SCENA MUTA

Là in fondo all’aula il banco è vuoto. Manca all’appello l’onestà intellettuale: “Forse abbiamo fatto gol troppo presto” ha balbettato il ds Fusco nella sala stampa di Cagliari. In effetti lei è bella e ci sta e questo mi dispiace. Un peccato, davvero.

Là in fondo all’aula la finestra è sigillata e l’aria viziata. Il sigaro di Setti non aiuta. Fumava, il presidente a Cagliari. Fumava anche la nostra rabbia. Ma il presidente è all’altezza, dal punto di vista finanziario e operativo, di una serie A? Dal 2015 no, dicono i risultati. Il consolidamento dopo cinque anni e mezzo non c’è e del centro sportivo non si sente più parlare. Dortmund è molto più lontana, ma anche Crotone non scherza. Non mi sentivo illuso così dai tempi del “milione di posti di lavoro” dell’uomo in cerone e doppiopetto. Ma almeno lui sorrideva e mi metteva buon’umore. Qua son tutti cupi, scuri e tesi, con gli occhiali da sole ma, checché la canti Battiato, senza “carisma e sintomatico mistero”. 

Là in fondo all’aula c’è la nostra classifica. Fusco, a neanche un’ora dalla fine della partita, ha detto che Pecchia non è in discussione. “A prescindere” avrebbe detto il suo conterraneo Totò, l’immenso Totò, che pure mi scuso con un certo imbarazzo di citare in questo desolante contesto. Pecchia si domanda perché non abbiamo ripetuto le ultime prestazioni. Povero Cicci, lo sanno anche i sassi che l’Inter di Spalletti lascia giocare, non aggredisce e sorniona colpisce. Il gatto con il topo. Era chiaro a molti che l’Atalanta nel primo tempo aveva passeggiato per il campo e le era bastato alzare appena il ritmo nella ripresa per infilarti. Chi segue il calcio da qualche lustro sa che, nell’interpretazione, le partite con le dirette concorrenti sono diverse da quelle con le grandi. Un Inter può giocare indolente, al risparmio, lasciarti sfogare e pure sottovalutarti. Tanto sa che, nove su dieci, poi vince. Le belle prestazioni (che non significa essere spettacolari, ma essere quadrati in campo e solidi tatticamente) la misuri con le tue pari, che ti aggrediscono e non ti sottovalutano. Parlare di “passo indietro” del Verona è fuori luogo, perché non c’è mai stato un vero, sostanziale passo avanti.

Non a caso qualche settimana fa scrivevo che per giudicare il Verona bisognava aspettare le squadre…di mezzo, cioè quelle – rispetto a noi – né (troppo) più forti né più scarse (Benevento). Dunque Atalanta, Cagliari, Bologna Sassuolo, Genoa, Spal e Udinese. Con Atalanta e Cagliari l’esito è desolante e non si capisce come si possano fare almeno 10 punti (comunque pochi) da qui alla fine dell’andata per mantenere accesa la fiammella della speranza.

Là in fondo all’aula la finestra rimane sigillata e l’aria viziata, ma il banco non è più vuoto. Vi ha preso posto un ragazzo palesemente impreparato. Che quasi sempre ridicolmente si giustifica per evitare una mesta scena muta.

IN ASSENZA DI CARISMA (PECCHIA, FUSCO E SETTI)

Sarà stata l’ora, mezzanotte inoltrata, sarà che a vederlo, Fabio Pecchia, mi è sembrato un cane bastonato. Così il mio lato marzullesco, fino ad allora inconsapevole, si è manifestato: “Pecchia. perché non è mai sbocciato l’amore tra lei e Verona?”. Sì gliel’ho chiesto, perché la cronaca lo imponeva dopo i cori e lo striscione in curva sud, ma soprattutto perché, gira che ti rigira, è una domanda decisiva.

Mi rendo conto che scomodare Marzullo con il Verona è pericoloso, sai mai che poi arrivi Setti a ricordarci che l’Hellas è stato fondato dagli studenti greci, però che volete, la domanda mi è uscita così…

Devo aver toccato un tasto dolente perché Pecchia non mi ha fatto finire, ha lasciato perdere per un attimo l’abituale compostezza e con un lampo d’anima è uscito dall’archetipo del solito copione professionale, interrompendo quella stanca recita che sono diventate le conferenze stampa degli allenatori italiani. Pecchia, finalmente, si è acceso: “Io sono innamorato di Verona, vivo qui con la mia famiglia, qui le mie figlie vanno a scuola. Da parte mia c’è il totale innamoramento per questa città, ma io devo pensare ai risultati. L’anno scorso ci chiedevano di andare in serie A e siamo andati in serie A, quest’anno ci chiedono di mantenere la categoria e manterremo la categoria”.

Ecco, credo che a Pecchia, come a Fusco, sia sempre mancata l’empatia con questa piazza. Certo, in tal senso mica potevano andare a scuola da Setti, che del distacco con Verona ne ha fatto un manifesto. Così Verona, piazza identitaria, si ritrova non solo con un presidente poco passionale, ma anche con ds e allenatore privi di “chimica”. Aggiungo: siamo passati da un estremo all’altro, dagli strabordamenti del Mandorlini “capopopolo”, caudillo tale da saper diventare per alcuni quasi un’entità indipendente dal Verona, un club parallelo da tifare, all’assenza totale di carisma di Pecchia e Fusco (e di Setti).

Pecchia dice di pensare solo ai risultati. Ma anche quelli, in serie A e dopo undici giornate,latitano. Credo che la quota salvezza s’aggiri sui 35-36 punti, tenendo conto di un Benevento già spacciato e di un girone di ritorno in cui le pericolanti storicamente accelerano. Il Verona deve portare a casa almeno 10 punti nelle prossime 8 giornate per chiudere il girone d’andata a 16 e tenere accesa la fiammella della speranza. E se con Juve e (in parte) Milan la faccenda pare proibitiva, saranno le sei partite con Cagliari, Bologna, Sassuolo, Genoa, Spal e Udinese a dare le carte al nostro campionato. E’ lì il nostro futuro: sofferenza o condanna senza appello già a gennaio? 

CAMPEDELLI, PERCASSI E…SETTI. PERCHÈ ACCONTENTARSI?

Una risata ci salverà” dice quel fine umorista di Daniel Pennac. Maurizio Setti non sorride mai. Il Setti “attaccante” un po’ ganassa degli inizi, quello per intenderci del modello Borussia Dortmund e dell’Europa, ha lasciato posto a un uomo da tempo “in difesa”. Ricordo il Setti che più di cinque anni fa pronunciò solennemente le due promesse cardine e imprescindibili del suo mandato: centro sportivo e consolidamento in A. Oggi il centro sportivo ancora non c’è e la serie A, nel migliore dei casi (la salvezza), è un faticosissimo e sofferente affanno da preservare con calciatori e allenatore low cost. Tutto questo nonostante dal 2013 il Verona goda di entrate plurimilionarie e abbia potuto beneficiare di diverse plusvalenze. “In passato sono stati commessi degli errori” ha detto il 5 settembre al Corriere di Verona il direttore operativo Francesco Barresi. Non ci è dato sapere quali.

Verona che in caso di salvezza con la riforma Lotti in fase di definizione potrebbe prendere 40 milioni di euro dalla nuova ripartizione dei diritti tv, in caso di retrocessione altri 25 milioni di paracadute. “Ma nessuno vuole il Verona” afferma il conformista che segue acriticamente i cliché. Io sommessamente ma con il gusto della provocazione sposto il tiro: “Ma Setti vuole vendere?”. Non conosco altri settori merceologici con entrate garantite di questo peso. Conviene vendere? Ma come disse uno più importante di me e di Setti: “Se sbaglio mi corrigerete”.

Torno a scrivere di Setti non a caso dopo Chievo e Atalanta, due club che dimostrano (con modi e stili diversi ma entrambi efficaci) come si fa calcio in provincia. Due club presieduti da due imprenditori della città, perché anche nel calcio globalizzato, delle proprietà cinesi o arabe, dei fondi d’investimento e delle cordate opache (Milan), c’è ancora spazio per gli imprenditori vecchio stampo, quelli inseriti nel territorio, che vivono la città, a cui rendono conto. Campedelli e Percassi non sbandierano centri sportivi, li fanno. Campedelli e Percassi non parlano ogni due per tre di internazionalizzare il brand, ma in Europa il primo c’è stato, il secondo c’è. Campedelli è retrocesso ma è ripartito con autorevolezza. Percassi, come Setti, ha preso la squadra in B e l’ha consolidata, lui sì, in A. Percassi non ha mai cambiato i colori delle maglie e non ricordo un suo direttore generale che in tv abbia detto restando serio: “I colori non sono importanti”.

Lo dico a costo di essere impopolare: Chievo e Atalanta, la prima nella nostra Verona, la seconda nella vicina Bergamo, piaccia o meno sono la coscienza della società che dovremmo essere anche e soprattutto noi, più di loro, per storia, tifoseria e tradizione. Perché accontentarsi di essere meno? 

IN ASSENZA DI IDENTITÀ

Le emozioni non bastano. Poi, tocca giocare a calcio. Sono deluso, lo ammetto. Dopo la vittoria della volontà con il Benevento – arrembante, emotiva, non lucida, come il pareggio di Torino -, mi aspettavo, sulle ali dell’entusiasmo tanto caro a Pecchia e di una maggiore serenità, un miglioramento del Verona sul piano tattico e di quello del gioco. Non è stato così. La pochezza del Verona si misura nel Chievo, che ha fatto il minimo sindacale per spuntarla. Maran certamente non ricorderà questa domenica come la più straordinaria di una sua squadra. Ma tanto bastava.

Recriminiamo l’inferiorità numerica, salvo dimenticarci che ne siamo stati avvantaggiati (e non poco) con il Benevento. O la rammentiamo sempre, o non la rammentiamo mai. La verità l’ha raccontata a fine gara Roberto Inglese, attaccante dal talento cristallino e dall’intelligenza certa, spietato in campo, calzante fuori: “Non abbiamo qualcosa in più del Verona sul piano atletico, ma su quello del gioco sì dopo tre anni che giochiamo assieme”. Ma il Verona oggi aveva lo stesso allenatore e otto giocatori dell’anno scorso. Dunque non è la continuità la discriminante, ma la capacità di darlo un gioco.

Considerazioni che darebbero il là a un discorso più lungo che parte da lontano. Dalla “presidenza delle promesse” di Setti confrontata a quella concreta di Campedelli, esempio vivente che anche a Verona si può fare calcio senza magnati e costruire pure un centro sportivo senza sbandierarlo ai quattro venti. Dal management clivense rispetto a quello del Verona. Dalla politica finanziaria di via Galvani, che i giocatori buoni li tiene per anni o li vende bene, a quella di via Belgio, che da Jorginho a Donsah ha venduto con subitanea rapidità. Per finire – ma è solo una conseguenza di tutto questo – alla qualità di Maran, che nella sua carriera ha fatto la trafila, leggi gavetta, ed è arrivato in serie A preparato da una lunga anticamera, senza vantare amicizie con i direttori sportivi.

Il Verona deve crescere. La grinta c’è ed è importante, ma non basta. Per salvarsi occorre altro, pure in questo mediocre campionato dei bassifondi. Tre cose: identità tattica, lettura della partita e umiltà. Al momento non se ne vede traccia.

SAGGIO SULLA (NON) LUCIDITÀ

Giornalista a Forrest Gump: “Perché corri?”. “Perché sono Romulo”.

Inconsapevole era Forrest Gump, che vedeva e viveva tutto senza capirci alcunché. Inconsapevole è Romulo, guerriero libertario, corsaro e anarcoide, che coglie poco l’intelligenza del calcio, tra disposizioni tattiche alla Holly e Benji e deliberati assist agli avversari (dopo Insigne, pure ieri ne stava combinando una delle sue), ma che appena va a quel paese la partita e saltano gli schemi si esalta come nessuno. E corre, corre, corre. Come Forrest Gump. E vive e sente (la partita), vede (la porta) e segna, forse senza capirci davvero alcunché. Quasi come Forrest Gump in Vietnam.

Inconsapevole e indefinibile è il Verona. Credo siano gli aggettivi giusti per descriverlo. Ancora non è possibile conoscere il reale valore (o disvalore) di questa squadra, ballerina, incoerente, emotiva, poco razionale. Un saggio sulla (non) lucidità, che arditamente smentisce Josè Saramago.

Se volessimo, in qualche modo, promuovere la squadra di Pecchia potremmo limitarci alle cifre. Vittoria con il Benevento, pareggio a Crotone e pari anche con Sampdoria e Torino. L’unica sconfitta che non ci stava, calendario alla mano, era con la Fiorentina in casa. Per il resto compiti eseguiti.

Ma sarebbe esercizio di pigrizia e irresponsabilità fermarsi qui. Prendete il primo tempo di ieri. Un passo indietro sul piano del gioco rispetto alla prima mezz’ora di Torino. Il secondo tempo invece rispecchia fedelmente l’atteggiamento morale della rimonta finale con i granata. Nervo, animus pugnandi, capacità di andare oltre i propri limiti tecnici e tattici. Fortuna anche, ma quella bisogna andarsela a cercare.

Qual è dunque il Verona? Quello triste, depresso e impalpabile di cinque partite su otto? Quello ordinato e dignitoso della Sampdoria? Quello bizzoso (presente, assente e poi ancora presente) di Torino? Quello dei due volti di ieri? E qual è il confine tra i meriti della squadra di Pecchia, i demeriti degli avversari (la sufficienza della Samp, l’indolenza del Toro e l’inferiorità tecnica del Benevento) e le circostanze fortunate (l’infortunio di Belotti e l’espulsione di Antei)?

Domande doverose, dato che ancora non si vede una solidità tattica (ieri il Benevento era più scarso ma più organizzato) e una coerenza di gioco (il secondo tempo è un arrembaggio emozionale ed emozionante ma senza schemi, idem la rimonta al Grande Torino). Perplessità lecite, in attesa delle avversarie…di mezzo che ad oggi ancora ci mancano. Sassuolo, Cagliari, Genoa, Spal, ma anche Atalanta e Bologna definiranno la nostra dimensione, perché non più forti (o comunque non troppo più forti) e più motivate al nostro cospetto di Sampdoria e Torino.

Il Chievo no, il Chievo è una stracittadina ed è una partita a parte. E non vorrei che fosse emotivamente snobbato dall’ambiente con la solita manfrina “non è un derby, l’unico derby è con il Vicenza”. E’ un lusso che non possiamo permetterci, non ora.

Anche perché almeno su una cosa Pecchia ha ragione. “In questo momento la squadra ha bisogno di entusiasmo”. Dunque godiamoci la vittoria di ieri con tutti i nostri difetti. Ha un neo Cindy Crawford, non possiamo perdonare (per adesso) quelli del Verona?

L’EQUIVOCO (IERI MANDORLINI E OGGI PECCHIA)

Improvvisamente il Var scese tra noi. C’è qualcosa di mistico nella sua ascesa. E può esserci qualcosa di umano (e oggi anche di giusto) nella tecnologia. Il Var ci ha accarezzato, salvandoci dalla disperazione e dalla frustrazione. Umanesimo tecnocratico, una nemesi, ma il Verona riesce pure in questo, a trasformare una macchina in un’emozione. Fino a ieri la moviola in campo sembrava non ci riguardasse. Oggi ci ha consegnato un’epica rimonta. Le vie di mezzo, noi, non le contempliamo.

Nemmeno fuori dal campo, se è per quello. Ho letto commenti sui social network di chi sperava che il Verona perdesse così Pecchia se ne andava. A parte che sarebbe stato tutto da vedere, dato che a Torino (anche prima del pareggio) si è intravisto qualche lieve miglioramento – non che ci volesse poi molto, prima si era a un livello sotto la dignità, oggi (al netto della parte emozionale) si è raggiunta la mediocre normalità tecnico-tattica di una squadra da bagarre salvezza, un ibrido di grande volontà e grossolani errori sia individuali che tattici.

Ma qua forse qualcosa sta sfuggendo. Come si fa a volere che il Verona perda? E’ un’emozione reale di una parte della piazza, o è una folle amplificazione da social?

Pecchia non è mai stato amato. Pecchia ha (tutt’ora) limiti tecnici e in molte (quasi tutte?) altre società, già lo scorso anno, non avrebbe goduto dei bonus avuti qui a Verona. Limiti che ha dimostrato anche oggi, vedi la fase difensiva, la scelta di Fares terzino, la posizione di Cerci che da anni non è più un’ala destra e l’ennesima esclusione di Pazzini con Kean mandato allo sbaraglio solo contro tutti. Sarà una coincidenza, ma l’ingresso del Pazzo ha comunque “alzato” la squadra, aiutato l’imberbe compagno e messo pressione agli avversari.

Ma un conto è la critica, anche radicale e non paracula (privilegio peraltro di pochi tra i media), che è necessaria e anzi aiuta a crescere, un conto il pregiudizio e soprattutto le guerre personali, specie se c’è di mezzo il Verona, bene supremo da difendere da tutto e da tutti.

Già, il Verona. Dove lo mettiamo il Verona? Valeva per Mandorlini e oggi vale per Pecchia. Si può gioire per una vittoria, pur sognando un altro allenatore. Si può godere e al contempo ritenere il tecnico inadatto. Sono due piani diversi e perfettamente compatibili. E’ così difficile capirlo?

Identità è anche questa. Mandorlini non era il Verona. Pecchia non è il Verona. Vogliamo uscire una volta per tutte da questo dannatissimo e nevrotico equivoco?

LA LEZIONE DI SCEMMA (CHE SETTI NON IMPARA)

Paolo Conte spiega il Verona. “Onda su onda il mare mi porterà alla deriva, in balia di una sorte bizzarra e cattiva”. Quando sei dannatamente senza parole ti affidi ai poeti.

Giampaolo Pazzini racconta il Verona: “Il problema non è che non segniamo, il problema è che non tiriamo in porta. Ci manca coraggio e gioco. Pure l’anno scorso in B abbiamo fatto fatica per due mesi, figuriamoci ora in A. La mia panchina di inizio campionato? (faccia eloquente, nda) Per ora non ne parlo, saprete tutto più avanti, posso solo dire che io non ho mai voluto andare via da Verona”. Quando ti sei abbondantemente rotto le palle delle solite scuse, delle ridicole dichiarazioni, arriva Pazzini a scoperchiare il vaso di Pandora.

Dopo la Sampdoria ero intimamente perplesso. Un pari raffazzonato, stiracchiato, con una Samp parsa limitata da se stessa, dalla propria sufficienza, più propensa a gestirsi, al compitino, e con calciatori determinanti in panchina. Ciononostante il Verona è riuscito a fare una fatica boia anche lì, e se non ha perso è grazie a tre circostanze fortunose. Certo, con qualche cenno di vitalità, ma uno strapuntino nulla più.

Ma ho preferito seguire la lezione del saggio: “Piuttosto di parlarne male, non parlarne”. In questi giorni serviva alimentare con senso di responsabilità quel flebile spiraglio. Meglio il silenzio che l’ipocrisia. Ma ora a travolgerci è la realtà. Impietosa. Ineluttabile.

La Lazio ci ha riportato sulla terra, anzi sotto, dove il Verona sta sprofondando, con rilassata rassegnazione e boriosa presunzione.

E quel che è peggio è che siamo senza guida, con un allenatore che pare inadeguato, catapultato in un mondo più grande di lui; un direttore sportivo ciecamente e acriticamente innamorato del suo tecnico e della sua (presunta) idea di calcio, nonché in difetto di carisma e dunque con tutta probabilità non all’altezza nei compiti di gestione quotidiana, ma soprattutto – ed è la cosa che fa più male – un presidente di fatto assente, freddo, distaccato. Setti “ha dei doveri nei confronti della piazza. Se fai il presidente del Verona non hai diritto alla ritrosia” mi e ci ha ricordato quel maestro di giornalismo che è Adalberto Scemma, uomo dalla schiena dritta e dal cervello fino. E l’onestà intellettuale e il senso critico in questo momento ci servono come il pane, perché ci aiutano a capire e a vincere lo smarrimento.

Il resto lo fa la fede. “Il Verona ha un’epica gloriosa e tragica, che tocca gli estremi. Lo scudetto e il fallimento, la grande Europa e la serie C. E le due più incredibili e pirotecniche retrocessioni della storia del calcio, quella del 2001 con Malesani e del 1958 con Del Vecchio. Il Verona è follia e squilibrio. E lo squilibrio è vita, è la Fenice, è la poesia della resurrezione. Meglio folli che piatti, il piattume è morte, il Verona è vita. Per questo il Verona si ama”. Parole ancora di Scemma. Parole di amore.

CARNE DA CANNONE

Il nulla. Anzi no, meno del nulla. E come si può commentare il nulla? Il rischio è di legittimarlo.

Lo legittimano le dichiarazioni di giovedì del direttore sportivo Fusco, che riascoltate adesso appaiono ancora più surreali e marziane. Lo legittima la nuova verbosità incazzosa di Pecchia, che venerdì mi è parso sminuire la sensibilità della piazza asserendo che lui ha vissuto luoghi “dove la pressione non si sentiva, ma si toccava”, quasi che i “rumors” veronesi in confronto siano una bagatella. Ho pensato alla bellissima Gubbio: Don Matteo alias Terence Hill era così rompiballe? Poi ho capito che l’allenatore si riferiva alla sua (brillante) carriera da calciatore e da vice allenatore. Ruoli che però nulla c’entrano con l’attuale. Un po’ come sommare le pere con le mele, insomma.

La verità è che Fusco e Pecchia sono in difficoltà e anziché cercare collaborazione e comprensione si arrampicano affannosamente sugli specchi, individuando nemici che non esistono, imputando a noi giornalisti frasi che non abbiamo mai detto o scritto (“il siamo già in B” di cui ci addita Fusco), rifugiandosi in alibi consumati e vuoti. E irritandosi (il ds), pur senza nominarli, con i nostri grandi ex calciatori, “rei” di aver detto (Elkjaer al Corriere di Verona) la cosa più drammaticamente banale e vera: che avanti di questo passo si retrocede.

Ecco questo mi dispiace. Fusco e Pecchia, al di là della loro indubbia professionalità e volontà, si erano presentati ed erano stati presentati come mosche bianche in questo calcio. Ma adesso, nel momento di massima crisi tecnica, pure loro emigrano nella densamente popolata “città degli alibi”, dove si sbaglia poco o nulla ed è sempre colpa degli altri: del “clima negativo”, dei giornalisti, dell’ambiente, del “disfattismo” (altra orribile, abusata e insensata parola ricorsa nei giorni scorsi).

E’ vero, Setti ha messo a disposizione pochi soldi e ne ho già ampiamente parlato. Ma quei pochi, se la squadra è questa, sono stati spesi male. Il resto lo fa un allenatore i cui limiti (la fase difensiva, la lettura della partita e la gestione del gruppo) si erano già manifestati l’anno scorso, e uno spogliatoio colpito in pochi mesi dai casi Toni, Cassano e Pazzini, tutti e tre gestiti malissimo dalla società. 

Ci vuole equilibrio” è stato detto, altra inflazionata tiritera, seconda solo al “su le mani” dei vocalist notturni. Ma qui l’unico equilibrio che manca è quello del Verona in campo. Siamo carne da cannone.

P.S. Caro Setti, è vero “siamo stati in Lega Pro”. Più di sei anni (non sei mesi) fa. Ma anche campioni d’Italia, squadra europea (quando il brand Verona s’internazionalizzava sul serio e senza sbandierarlo) e più volte finalisti di Coppa Italia. Se giochiamo agli estremi, magari per giustificare l’attuale momento e un mercato low cost nonostante gli introiti di questi anni, giochiamoci fino in fondo. Lei peraltro la società l’ha rilevata dopo una semifinale di play off di B e con giocatori da A come Jorginho, Hallfredsson, Maietta, Rafael e il Gomez di allora. O ricordiamo tutto, o non ricordiamo nulla.

QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI

In “quel pomeriggio di un giorno da cani” a salvarci è l’ironia, benedetta perché è puro sollievo. Su whatsapp gira un meme ispirato alla celebre battuta di Giacomo Poretti di Aldo, Giovanni e Giacomo in ‘Tre uomini e una gamba’: “E allora quest’anno fai la serie A?” “Sì ma niente di serio”. Risata beffarda con retrogusto amaro, ma pur sempre risata è. Salvifica.

In “quel pomeriggio di un giorno da cani” uscendo dallo stadio in auto mi attraversano la strada un giovane padre con il figlio. Mi fermo. Osservo. Il bambino tiene in mano e mostra orgoglioso, nonostante tutto, la sua bandiera del Verona. Ma il viso è triste, lo sguardo mortificato, gli occhi lo specchio pallido di una delusione. Lui non sa nulla di bilanci e società lussemburghesi, per lui il paracadute è solo un favoloso miraggio che vola e scende dal cielo, e l’unico centro sportivo che desidera è il campetto dove scalcia e sogna con gli amichetti. Ripenso a me bambino, quando uscivo dallo stadio con mio papà e vivevo il calcio con purezza e irrazionalità, senza sovrastrutture, bagaglio forzato di un adulto, in particolare giornalista. Rifletto su cosa possa provare quel bimbo. Il Verona è sentimento, ma pare che a qualcuno là in alto, nella stanza dei bottoni di via Belgio, tra i suoi prolungati e inopportuni silenzi, le sue rare parole e i suoi visibili atteggiamenti, questo non interessi. Non c’è empatia tra Setti e il Verona. Non c’è comunicazione. Non c’è chiarezza. Non è forma e tanto meno retorica, è sostanza. Un distacco emotivo di cui risente pesantemente tutto l’ambiente.

In “quel pomeriggio di un giorno da cani” ci vorrebbero pure contenti. “Non vendiamo sogni” hanno detto. In effetti l’Europa (Setti nel 2013) e il modello Borussia Dortmund erano boutade gratis. In attesa del centro sportivo, promesso cinque anni fa.

In “quel pomeriggio di un giorno da cani” potremmo però cambiare prospettiva. Viene alimentato il solito cliché del “nessuno vuole comprare il Verona” (si è sempre detto, ma ricordo che il Verona un presidente e una proprietà li ha sempre avuti), ma nessuno che si domandi: Setti vuole vendere?

VERONA SOTTO TIRO, MA SERVE CHIAREZZA

Questione Volpi. Al netto delle indagini, siano esse sportive (sul Verona) o penali (su Volpi), che faranno il loro corso, al di là delle notizie degli organi di stampa che puntualmente si rincorrono, la sensazione è che manchi chiarezza. Maurizio Setti, a parole, la trasparenza come valore l’ha invocata sovente, tuttavia nei fatti pare non esserci.

Setti non si è mai soffermato sulla Falco Investments SA, per la Guardia di Finanza società anonima lussemburghese che detiene interamente la proprietà del Verona. E non è mai stata fatta piena luce sulla complessa catena di controllo del Verona. Inoltre Setti e i suoi dirigenti (Fusco di recente e oggi il direttore operativo Barresi al Corriere di Verona) pongono l’accento (legittimamente) sui costi di gestione, eppure mi domando perché non si rimarchino con la stessa enfasi i ricavi. Inoltre lo stesso Barresi giustifica l’attuale politica di austerity parlando di errori nelle gestioni economiche-finanziarie precedenti. Mi sembra un modo sbrigativo di derubricare la faccenda e giustificare un (non) mercato a costo quasi zero, con tanto di solito appello alla piazza al sacrificio.  Infine vorrei ricordare a coloro che dicono (correttamente) che con Setti abbiamo fatto quattro campionati di serie A in sei stagioni sotto la sua presidenza, che Setti ha promesso il consolidamento in A e il centro sportivo, obiettivi a distanza di cinque anni non ancora raggiunti. E lascio perdere le sue vecchie dichiarazioni (nel 2013) su un futuro in Europa e sul modello Borussia Dortmund. L’ho detto in passato e lo ribadisco: il presidente del Verona deve essere giudicato su quelle due promesse.

D’altro canto la mia sensazione è che Setti e il Verona da qualche tempo siano sotto il tiro politico del Palazzo e di conseguenza del circuito mediatico-giudiziario. Setti è al Verona da cinque anni, perché solo oggi emergono le inchieste? Perché dopo quattro anni di quasi nulla, se non voci e qualche articolo senza riferimenti specifici, solo nell’ultimo si sono scomodati tre grandi quotidiani italiani a fare le pulci alla proprietà (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport), o ai nostri bilanci (Sole 24 Ore)?

Non vorrei che Setti e il Verona fossero in un momento di debolezza politica e vittime di giochi di potere più grandi. Il calcio italiano è un rassemblement di interessi economici, finanziari e politici che convivono tra di loro. E le coperture politiche in determinate circostanze possono essere anche più determinanti dei soldi. Nel frattempo mi auguro che Setti possa venire presto a parlare in conferenza stampa e non si limiti ai comunicati stampa. L’ambiente ha bisogno di serenità.