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QUANDO LE INTERVISTE AVEVANO (ANCORA) UN SENSO

«Oggi se un calciatore deve dire qualcosa, indice una conferenza stampa. All’epoca andava in trattoria coi giornalisti. Un giorno papà fece una lunghissima intervista a Rivera in tram, da casa sua a San Siro: s’immagina una cosa del genere oggi con Totti? Credo che fosse questa la cosa del suo lavoro che gli piaceva di più». Parole di Anna Viola, terzogenita del compianto Beppe, “giornalista sportivo perché tengo famiglia”, come  diceva di sé con una buone dose di autoironia mischiata a un pizzisco di snobismo.

Aggiungo io: raramente un calciatore ha da dire qualcosa. “Non è cambiato il calcio, è cambiata la società, sono cambiati gli uomini”, mi ha confessato di recente Giussi Farina, ex presidente del “Real” Vicenza e del Milan. “Oggi ci sono troppi intermediari tra il calciatore e i tifosi. Il calciatore medio, poi, ormai è come un attore, smaliziato, sa stare davanti alle telecamere e sa quello che deve dire e quello che non può dire”. Insomma, calciatori telecomandati dallo show businnes. Risultato? Banalità e nulla cosmico a nove colonne. Un gioco, questo, troppo spesso accettato anche da noi giornalisti. Per comodità e pigrizia, a volte: il giornalista “chiude” la pagina senza troppo sbattersi. Per “ragion di Stato”, anche: si compie il lavoro senza troppo infierire. Per costrizione, soprattutto. Gli addetti ai lavori, tra interviste a pagamento in esclusiva, addetti stampa, conferenze preconfezionate, giocatori imbeccati dai procuratori, ce lo impediscono ed è sempre più difficile “raccontare” qualcosa.

Così la pura cronaca sportiva è come il Panda del WWF. La narrazione è un genere ormai desueto, polvere celata dal tappeto della prosopopea. Eccezioni ce ne sono, leggi alcuni giganti del mestiere: Beha, Clerici, Mura, Terruzzi, Beccantini. Anche a livello locale, tra molti “notai”, c’è ancora chi ci mette del suo. Tuttavia sono, appunto, eccezioni. Tutto il resto è noia, per dirla col Califfo. Ergo pagine stantie, per certi versi surreali. Calciatori e allenatori che recitano sempre lo stesso spartito, malcelando loro stessi scarsa convinzione per le loro stanche chiose. Ricordo anni fa Luciano del Chievo, prima della rituale conferenza stampa del martedì, rivolto a un suo compagno, credo: “Aspettami, dico le solite cazzate e poi arrivo”. Beata sincerità, seppur inconsapevole.Così scorri le righe e sfogli le pagine ed è tutto un susseguirsi di frasi grottesche, di nonsense ridicoli, di annoiate e noiose banalità. “Andremo in campo per fare la nostra partita” (e che vuoi fare quella degli altri?). “Daremo il massimo” (pensavo voleste dare il minimo). “Scendiamo in campo per vincere” (ah io pensavo per perdere, Masiello docet). O ancora, un attaccante fa tre gol: be’ te lo immagini accorrere in sala stampa tutto eccitato, presumi che stia godendo “come un riccio” e voglia (legittimamente) urlarlo al mondo. E invece tocca sorbirti la sua chiosa da fedele pretoriano: “Non conta il singolo, ma la squadra. Non importa chi segna”. Per non parlare delle infinite ipocrisie: “Non penso al mercato, ma solo alla prossima partita”. O l’ecumenica: “Non esistono titolari e riserve”.

Sia chiaro, non chiedo nuovi Best, Meroni, Zigoni, Vendrame e compagnia. Non servono necessariamente “matti” e personaggi. Chiedo solo un po’ intelligenza in più e una dose di paranoia in meno . E’ troppo?

 

 

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