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CARO HELLAS, SENZA IL GIOCO BASTA IL CUORE

“Francé devi tirà in porta con ‘sto ciuccio de portiere”, mi urlava indemoniato il Gigi, con voce calda da fumatore, fisico appesantito da ex militare e baffo intimidatorio. Seguivano come un rosario, bestemmie e improperi in stretto dialetto molisano quale blasfemo condimento. L’ho pensato il mio mister degli allievi ieri sera, il quale rinvangava sino alla noia pure i suoi trascorsi in serie C e millantava la sua cultura classica (leggasi sopra). Chissà che avrebbe detto a Cacia & C. al cospetto di Fiorillo, portiere a tratti imbarazzante (si veda il gol di Martinho preso sul suo palo), eppure ieri sera quasi inoperoso, se si eccettua un tiro fotocopia dello stesso Martinho poco dopo il gol, la punizione centrale di Laner dai venti metri e poco altro.

Hai voglia di recriminare, ma recriminare cosa? Il Verona ha giocato l’ultima mezz’ora con un uomo in più senza concludere uno straccio di tiro in porta contro l’esangue e stremato Livorno, che comprensibilmente ha festeggiato il punto come uno scudetto. Molti cross da trequarti, molte palle sporche in area, grande intensità ma poche idee e ancor meno lucidità nell’eseguire quelle poche, tra un Cacia dormiente su due palloni facili, il “mediano” Gomez impalpabile (toglierli mai?) e la solita dipendenza dalle sortite individuali di Martinho, dalla luna instabile di Halfredsson e dalla regia di Jorginho.

Ma il Verona è questo, ormai lo conosciamo: molta qualità individuale, ottima organizzazione difensiva, ma poco gioco negli ultimi 30 metri. E incapacità cronica di  cambiare le situazioni tattiche in base all’evoluzione della partita (leggasi ingresso tardivo di Ferrari dopo l’espulsione di Duncan). Intransigenza tout court, insomma, alla faccia del camaleontismo del calcio moderno. Chi ha visto Prandelli e Ficcadenti (cito non caso gli allenatori che hanno fatto campionati di vertice in B) ha motivi di capire perché il Verona segna poco ed entusiasma ancora meno. Chi conosce la carriera, le caratteristiche e le personalità di Gomez, Rivas, Carrozza (le tre grandi delusioni della stagione), coglie anche i motivi tattici e i risvolti psicologici per cui, chi l’uno chi l’altro, non stanno rendendo secondo le aspettative, le loro capacità tecniche e il loro valore di mercato estivo (adesso deprezzato). Chi ragiona laicamente e non ammorbato dall’amore cieco (“La ballata dell’amore cieco” di De Andrè potrebbe insegnare qualcosa ai secondi) forse capisce le difficoltà di una squadra costruita per attaccare e allenata da un difensivista e, viceversa, le difficoltà di allenatore che ama i marcantoni da spadone, soldati da trincea e contropiede corsaro fedeli alla causa, e si ritrova invece talentuosi anarchici da fioretto sofferenti ai tatticismi.

Tuttavia ormai è difficile cambiare pelle a 11 partite dalle fine. Dunque è necessario vedere il bicchiere mezzo pieno, se non altro per professione di fede (gialloblù). Detto del gioco latitante, il Verona è migliorato nell’aspetto agonistico. Ieri ci ha messo cuore e polmoni fino alla fine, seguendo l’appello di Sogliano “giochiamo da outsider” (appello grottesco solo per chi non conosce le cose “interne” al Verona). Questo potrebbe essere sufficiente contro un Livorno che è più scarso, che rimane solo a due punti di distanza e che – cosa non da sottovalutare – mi è sembrato un po’ alla “canna del gas” (anche se l’essere uscito indenne dal Bentegodi può ringalluzzirlo). Basta poco, per dirla alla Vasco, data la mediocrità generale, ma quel “poco” (cioè l’agonismo) va messo sempre e non solo nei big match, e per 90 minuti. 11 gare, 23 punti da raccogliere. La serie A passa da quelli.

 

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