“Scolta Marty, i dise che so matto mi. Mi me par che sia tutto il resto del mondo che no capisse…”. Quanto mi facevi sorridere quando, con l’inconfondibile e immancabile inflessione triestina, ti chiedevi se tutto quello che facevi e in cui credevi aveva un senso.
Sì, è vero. Tu eri quello che guidava contromano lungo l’autostrada della vita ma pensava che ad andare nella direzione sbagliata fossero tutti gli altri.
Avevi ragione tu.
Era la tua la direzione giusta.
Tu vedevi sfumature che nessun altro vedeva. Coglievi sentimenti che nemmeno chi provava sapeva di avere nel cuore. Raccontavi le storie, quelle importanti. Perfino dei calciatori, di cui si dice di tutto e di più tutti i giorni e spesso non son nemmeno cose positive, riuscivi a trovare un lato umanissimo che sarebbe piaciuto anche a chi di calcio non si interessava. Ricordo l’intervista a Vlaovic dopo l’intervento alla testa: le tue domande in grassetto, le sue risposte esattamente come te le aveva date, con i congiuntivi sbagliati e le parole messe insieme alla rinfusa, che rendevano perfettamente l’idea di un ragazzo che aveva passato un bruttissimo momento ma che stava ricominciando a sorridere alla vita. Rileggo spesso quella a Bedin, dopo che esibì la maglia “I believe in Jesus” e la sua profonda religiosità. Ripenso all’intervista al fuorigioco. “Scusi, signor fuorigioco…”. Esilarante, arguta, solo uno come te poteva pensare di intervistare una cosa che tutti sanno cos’è (ad esclusione delle donne) ma nessuno capisce a cosa serve.
Cavalcavi il battito del cuore di tutti. E poi scrivevi che era un piacere immenso leggerti. Perché tu prima che saper scrivere sapevi leggere. Fondamentale. Non si può scrivere se non si sa leggere. Se non si sa vedere la vita. Se non si ha la sensibilità giusta per andare dentro le cose. Dentro le persone.
“Marty non possiamo volere così male ai nostri lettori” mi dicesti una volta al telefono dopo aver letto un pezzo che ti avevo inviato. Avevi ragione. Nemmeno mia mamma che mi vuole tanto bene sarebbe andata oltre la terza riga di quell’articolo tanto era noioso e scritto male. Eri severo ma non perdevi mai la calma e se ho imparato qualcosa di questo mestiere lo devo anche a te.
Quante trasferte insieme, Furio! Dopo aver scritto nelle condizioni più improbabili due pagine di giornale, condividevamo la fatica della giornata trovando puntualmente il ristorante giusto. Perché, mi dicevi sempre, “La partita si può sbagliare, il ristorante no!”. E allora via con il tagliere di affettati misti di Prato, con la bistecca alla fiorentina di Lucca, la pasta allo scoglio di Pisa, l’antipasto tipico dell’osteria di Pistoia. E via con quel simpatico cameriere di Cesena che, quando alzasti il piatto per cercare di aiutarlo a sparecchiare, ti rispose simpaticamente indispettito: “Io sono pagato 12 milioni al mese (c’erano ancora le lire, ndr), lasci giù quella forchetta che mi arrangio io”. I personaggi più strani e più autentici, in giro per gli stadi d’Italia, li abbiamo beccati noi: forse perché eravamo “strani” a nostra volta nel nostro modo di prendere la vita per le corna, e li attiravamo come le calamite.
Ti ricordi quella volta che, a Pavia, invece che appoggiarci alla redazione del giornale locale, ci siamo fatti convincere da un giornalista free lance ad andare a scrivere nel garage di casa sua, adibito a mini ufficio? Lui continuava a dire: “E’ qui vicino, sono due passi a piedi” ma non arrivavamo mai. Ad un certo punto, dopo chilometri e chilometri con borse, computer e tutto il resto tra vicoli, discese e salite, non ce l’hai fatta più, l’hai fermato e con quel poco fiato che ti era rimasto non gliele hai mandate a dire, ovviamente alla tua maniera, senza essere minimamente sgarbato: “Scusa, non è per dire. Ma è un’ora che camminiamo e io inizio a sentire i limiti della preparazione estiva che evidentemente non ho svolto come dovevo”. Lui è scoppiato a ridere e come per magia siamo arrivati (te lo dico adesso: secondo me si è intrufolato nel primo garage che ha trovato aperto, mica era casa sua quella!).
Ci siamo fatti su e giù l’Appennino negli anni in cui il Padova era in serie C ed era nel girone con le toscane. E ogni volta che, lungo l’autostrada, vedevi un falco appollaiato sul guard rail mi dicevi sempre: “Io sono come un falco. Mi piace starmene a contemplare la natura tutto solo, anche per ore. Secondo me nell’aldilà la vita è così. Ti fai i cazzi tuoi e stai da Dio, poi ogni tanto incontri qualcuno, che ovviamente non è un rompiballe, e lo saluti. Ci scambi due parole. E poi torni nel tuo stato contemplativo”.
Mi hai insegnato a ridere dei miei gravi problemi. A vedere tutto con ironia. Sei stato un compagno di viaggio fantastico. Quando Gigi Carrai ha deciso che dovevo iniziare a seguire il Padova mi ha messo te di fianco. Sapeva che mi avresti coltivato a dovere. Che avresti tirato fuori il meglio di me. Mi dicevi sempre: “Marty le notizie ci sono. Devi fare ogni giorno almeno 10 telefonate. Chiama tutti. Il magazziniere. La moglie del presidente. L’ultimo dei panchinari. Di sicuro, una notizia viene fuori”. Mi consigliavi: “Leggiti ogni giorno i pezzi di sport dei quotidiani nazionali, si impara sempre molto da chi è più bravo di noi”. Io, invece, prima di sfogliare la Gazzetta, leggevo te. Perché eri il più bravo di tutti. E quando hai capito che questo mestiere stava prendendo una brutta piega, hai deciso che avresti scritto un pezzo ogni tanto, solo quando la notizia valeva la tua penna il tuo ingegno e il tuo modo di raccontarla.
Dovevo venirti a trovare mercoledì a casa. Purtroppo ci vedremo proprio mercoledì. Purtroppo nell’unico posto e nell’unico modo in cui non avrei voluto vederti. Grazie Furio. Rivedrai tante delle persone di cui hai scritto lassù. Tra tutte salutami Lello Scagnellato l’unico che, esattamente come te, non sono riuscita a salutare come volevo.
Ciao Furio, fai buon viaggio.
P.S.: scusa se questo ricordo non riesce ad essere bello come quello che avresti scritto tu per me. Porta pazienza. Spero che mia mamma e tutti gli altri riescano ad andare oltre la terza riga: significherebbe che ho reso almeno in parte l’idea di chi sei stato e continuerai ad essere dentro di me.