Le emozioni non bastano. Poi, tocca giocare a calcio. Sono deluso, lo ammetto. Dopo la vittoria della volontà con il Benevento – arrembante, emotiva, non lucida, come il pareggio di Torino -, mi aspettavo, sulle ali dell’entusiasmo tanto caro a Pecchia e di una maggiore serenità, un miglioramento del Verona sul piano tattico e di quello del gioco. Non è stato così. La pochezza del Verona si misura nel Chievo, che ha fatto il minimo sindacale per spuntarla. Maran certamente non ricorderà questa domenica come la più straordinaria di una sua squadra. Ma tanto bastava.
Recriminiamo l’inferiorità numerica, salvo dimenticarci che ne siamo stati avvantaggiati (e non poco) con il Benevento. O la rammentiamo sempre, o non la rammentiamo mai. La verità l’ha raccontata a fine gara Roberto Inglese, attaccante dal talento cristallino e dall’intelligenza certa, spietato in campo, calzante fuori: “Non abbiamo qualcosa in più del Verona sul piano atletico, ma su quello del gioco sì dopo tre anni che giochiamo assieme”. Ma il Verona oggi aveva lo stesso allenatore e otto giocatori dell’anno scorso. Dunque non è la continuità la discriminante, ma la capacità di darlo un gioco.
Considerazioni che darebbero il là a un discorso più lungo che parte da lontano. Dalla “presidenza delle promesse” di Setti confrontata a quella concreta di Campedelli, esempio vivente che anche a Verona si può fare calcio senza magnati e costruire pure un centro sportivo senza sbandierarlo ai quattro venti. Dal management clivense rispetto a quello del Verona. Dalla politica finanziaria di via Galvani, che i giocatori buoni li tiene per anni o li vende bene, a quella di via Belgio, che da Jorginho a Donsah ha venduto con subitanea rapidità. Per finire – ma è solo una conseguenza di tutto questo – alla qualità di Maran, che nella sua carriera ha fatto la trafila, leggi gavetta, ed è arrivato in serie A preparato da una lunga anticamera, senza vantare amicizie con i direttori sportivi.
Il Verona deve crescere. La grinta c’è ed è importante, ma non basta. Per salvarsi occorre altro, pure in questo mediocre campionato dei bassifondi. Tre cose: identità tattica, lettura della partita e umiltà. Al momento non se ne vede traccia.