilibri e illogicità (dalla gestione del gruppo, ai risultati del campo). Setti è persona acuta e ne è consapevole, per questo ha assunto e dato pieni poteri sportivi a Sogliano, come scritto sopra non solo un direttore sportivo ma il mediatore tra la visione a “lungo respiro” del presidente e i risultati sportivi immediati.

Che poi son quelli che guarda qualsiasi allenatore di “pura razza”. E Mandorlini è di questa scuola, un tecnico vecchio stampo, concentrato esclusivamente sul campo e lo spogliatoio e poco su ciò che succede sopra la sua testa. Non è insomma per natura il tipico allenatore aziendalista, l’operaio specializzato che Setti vorrebbe, ma (come scrissi nell’estate del 2012) più un artigiano fai da te, che ama costruire e si esprime al meglio senza troppi lacci e lacciuoli governativi.

Sono due visioni diverse del calcio e che probabilmente rimarranno diverse in eterno. Sogliano sinora le ha mediate abilmente e i risultati hanno cementificato il compromesso. Il resto lo ha fatto un gruppo ancora mandorliniano nell’ossatura, ma che per motivi di mercato (Jorginho e forse Hallfredsson) o anagrafici non sarà eterno. In quest’ottica va intesa la risposta di Setti a Vighini sul futuro del mister: “Io spero che Mandorlini rimanga qui per sempre, ma il progetto della società è puntare sui giovani”. La sensazione perciò è che, qualunque cosa succeda, la partita del rinnovo del contratto dell’allenatore si giocherà più sui progetti futuri che sui risultati attuali.

A luglio comunque comincerà un nuovo ciclo, le cui basi verranno gettate già nell’imminente mercato di gennaio. Mandorlini in questo anno e mezzo del nuovo corso societario è stato bravo ad adattarsi senza snaturarsi, Setti ad applicare un pragmatico “riformismo” al suo ideale di fondo. In attesa di capire chi sarà il ds (in questo gioco delle parti figura determinante) e se è vero che l’acqua passata non macina più, i due non dimentichino come sono nate le recenti fortune del Verona.

P.S. potete seguirmi e dialogare col sottoscritto anche su Facebook.

https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512?fref=ts

NON ROMPIAMO IL GIOCATTOLO

“La Lazio ha dominato”. Nel fantastico mondo di Petkovic si raccontano le favole più belle. Non svegliatelo e non riferite alla Federcalcio, che questi poi sono capaci di mettere l’antidoping anche per gli allenatori. Non bastasse la bizzarria delle guerre simulate imposte ai giocatori laziali alla vigilia, il tecnico serbo ci ha deliziato con le sue dichiarazioni nel post partita. Quelli come Petkovic andrebbero salvaguardati come i panda, ci fanno ridere gratis. Dopo i politici comici e i comici in politica, è l’ora degli allenatori comici?

Ride anche Mandorlini e ne ha ben donde. Il suo Verona vola, il sesto posto è blindato e il Bentegodi è campo (quasi) inespugnabile. Godiamoci il momento e ci mancherebbe, però con questa classifica è anche legittimo pensare che il sesto posto sia un obiettivo fondato. Scrissi in tempi non sospetti che si poteva sognare e volare alto. Toni, Iturbe, Romulo e Jorginho sono campioni che molte ci invidiano e la squadra gira intorno a loro. E qui s’impone una riflessione al netto del 4-1 spettacolare e dell’euforia natalizia, perché il mondo va veloce, il mercato di gennaio già incombe e qualche equivoco in casa Hellas va risolto.  

Confidando (e con mille scongiuri) che l’immenso Toni tenga botta sino a giugno (dipendiamo da lui), sono sempre più insistenti le voci che danno lo Zenit San Pietroburgo su Jorginho già a gennaio. Se i rubli offerti equivalessero almeno a dieci milioni di euro capirei che per la società sarebbe difficile rifiutare, specie a salvezza praticamente acquisita. A certe cifre, infatti, forse è giusto che prevalgano ragionamenti più a lungo termine, tuttavia è evidente che per provare a mantenere la sesta posizione (con probabile qualificazione all’Europa League) Jorginho deve restare. E non solo, va puntellata la difesa, l’anello debole di questo Verona (ancor prima i terzini dei centrali). Voglio dire, il giocattolo non solo non va rotto, ma rafforzato.

E qui inciderà non poco il fattore Sogliano, il vero artefice del miracolo Verona, ma anche il grande equivoco del momento. Il ds viene già dato al Milan da febbraio, ma per Setti alla fine rimarrà. La situazione non è chiara, ma alcune domande sarebbe giusto porle a Sean: nel calciomercato di gennaio sarà concentrato esclusivamente sul Verona, o le sirene milaniste già canteranno? Attenzione, Sogliano è una persona seria e perbene, ma la domanda è lecita nel momento che c’è un mercato alle porte e chi lo fa per noi è dato altrove da tutti.

Alla figura del ds poi è indirettamente legato il destino di alcuni giocatori e dell’allenatore medesimo. Cairo ieri ha detto che offrirà un triennale a Ventura, per la proprietà transitiva lo meriterebbe anche (e di più) Mandorlini. In realtà io sposo la linea Setti e cioè che “si trattano i rinnovi a salvezza matematica raggiunta” e pure quella Sogliano per cui “agli allenatori ho sempre fatto firmare annuali”. Eppure Sogliano da un anno e mezzo è sempre stato il mediatore tra i due “fuochi” opposti, Setti e Mandorlini appunto. Tradotto: la conferma del direttore sportivo favorirebbe anche quella del mister, un uomo che per nostra (e mia) fortuna ha trovato a Verona la sua piazza ideale.  

Infine un dato tecnico sempre in ottica “obiettivo sesto posto”. Il Verona in casa è irresistibile: a volte vince e convince, altre si complica la vita ma è e si sente talmente forte che vince ugualmente. Lontano dal Bentegodi il destino è diverso e avverso, solo cinque i punti raccolti. Da qui in avanti ospiteremo Napoli, Roma, Juventus, Inter e Fiorentina e dunque è bene cambiare atteggiamento anche fuori casa e raccogliere qualche punto in più.

Detto questo è un Natale bellissimo e insperato, che ci porta in regalo un sogno europeo. Godiamocelo e godetevelo. Auguri di cuore ai lettori del blog.

 

 

CALCIOSCOMMESSE: CORNUTI MA NON MAZZIATI

Leggo del nuovo filone dell’inchiesta sul calcio-scommesse. È il terzo in pochi anni. Lungi da me dare giudizi su persone e società coinvolte (c’è la presunzione d’innocenza e su fatti di cronaca giudiziaria è deontologicamente corretto conoscere le carte). È altrettanto evidente, però, che ripercorrendo la storia del calcio degli ultimi 35 anni (dal maxiscandalo del 1980 a calciopoli, fino alle confessioni delle recenti scommessopoli) la sua credibilità è minata alle fondamenta.

Eppure il pallone rimane sempre, e nonostante tutto, la religione laica di questo Paese in declino. Italia cupa, povera e incazzata, eppure eternamente tifosa, che punta i “forconi” contro tutti (e quindi nessuno), ma idolatra a prescindere i ricchi Dei della pedata.

Il calcio, infatti, qualunque cosa succeda, mantiene intatto il suo appeal sugli italiani, incuranti della bulimia televisiva che lo ha contaminato dal 1993 in poi; ciechi dinanzi alle logiche commerciali e liberiste che tra mercato sempre aperto, rose infinite e stranieri a gogò ne hanno indebolito il suo significato identitario e identificativo; sordi a tutto ciò che lo ha reso sempre meno sport e trasformato in entertainment, con maglie inventate e dai colori sociali dimenticati e numeri di maglia da giocarci a tombola, calciatori con pettinature improbabili  e “scarpini” (sic) fluorescenti.

Il calcio perciò non morirà mai, malgrado l’esercito di prefiche che a ogni scandalo ne annunciano retoricamente la dipartita imminente. Non morirà perché non può. Non morirà perché, crollate le ideologie e scomparso il senso religioso, non ci è rimasto altro in cui credere in questa epoca globalizzata, materialista e relativista.

Proprio così, qui non c’entra la cosiddetta ignoranza popolare, è questione di sentimento. Noi tifosi non siamo scemi, abbiamo capito da un pezzo come funziona il sistema, ma non ce ne curiamo, oppure bellamente ce ne freghiamo. Giriamo la testa dall’altra parte e un po’ come le tre scimmiette non vediamo, non sentiamo, non parliamo. E se proprio vediamo qualche pensiero autoassolutorio ci verrà subito soccorso. L’alibi ce l’abbiamo e si chiama sopravvivenza. In questo mondo senza futuro dove ieri è il nostro unico domani, il calcio per noi è più che mai una necessità organica. Il pallone rotolante ci fa sognare, credere, partecipare, parteggiare. Non possiamo rinunciare al nemico comune della domenica (o del sabato, lunedì, venerdì o di qualsiasi accidenti di giorno si giochi!). Ci aggrappiamo irrimediabilmente e a piene mani al senso di comunità del tifare. Come eterni adulti-bambini conserviamo questo unico anfratto di purezza che non si è disperso. Cornuti, ma non mazziati. Traditi, ma non abbandonati. 

Dunque truccate pure, ma mi raccomando truccate bene, che meno ne sappiamo e meglio è. Così che mentre voi vi arricchite (ancor di più) noi ci salviamo l’anima. Talmente finto da sembrare vero.       

 

 

MANDORLINI UN PO’ MAC GYVER E UN PO’ COLIANDRO

“Il calcio è un mistero senza fine bello” diceva Gianni Brera. Il Verona, più probabilmente, è un mistero senza fine matto. Che ama complicarsi la vita, salvo poi rimetterla in discesa. Che narcisisticamente si specchia e intanto subisce il colpo. Che solo con l’acqua alla gola riafferma la sua volontà e la sua forza. Era così l’anno scorso, è così ora.

L’Hellas, ci piaccia o meno, è nel bene e nel male la sintesi caratteriale del suo allenatore. Mandorlini è uomo viscerale e quindi (anche) volubile. Personalità bipolare: sicuro quasi a rasentare la superbia quando gli gira bene, questo lo porta a rilassarsi e certo i complimenti dell’esercito dei ruffiani non gli fanno bene; un tantino incerto e nervoso quando le cose non funzionano. Eppure il mister, in fondo, a differenza di Alfano il quid ce l’ha. Mi ricorda Mac Gyver, che ogni volta si salvava da eroe proprio mentre sembrava sprofondare. E’ così da un anno e mezzo (dall’arrivo di Setti) e come nel vecchio telefilm ogni puntata è così uguale, ma anche così diversa. Sai già che l’agente segreto alla fine se la caverà, ma non puoi prevedere come. Oggi Mandorlini è stato tirato fuori dalle secche da Gomez e Jorginho, due “suoi” fedelissimi finiti sul banco degli imputati della critica, domani chissà chi altro sarà. Il mister è il nostro Mac Gyver per il combattivo temperamento, ma mi piace immaginarlo anche un po’ Coliandro, lo stravagante ispettore uscito dalla penna di Carlo Lucarelli: confusionario e pasticcione, eppure tenace e intuitivo; anti-buonista e intollerante, ma in fondo buono; cinico, solitario e un po’ malmostoso col mondo, generoso cogli amici;  sopportato dai capi, coi quali ha rapporti di alti e bassi, ma amato da lettori e telespettatori. Coliandro in conclusione risolve sempre i casi un po’ per culo e un po’ per bravura, ma sai che non diventerà mai commissario (Mandorlini non allenerà mai una grande).

Il tecnico di Ravenna dividerà sempre critica e (anche se non sembra) tifosi, perché il suo Verona, non bello da vedere e tatticamente non impeccabile, non sarà mai banale. Da blogger dico per fortuna, sebbene le mie coronarie da tifoso non ci guadagnino.  Questione di quid, appunto, il resto (molto) lo fa la qualità dei giocatori in rapporto alla mediocrità di questa serie A. Vujadin Boskov, al riguardo, aveva il dono della sintesi: “Squadra che gioca male e vince è squadra forte”. Non aveva torto e ciò mi conforta.

 

CARO SOGLIANO, I BRODI LONGHI…

Sarebbe potuto diventare un tormentone: “Toccatemi tutto, ma non il mio Sean”. Un po’ come quel vecchio spot degli orologi. Potrebbe invece essere presto un addio, perché Sogliano presumibilmente sarà il nuovo ds del Milan di Barbara Berlusconi.  Non si tratta, badate bene, di isterica gelosia, quella magari pervaderà le tifose veronesi, attratte da Sean un po’ per il nome avventuriero e soprattutto per lo sguardo a metà tra la soap opera e gli spaghetti western. Ma di un divorzio, quello col ds auzzaider, che sarebbe una dura botta per il Verona.

C’è una buone dose di sfiga in tutta questa storia. Il Milan non cambia direttore sportivo da 27 anni e decide di farlo proprio adesso che l’Hellas ne ha uno che inseguiva dai tempi di Mascetti (fine anni ’80). Colpa del ballo vorticoso delle scrivanie nel club di Berlusconi, che allontanati nani e (soprattutto) ballerine a corte, tradito dalle colombe e sostenuto da (mediocri) falchi, si ritrova pure i parenti serpenti in casa (leggi guerra per l’eredità tra i figli di primo e secondo letto), non bastasse Dudù. Galliani, dimissionario la settimana scorsa, è stato “congelato”, probabilmente saluterà a fine stagione, nel migliore dei casi si ritroverà nell’organigramma rossonero esautorato. Ora comanda Barbara, non si sa se per meriti o perché in “quota” Veronica, ma tant’è. B.B. ha imposto il rinnovamento e ha deciso di silurare lo storico ds Braida e puntare (concorde anche Galliani, che non si sa mai) su Sogliano, annoverato il migliore uomo mercato tra gli emergenti. Fatto non trascurabile, il nome Sogliano nell’ambiente milanista fa sempre un certo effetto. Il padre Ricky è stato difensore del Diavolo ai tempi di Rocco e Rivera nella prima metà degli anni ‘70 ed è amico intimo proprio di Braida (compagno di squadra nel Varese), il quale liquidato lautamente può aver speso di certo una buona parola per il figlio dell’amico (della serie se qualcuno mi deve succedere, almeno che sia amico di famiglia).

E il diretto interessato che dice? Nulla, tace.  E allora appelliamoci alla (flebile) speranza  e a pochi dati oggettivi. Sean è sotto contratto (scadenza 2015) e Setti, interpellato al riguardo, ha sciorinato uno dei suoi cavalli di battaglia “ranzaniani” (nel senso di Marco Ranzani da Cantù) preferiti: “Sogliano resta di sicuro, gli ho salvato la carriera”, manco fosse Pippo Baudo con Lorella Cuccarini. Il presidente ha aggiunto: “Non lo vedo adatto a un grande club italiano, dove serve anche molta diplomazia, eventualmente tra qualche anno potrà andare in una big estera”. Certo, l’ex “magliaio” di Carpi poi ha aggiunto: “Anche fosse, me lo comunicherebbe per tempo e il progetto Verona andrebbe comunque avanti”. Frase nemmeno troppo criptica questa, velata di addio.

Noi come i bravi di Don Rodrigo avremmo voglia di urlare che “questo matrimonio non s’ha da fare” e confidiamo sino all’ultimo sui buoni argomenti di Setti (rinnovo pluriennale, aumento dell’ingaggio e ambizioni europee). Non bastassero, vorremmo perlomeno che tutto fosse trasparente e chiaro il prima possibile. “Bisogna sempre giocare lealmente quando si hanno in mano le carte vincenti” scrisse Oscar Wilde. Tradotto: Sogliano si sbrighi e confermi o smentisca in fretta, possibilmente entro Natale. Come si dice a Verona, i brodi longhi…

MANDORLINI? DUE PESI E DUE MISURE

“Perché Cirigliano se è così bravo non gioca mai? Hallfredsson è un palo della luce” esclama Mirko, dieci anni e una passione per il pallone. Lui batte i campetti di periferia dove il calcio è pane e salame. Beata innocenza, che poi spesso è cruda verità. Viene in mente quella bellissima canzone di Gaber: “Non insegnate ai bambini”. Poi crescono indottrinati dalle astruse complessità di noi adulti, capaci come siamo di collezionare supercazzole alla Conte Mascetti pur di giustificare l’incomprensibile. Vedi le scelte di Mandorlini ieri sera (Hallfredsson, Cacciatore, Jankovic). Testone e poco ardito il mister, che forse non si è ancora reso conto dell’ineluttabile destino della sua squadra, costretta ad attaccare per non doversi difendere.

Lo scrivo da settembre, l’unica difesa è l’attacco per questo Verona, che per la (scarsa) qualità dei suoi difensori e l’attitudine offensiva dei suoi centrocampisti non può giocare in trincea. Meglio quando dispiega le ali ed esprime il talento dei suoi uomini migliori. Si è visto anche ieri. Se Mandorlini vuole migliorarsi deve abbandonare testardaggine, orgoglio e supponenza (leggi allergia alle più ovvie critiche). E darci un taglio all’ormai grottesca politica dei “due pesi e due misure” coi calciatori. Come mai ad Hallfredsson fiducia cieca, mentre a Martinho basta steccare mezza partita? Perché Cirigliano non gioca mai nonostante gli ottimi spezzoni con Torino e Fiorentina? Con l’argentino ci guadagna pure Jorginho, che si esprime meglio da regista avanzato (non trequartista) che da metodista. Sala è così scarso da giustificare l’imprescindibilità di Cacciatore? Voglio dire, far giocare semplicemente i più bravi, no?

Aggiungo senza ghirigori semantici e sintassi paracule: il Mandorlini delle ultime settimane non mi è piaciuto neppure nell’atteggiamento. “Anche se perdiamo rimaniamo sesti”, aveva detto alla vigilia del derby. Parole simili prima della Fiorentina. Dichiarazioni furbine? Si sa, ognuno difende il suo lavoro e abbassare l’asticella delle aspettative significa alzare quella dei (propri?) meriti. O appagamento? Se fosse, guardarsi l’ombelico e ripensare a quanto siamo stati belli non serve a nulla. Anche perché i punti potrebbero essere di più e se siamo (ancora) sesti dopo 14 giornate e tre sconfitte di fila forse allora non è così impossibile restarci. Meno supponenza e più cattiveria, caro mister, così torniamo a divertirci.

 

VERONA INDISPONENTE. E’ ORA DI CAMBIARE

Vigilia pallosa avevo scritto. Be’ la partita del Verona, forse, è stata pure peggio. Indisponente, moscia, distratta. Il Chievo, al contrario, consapevole dei propri limiti ha giocato con intelligenza e vinto con merito. Corini è partito per limitare i danni, schierando un undici zeppo di mediani (averlo noi Rigoni!), qualche palleggiatore sulla trequarti e zero punte (Thereau non lo è). Una manifesta dichiarazione di inferiorità. Tuttavia col passare dei minuti – constatato il grigiore di Jorginho & C.  – i suoi hanno preso coraggio fino a confezionare nel finale la più crudele delle beffe.

Parafrasando Raf, cosa resterà di questo derby? Come degli anni ’80 poco (a parte la mia bellissima infanzia e i fasti calcistici). Della beffa cruenta, ho detto; “…senza vaselina” ha scritto un amico tifoso (e al buon intenditore non servono spiegazioni circa i puntini di sospensione). Resta l’orgoglio di un predominio cittadino indiscutibile (“La Scala bisogna averla nel cuore non sopra una maglia dello stesso colore” lo striscione della Curva Sud). Hai voglia di dire che “il vero derby è col Vicenza”, sarà, ma io la rabbia, o la tristezza, o ancora l’afflizione colta ieri sera fuori dallo stadio mentre scorrevano i titoli di coda non l’ho notata lo scorso campionato dopo la sconfitta coi biancorossi. Eppure lo snobismo della vigilia si è riverberato in campo. La stucchevole melassa di due settimane da “Va dove ti porta il cuore” ha avuto il suo corredo finale durante i 90 minuti. L’attesa è stata soporifera, la partita ancor di più (e ne ha guadagnato la squadra più debole).

Il Verona dimesso ha la faccia di Mandorlini, che venerdì aveva detto “comunque vada resteremo sesti”  manco fosse il Chiambretti di un Sanremo che fu; e ieri dopo mezz’ora era già col capo chino e le mani sulla faccia. L’ascia di guerra prima abbassata e poi sotterrata. Il Verona compassato ha le sembianze di Romulo, funambolo sprecato da terzino, e le stimmate di Donati, mediano tamponatore ottimo, regista costruttore scarso, più utile quindi nelle partite di copertura che di dominio. Un doppio pacco dono con tanto di “saluti e baci”, questo, sconfessato dallo stesso Mandorlini al 13’ del st con l’innesto di Cacciatore, peraltro come a Genova buggerato nel gol. Il Verona impalpabile ha i segni di Gomez, che vale la metà di Martinho. Il Verona indolente, mi spiace scriverlo perché lo stimo, ha i cromosomi di Jorginho, da un po’ di tempo involuto forse perché distratto da qualche offerta di mercato. Se così fosse ritorni sulla terra, o sulla terra lo riporti la società.

Sia chiaro, è giusto non fare drammi, ma nemmeno prendersi in giro. La cose stanno così: la classifica è ottima, la rosa è buona, ma il calendario – da qua al giro di boa – no e la squadra mostra qualche ruggine. Forse sarebbe ora di darle una riverniciata cominciando a considerare anche Sala e Cirigliano, due nomi non a caso. L’ex esterno dell’Amburgo è l’unico centrocampista in rosa che può far arretrare sulla linea difensiva Romulo e quindi risolvere il problema (reale) del terzino destro. Mentre il “piccolo Mascherano” può essere una valida risorsa sia con Jorginho (sacrificando Hallfredsson) che senza (il brasiliano se gioca così non è intoccabile). La rosa è ampia e pensare di cambiare non è una bestemmia. Anzi, se non ora quando?

 

 

 

 

 

 

 

LA VIGILIA PIU’ PALLOSA DELLA STORIA

Maurizio Setti, al solito ruspante, la stoccata l’aveva infilata al Vighini Show: “Il Chievo? E’ la monarchia di Sartori”. Dalle parti della Diga però non hanno raccolto. Silenzio. E il Verona non ha rilanciato. Da lì il nulla da ambo le parti: nessun battibecco, zero sfottò, assenza della benché minima polemica (sportiva). Risultato? La vigilia più pallosa della storia, quasi come i predicozzi domenicali di Scalfari e gli editoriali di Polito. Pure la Tamaro è impallidita a fronte delle profusioni di melassa tra Toni e Corini, amici dai tempi di Palermo, o Toni e Dainelli, uno dei nostri “eroi” di Piacenza. Il triangolo no, cantava saggiamente Renato Zero. Ora, non vorrei che si scatenassero guerre di gelosia tra Corini e Dainelli appunto. Il bel tenebroso Thereau, invece, si è limitato a qualche sbadiglio, con quella faccia da fascinoso ed eterno scazzato: non si sa se a causa di Sannino (“non ci trovavo senso nelle cose che proponeva”), o della tiepida Verona (“mi aspettavo più attesa per questo derby”). Speriamo non si risvegli proprio domani. Hanno chiuso il cerchio i sorrisi educati di Corini, meno istrione di Sannino, più in linea col low profile clivense e soprattutto seriamente candidato a contendere a Morandi la palma di “eterno ragazzo”. Oggi parla Mandorlini, ma da quando il politically correct gli ha messo la museruola c’è poco da aspettarsi anche da un sanguigno come il ravennate, che tuttavia ha trovato il suo rimedio alla “censura”: parlare cogli sguardi, spesso sarcastici e taglienti. In mezzo a tutto questo piattume non ci resta che chiuderla qua al più presto e giocare, che poi è il vero senso del calcio. Tutto il resto è noia.     

 

 

QUESTO E’ IL PRIMO VERO DERBY

Non è il derby di dodici anni fa, il primo in serie A. E nemmeno quello del 1994, il primo (in B) in assoluto. Il clima dell’epoca, ecumenico e un po’ asettico da “festa della città”, ha ora lasciato spazio alla rivalità sportiva. Nel 1994, ma anche nel 2001, la Verona non strettamente tifosa si dichiarava neutrale. Adesso l’impressione è che una parte dei cosiddetti “moderati” sia tendenzialmente pro Hellas, quasi che il “fenomeno simpatia” del Chievo si sia via via attenuato col tempo. D’altro canto, il Chievo ha meno sostenitori rispetto ai migliaia che assiepavano il Bentegodi nel 2001-02, ma più tifosi veri, che saranno pochi (in rapporto al Verona), ma senz’altro più appassionati e organizzati in confronto ad allora.

Credo ci sia un paradosso di fondo che spiega la cosa. Il Verona, pur cambiando (dirigenze e categorie), è rimasto se stesso. Il Chievo, pur restando uguale, probabilmente è cambiato. Da un lato è cresciuto divenendo una solida realtà ai massimi livelli professionistici (e questo è un merito non da poco e ha creato lo zoccolo duro), dall’altro la dirigenza forse non ha saputo (o forse non ha voluto, non lo so) sfruttare la popolarità mondiale del periodo della “favola di quartiere” e costruirsi un’immagine e un’identità di club transnazionale e cosmopolita. Avrebbe potuto (o perlomeno potuto tentare di) diventare la squadra “di tutti gli italiani” e, perché no, “di tutti gli europei”. Al contrario, a detta di molti, ha provato a “competere” col Verona nei cuori dei veronesi. L’ambizione però si è rivelata un boomerang, perché ha unito ancor di più i tifosi dell’Hellas e disperso l’ effetto “favola” sul fronte di mezzo. Il resto l’ha fatto il cambio di filosofia societaria attuato da via Galvani dopo la retrocessione del 2007: più pragmatica e meno sbarazzina, meno calcio “champagne” e risultati esaltanti (dei Delneri e Pillon) più raziocinio e “anonimato” da metà classifica (nelle ultime stagioni con Di Carlo, Pioli, ancora Di Carlo e Corini).

Il Verona degli ultimi anni, al contrario, ha vissuto un paradosso: più scendeva di categoria più si nutriva di epicità; più lottava tra la vita e la morte e più rinfoltiva il suo zoccolo duro (i diecimila abbonati della serie C non li aveva mai avuti nemmeno in B). La disperazione come collante, la tragedia come madre di un rinnovato sentimento identitario.

Sarà dunque una stracittadina inedita per Verona, forse la prima con le vere “stimmate” del derby. La speranza perciò è che ne seguano molti altre, chissà, per arrivare un giorno a raggiungere il rango di Milano, Roma, Genova e Torino. C’è la giusta e sana rivalità sportiva tra due fazioni e l’assenza (o la minore presenza) di “terzisti” e “cerchiobottisti” vari. Questo – me lo perdoneranno i puristi del bon ton istituzionale – non è detto per forza che sia un male.      

VUOTO DI POTERE A PALAZZO. E IL VERONA DI SETTI…

Il Milan disinveste e pensa soprattutto “al pareggio di bilancio” (Galliani dixit). Intanto alla corte di Berlusconi, in tutt’altre faccende affaccendato, scoppia la guerra tra la figlia Barbara e lo stesso Galliani.  “Battaglie da retroguardia” le ha definite Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, chiedendosi addirittura se il Milan esista ancora. Esiste in Lega, dove l’amministratore delegato rossonero sa ancora far valere tutto il peso di Berlusconi e di Fininvest nella battaglia per i diritti televisivi. Sull’altra sponda dei Navigli, Moratti cede l’Inter e il nuovo proprietario indonesiano Thohir dichiara di puntare sul low cost dei giovani promettenti. La Juve invece è sempre la Juve, potente e ricca, ma Agnelli Junior non è zio Gianni e nemmeno papà Umberto, Marotta non è Moggi e la Famiglia (leggi John Elkann) sembra più interessata a scalare il Corriere della Sera che la serie A. Avanza il centro-sud: la Roma coi dollari americani, il Napoli con un De Laurentis che ha eletto il pallone ad attività primaria e la stessa Fiorentina di Della Valle, sempre più intimo nei salotti del capitalismo italiano (leggi ancora la battaglia per le quote di via Solferino).

Tuttavia la sensazione è che l’attuale stagione calcistica segni la transizione tra vecchio e nuovo potere calcistico, quindi una momentanea assenza di padroni, con conseguenti possibili benefici anche sulla classe arbitrale. Lo si evince anche dalla battaglia in Lega per la “torta” dei diritti tv, con la storica “Santa Alleanza” tra Milan e Juventus che è un retaggio del passato e con le big divise: da una parte Milan, Napoli e Lazio, dall’altra Juventus, Inter, Roma e Fiorentina (e anche Verona).   

(http://espresso.repubblica.it/inchieste/2013/10/31/news/diritti-tv-cosi-adriano-galliani-e-il-milan-provano-a-comprarsi-la-serie-a-1.139629

Chissà che questo (momentaneo) vuoto di potere non disegni un campionato nel quale valgano esclusivamente i meriti sul campo e non le annose, quanto malcelate, logiche politiche. Chissà, soprattutto, che di questa lieve anarchia non ne possa approfittare anche l’ambizioso Verona di Setti. L’alta quota è più salubre: che ci facciano restare?