L’AFFARE ITURBE E IL VERONA CHE VERRA’…

Iturbe alla Roma, sospiro di sollievo in casa Forrester: Beautiful torna a essere la telenovela principe. Dieci milioni di euro il guadagno netto del Verona, che ha comprato il talento argentino qualche settimana fa dal Porto per 15 milioni e l’ha rivenduto ieri a circa 25 milioni (22 milioni più 2,5-3 di bonus su standard minimi). Queste le cifre di un’operazione complessiva che s’aggira (intermediazioni comprese) sui 28,5 milioni di euro.

Non male per un club di medio livello che non ha la forza contrattuale di una grande società; questo ricordiamolo sempre, perché ho letto e sentito qualche lamentela di troppo tipo “ma dicevano che a meno di trenta non lo cedevano” ecc.. Alzare il prezzo, da che mondo è mondo, in qualsiasi trattativa è un escamotage psicologico del venditore (viceversa, chi compra cerca di abbassare): il Verona ha sempre chiesto 30 per ottenere almeno 25 e così alla fine è stato. Non era scontato, visto la forza delle controparti (Roma, Juve ecc.) che hanno strategicamente puntato sull’offerta contrattuale al giocatore (dunque sulla sua volontà), su una stampa amica e sulla necessità del Verona di vendere (l’Hellas al momento non può permettersi determinati ingaggi).

Adesso il Verona col “tesoretto” Iturbe (10 mln), quello di Donsah (2,5 mln), il prossimo di Romulo (4 mln?) e quello futuro di Jorginho (altri cinque milioni da incassare fra un anno alla definitiva risoluzione della comproprietà) può andare sul mercato con una certa autorevolezza. L’acquisto di Paulinho (6 mln) e di Lazaros (1,5 mln) e Tachtsidis (riscatto a 1,8 mln) sono la conferma che in via Belgio fanno sul serio. Certo, Sogliano sa che la squadra è ancora ampiamente incompleta: mancano un terzino destro e uno sinistro, almeno tre centrali difensivi, un mediano alter-ego di Tachsidis (Donati verrà ceduto), un trequartista titolare (Chanturia è in sospeso, Mattia Valoti parte come riserva) e un’altra punta da serie A che con Toni, Paulinho e Gomez completi il reparto. L’impressione, al momento, è che Sogliano stia allestendo una rosa più equilibrata (meno stelle, ma anche meno brocchi) ed esperta (giocatori già pronti) rispetto a un anno fa, e con Jacopo Sala, il portiere Pierluigi Gollini e lo stesso Valoti giovani da valorizzare. Obiettivi tecnici? Colonna sinistra della classifica e consolidamento tra i primi dieci club italiani.

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QUEI COLORI COSI’ POCO TRADIZIONALI…

Eccole le nuove maglie! Le aspettavo con ansia, perché – da che mondo è mondo – come diceva il mitico Manuel Fantoni-Angelo Infanti (rip) a uno costernato e intimidito Sergio Benvenuti-Carlo Verdone: “A Sè, l’abito fa er monaco, eccome se lo fa!”. E questa volta, a differenza dello scorso anno, non sono rimasto deluso. Come intimamente mi aspettavo (ma non speravo) le “Game Kit Collection” (sic) – ai miei tempi chiamate volgarmente e barbaramente magliette – per le tonalità dei colori scelti, non sono molto rappresentative della storia del Verona. Mi riferisco alla prima, che poi è quella che conta, col suo blu “navy” ben distante dal quel “royal” a cui la tradizione si è sempre più o meno avvicinata. Ma così va, è la globalizzazione bellezza, del mondo o del pallone poco importa.

Sono maglie studiate, che abbiamo voluto rendere alquanto personalizzate”, ha dichiarato Giovanni Gardini. Troppa grazia Sant’Antonio! Battute sdrammatizzanti a parte (non stiamo parlando della guerra nucleare, sia inteso), Gardini dal suo punto di vista (professionale) ha ragione: se una maglia la prendi da catalogo e le metti qualche stemma o il giallo nel colletto (cosa buona e giusta questa), tecnicamente diventa personalizzata, niente da dire. Ma il dg ci capirà se a nostro avviso sarebbe servito qualcosa in più, cioè disegnarne una “solo” per l’Hellas Verona. Perché non è stato fatto?

Aggiungo: Gardini pochi mesi fa aveva smentito che le maglie anticipate dalla Gazzetta dello Sport fossero quelle a cui stava lavorando la società. Anche in questo caso tecnicamente il dg ha ragione, le divise non sono uguali, tuttavia sono molto simili. Perché allora smentire con tanta decisione?

Sul web più di qualcuno ha scritto che la prima divisa richiama quella del Chievo per le maniche di colore diverso dal busto. In realtà la maglia del Verona ha le intere bande laterali che “staccano”, però mi domando: per evitare ogni equivoco, o timore di un beffardo contrappasso (dopo la polemica coi cugini sui simboli e colori) non sarebbe stato preferibile confezionarne una a tinta unita blu (lievemente più chiaro) coi bordini gialli? Diceva Steve Jobs, il cui culto è celebrato dagli imprenditori e manager di oggi: “La semplicità è più difficile da raggiungere rispetto alla complessità”. Quanto aveva ragione…

CHIEVOLANDIA: LA CADUTA DELL’ULTIMO TABU’

“Isola felice”, “miracolo”, “favola di quartiere”. Ricordate la retorica dei corazzieri mediatici sul Chievo in tutti questi anni? Quattro lustri a raccontare le gesta di un club considerato mosca bianca nel calcio frenetico, milionario e asettico del nuovo millennio. La trama giornalistica era semplice ed efficace: la società (la sola) “pane e salame” come “spot dell’altro calcio”,  avverso s’intende a quello dei “paperoni” (tutti gli altri, indistintamente); un angolo di mondo scevro di pressioni e (pur umanissime) invidie e gelosie. Insomma, a leggere i fiumi di inchiostro dedicati in tutti questi anni al club della Diga pareva di essere capitati – almeno a livello calcistico – nell’anarchica e immaginaria isola di Utopia di Tommaso Moro, fondata al suo interno da solidarietà, collettivismo individuale (e non ideologico) e amicizia.

Ma poi venne il giorno… Già, poi è arrivato il giorno in cui tutta questa solenne prosopopea si è sbriciolata in cinque minuti. Le dimissioni, avvolte nel mistero, di una figura storica come quella di Giovanni Sartori perlomeno hanno avuto il merito di mostrare il Chievo per quello che è e forse è sempre stato: una società come tutte le altre nei suoi pregi e nei suoi difetti, coi suoi talenti ma anche i suoi narcisismi, la sua organizzazione ma anche i suoi egoismi, dove si può condividere, ma anche litigare, sopportare e addirittura divorziare, perfino dall’artefice della scalata dalla C ai preliminari di Champions League.

L’addio di Sartori è, se vogliamo, la rottura dell’ultimo tabù della Chievolandia mai esistita (se non sui giornali). A chi in passato gli chiedeva del perché si fosse fermato così a lungo nella società della Diga, il ds spiegava: “Non mi vedo lontano da qui, me ne andrò solo se non mi vorranno più”. Parole eloquenti, probabilmente Sartori si è sentito messo da parte senza troppi complimenti. Del resto non succede in tutti i club, in tutte le aziende e in tutti gli uffici?

Piuttosto, finalmente spatinato dalla retorica della favola, per il Chievo comincia ora la sfida più difficile: continuare a fare calcio, ma  da “normali” anche agli occhi dell’opinione pubblica. E’ questa la vera rivoluzione, altroché.

I CALCIATORI? CONTA SOLO IL VERONA

I petroldollari arabi hanno sedotto Marquinho, così sul web leggo commenti poco simpatici nei confronti del centrocampista brasiliano. Eppure mi chiedo, quanti altri al suo posto avrebbero fatto diversamente? Qualcuno ha paragonato il “mercenarismo” dell’ex romanista alla fedeltà di Maietta, tuttavia il confronto non regge. Il buon Mimmo (che va ringraziato per quanto ci ha dato in questi quattro anni e che rimane una persona genuina al di là delle polemiche di questi giorni ) un’offerta del genere non l’ha ricevuta e ad oggi – in attesa di trovare una buona sistemazione per i suoi desiderata – la migliore soluzione per lui è rispettare il contratto che lo lega a Via Belgio. Giusto così, com’è giusta la scelta di Marquinho.

Attenzione, scrivo con l’inchiostro del disincanto, non con quello del mondo che vorrei, perché stiamo parlando di professionisti, sempre e comunque, anche nei casi più insospettabili. Professionista, non bandiera, fu Del Piero quando decise di rimanere alla Juventus in B, forte di un contratto plurimilionario che altrove non avrebbe trovato (era reduce da due anni da panchinaro); al di là di tutta la retorica che si fece all’epoca. Professionista è stato Hallfredsson a gennaio, quando prima del rinnovo contrattuale si è guardato intorno tirando un po’ la corda. Professionista è Iturbe, che attende con la pazienza di chi sa che – comunque vada – andrà a guadagnare di più su palcoscenici agonisticamente più importanti. Professionista è Romulo e lo è il suo procuratore che cerca di sfruttare il più possibile il valore di mercato attuale del suo assistito. Professionista è Prandelli, che nonostante le promesse e un tatuaggio lasciò Verona per un contratto col Venezia (non con la Juve, il Milan o l’Inter) e adesso si dimette da ct triplicando il suo ingaggio al Galatasaray. Professionista è Sogliano, che prima o poi al Milan andrà (ma intanto teniamocelo stretto!), e professionista è Mandorlini, il cui il legame con la città è vero, ma che se lo chiamasse una grande o un danaroso club straniero probabilmente faticherebbe a rifiutare. E professionisti sono, pur in situazioni di mercato opposte, sia Marquinho, che ha diritto a firmare con gli arabi, che Maietta, che a 32 anni ha piena ragione di voler aspettare una chiamata dalla A.

Perché ricordo questo banalissimo concetto? Perché credo serva a farci riflettere, intendo noi giornalisti e una parte dei tifosi. A volte non dovremmo cedere alle tentazioni omologanti, ma invece ispirarci al motto della curva sud “cambieranno i giocatori, il presidente e l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”. Oggi più che mai. Quindi basta isterie (buone o cattive) mediatiche su questo o quel giocatore, piuttosto concentriamoci sul patrimonio identitario (storia, maglia, simboli, colori, senso di appartenenza) che rappresenta il Verona Hellas. Gli onanismi da calciomercato, gli psicodrammi collettivi per l’addio del campione di turno, le ipertrofie all’americana del numero di maglia da ritirare, i cori per tizio, caio o sempronio lasciamoli ad altre città, ad altre squadre e ad altri tifosi. Perché, come declama un altro coro, l’unico campione è l’Hellas Verona. Il resto è avanspettacolo.

CARO-ABBONAMENTI? RIAPRITE CURVA NORD E PARTERRE

Il mio Mondiale in un’immagine: Parolo che si scalda nell’intervallo di Italia-Uruguay. Un riflesso condizionato e… sono scattato urlante: “Remondina cambia!”. Certi amori non finiscono cantava Venditti; be’ caro Antonello nemmeno certi malinconici ricordi. Quel Verona di serie C, che ora sembra lontano anni luce, era povero e con dei limiti, il suo allenatore bravino e precisino, insomma troppo “ino”, cioè puntuale nella didattica ma senza genio e grande talento, eppure quell’anno sfiorammo i playoff promozione e rivivemmo piccole speranze sepolte da tempo (il calcio come passione popolare vive di grandi slanci, traguardi raggiunti o solo lambiti, storie di vinti e vincenti, in quale categoria poco conta). E appunto il vituperato Remondina, uomo onesto e (troppo) perbene per i tempi che corrono, si barcamenò tra mille incognite societarie (il rischio fallimento, la morte di Arvedì e il passaggio di proprietà a Martinelli con la paventata fusione). Voglio dire, non sarà stato il più grande allenatore che abbiamo avuto il gentil Remo, e vederlo allacciare alla vita la maglia della tuta come un improvvisato escursionista sul Carega non lo faceva brillare per carisma e immagine; e poi non attaccava i giornalisti e quindi non li intimoriva, e men che meno non regalava loro titoli e soffiate, ma il Depardieu di Rovato credo debba essere un tantino rivalutato: in fin dei conti ha tenuto a galla la barca facendo il lavoro sporco in un momentaccio della nostra storia, perdendo poi il campionato successivo con una squadra sopravvalutata da dirigenti (vero Bonato?) e mass media e la “guerra” interna in società. Ben più fallimentari di lui i meglio remunerati Reja, Cagni, Salvioni, Colomba e Giannini.

“Remondina cambia” del resto è un sempreverde cavallo di battaglia che potremmo adattare all’attuale calcio italiano, perché se Parolo – con tutto il rispetto – può dire di aver giocato un Mondiale significa che il nostro football è in stato comatoso e servirebbe una rivoluzione. Certo, se la soluzione è il ticket Macalli-Lotito come si prospetta, be’ altro che coma, prepariamoci a celebrare un bel funerale. I miei candidati sono Andrea Abodi e Damiano Tommasi, sebbene quest’ultimo un giorno lo vorrei nei quadri dirigenziali del Verona con un incarico simile a quello di Facchetti nell’Inter di Moratti. Chissà…

Il Verona ha aumentato i prezzi degli abbonamenti. Sicuramente la società avrà avuto le sue motivazioni, tra certosine ricerche di marketing e precisi indici statistici, ma io avrei preferito che la fedeltà dimostrata dai tifosi gialloblu in questi anni venisse riconosciuta con un gesto concreto. Più in generale, citando il mitico Lubrano, la domanda sorge spontanea: ma il calcio è (ancora) davvero di tutti? A Verona sì, a patto che il club (assieme al Comune proprietario dello stadio) riesca a far riaprire i settori popolari chiusi da una vita, cioè parte della curva nord e del parterre, vendendo poi i singoli biglietti a prezzi accessibili. Setti e Gardini – l’ho già detto in passato e lo ripeterò alla noia – nel giusto intento di dare managerialità e promuovere il brand non facciano l’errore di pensare al calcio solo come… managerialità e brand appunto. La migliore mossa di marketing, che di riflesso tirerebbe tutte le altre, è uno stadio pieno in tutti i settori, come in Germania. E Setti non ha detto più volte di ispirarsi al modello tedesco?

SETTI, IL FUTURO E L’IDENTITA’

In principio fu Ranzani. Mi divertivo a chiamarlo così, Maurizio Setti, nei primi tempi da presidente del Verona. Era un modo ironico per parodiare i tic e i vezzi dell’industriale di Carpi, tipico self-made man della provincia italiana, che mi ricordava l’imprenditore di Cantù un po’ smargiasso e un po’ rampante inventato da dj Angelo a Radio Deejay e portato sugli schermi Mediaset da Albertino a Zelig.

Ora il ranzanismo è bypassato: a distanza di due anni Setti ha dimostrato di essere persona sì esuberante e visionaria, eppure terribilmente concreta e – a differenza delle apparenze iniziali – poco incline a raccontarla e a raccontarcela.

Lontano dalla logica da padre padrone del “ghe pensi mi”, Setti ha creato una struttura moderna e orizzontale, divisa per aree di competenza dove la figura di riferimento delegata ha un potere autonomo. E i risultati sportivi e manageriali sono sotto gli occhi di tutti, anche del partito dei diffidenti che due anni fa spaccava il capello in quattro “perché Setti non è veronese” (come se questa fosse la discriminante per essere o non essere un buon presidente). Io all’epoca scrissi provocatoriamente “per fortuna”, perché così non saremmo stati fagocitati da certe logiche salottiere e gelosie di bottega tipiche della provincia.

E così è stato: Setti, dal punto di vista della gestione, ha sprovincializzato il club, slegandolo dal paternalismo ambiguo (eufemismo) di Pastorello, da quello ingenuo di Arvedi e da quello buono di Martinelli. Il suo obiettivo, neanche tanto celato, è espandere il brand fuori dalla provincia, dando al Verona un’ immagine moderna, e patrimonializzare la società (da qui l’Hellas Store e l’ambizione del centro sportivo per il settore giovanile). Nell’idea presidenziale il Verona deve vivere di luce propria e autofinanziarsi (perché come Setti sovente ricorda “non sono uno sceicco e l’epoca dei mecenati è finita”). In tal senso i diritti tv sono determinanti, ma non devono essere la sola voce di bilancio: il resto lo fanno la valorizzazione dei calciatori, del vivaio e il merchandising.

L’importante è che nell’intento di sprovincializzare (intento necessario se vuoi restare a galla nel calcio ahimè globalizzato di oggi) si salvaguardi sempre la cultura identitaria del Verona Hellas, un’anomalia positiva nel panorama calcistico italiano, una risorsa e, aggiungerei, anche un anticorpo all’omologazione che può fare la differenza, anche a livello di immagine. Credo che in questi due anni di conoscenza della piazza, Setti e il dg Gardini l’abbiano capito. Vecchio e nuovo assieme, il passato per consolidare il futuro, modernità e non modernismo. Questo è il must: non ci si scappa.

NON SI RIPARTE DA ZERO

“Cambieremo molti giocatori”, ha confidato Sogliano a Vighini. Non mi stupisce, l’avevo preannunciato il 14 aprile: “Aria di rivoluzione” scrivevo. Del resto il ds non è uomo da nascondere la polvere sotto il tappeto e sa che molti petali della rosa attuale sono appassiti. Non inganni infatti il bel campionato di quest’anno: come ho più volte evidenziato i problemi ci sono stati, spesso celati dal fosforo di Romulo, dal genio di Iturbe e dai gol di Toni (senza dimenticare il talento di Jorginho per metà torneo, “solo” 22 punti senza di lui nel ritorno). Ed è ovvio che coi probabili addii dei due sudamericani – entrambi in rampa di lancio – e con un Toni più vecchio e privo dello stimolo del mondiale, è necessario ripensare da cima a fondo alla squadra.

Come? Partiamo da un presupposto: grazie alle cessioni eccellenti (Iturbe, Romulo e la seconda metà di Jorginho) il Verona si ritroverà un tesoretto di circa 20-25 milioni di euro, a cui vanno sommati i diritti tv. Non tutto verrà reinvestito nella squadra (c’è in ballo anche il centro sportivo di proprietà, il sogno di Setti), però è chiaro che si può andare sul mercato con una certa autorevolezza. I ruoli chiave dove il club spenderà saranno: un centrale difensivo, un centrocampista centrale e una prima punta (Toni o non Toni).

In difesa cambierà quasi tutto, eccetto Moras e Rafael, comunque a loro volta in discussione. Qui sarebbe il caso di puntare meno su sudamericani inesperti e ballerini e più sul “made in Italy” (comprendendo nella categoria anche gli stranieri con esperienza nel nostro campionato). Certo i nostri sono più difficili da reperire e spesso costano di più, tuttavia non vedo alternative: se com’è presumibile avremo meno qualità davanti, dovremo garantirci dietro. Parallelamente Sogliano, come ha fatto intuire nell’ultima puntata del “Vighini Show”, chiederà miglioramenti tattici nella fase difensiva di Mandorlini curata dal suo vice Bordin. Stop agli eccessivi arretramenti in fase di non possesso che creano precarietà e affanni negli uno contro uno e in marcatura.

A centrocampo bisogna uscire da un equivoco, che riguarda il ruolo chiave, cioè il regista basso, o metodista che dir si voglia. Jorginho era talmente forte che metteva d’accordo tutti, ma non è un mistero che Sogliano in quella zona del campo preferisca giocatori “di tocco”, tecnici e capaci di fare gioco, mentre Mandorlini abbia più nelle corde i mediani interditori. A meno che non arrivi uno davvero forte, sarebbe il caso di accontentare il mister, vista la delicatezza del ruolo. Poi è tassativo riconfermare Marquinho, il “collante” della fase offensiva.

Davanti per sostituire Iturbe si pescherà ancora tra i giovani talenti del Sudamerica, ma Sogliano non ha fretta, perché non vuole sbagliare. Ma è sul centravanti che, rimanga o meno Toni, il Verona spenderà e andrà sul sicuro. Anche qui serve pazienza, sappiamo che il mercato delle punte entra nel vivo nelle ultime due settimane di agosto.

Postilla: niente paragoni col Catania e il Bologna di quest’anno, retrocesse dopo il brillante campionato precedente e alcune dolorose cessioni. Per carità, le loro storie ci devono insegnare a rimanere sull’attenti, ma il Verona ha una solidità societaria e finanziaria nemmeno lontanamente paragonabile a quella di etnei e felsinei. Mettiamocelo in testa: si riparte, ma non da zero.

IL VERONA? MOLTO PIU’ DI UNA CLASSIFICA

“Col Napoli non è una partita come un’altra e sarebbe servito un altro atteggiamento, al di là di classifica, punti e di fine o non fine stagione”. Ieri sera al Vighini Show ho esordito così. Il calcio non è solo matematica, marketing o business, ma soprattutto senso evocativo e identitario (suggestioni di cui peraltro si nutre lo stesso marketing) e ci sono partite che hanno una loro narrazione e il cui significato prescinde da tutto il resto.

Checché ne dicano i buonisti d’accatto, i quali blaterano di modello inglese (brividi sulla schiena, Oltremanica hanno nascosto la polvere sotto il tappetto ed eliminato la cosiddetta working class dagli stadi), di “stadi-teatro”, di curve plastificate stile commodore 64 e altre mostruosità simili, il calcio è senso di appartenenza, fazione, rivalità. Popolare e interclassista per definizione, esso è permeato di contrapposizioni del tutto naturali: odio (sportivo s’intende) contro amore, amico contro nemico ecc.

Come già accaduto altre volte (all’andata col Chievo, o lo stesso Napoli e con l’Inter al Bentegodi) in questa bellissima stagione, il Verona ha prestato il fianco a un rilassamento psicologico che, riverberatosi in campo, si è tuttavia alimentato di vigilie troppo morbide e mielose. Ricordate il pareggio impresa con la Juventus? O la vittoria contro il Milan di Balotelli? O il derby di ritorno? Ma anche le sconfitte combattute con le stesse Juve e Milan a casa loro? Quelle domeniche (o quei sabati) ci siamo emozionati non per questioni di classifica, ma per la storia intrisa di rivalsa e rivalità che quelle partite ci suggerivano, per le suggestioni che evocavano. Per le stesse ragioni la sconfitta di domenica sera e le altre succitate ci hanno lasciato un filo di amarezza.

E’ un po’ il discorso dei “40 punti”. Nessuno pretendeva l’Europa, ma solo di sognarla e inseguirla, e non per fregole tecniche o improvvise ambizioni (che lasciamo volentieri a quei club e a quei tifosi che pensano che il senso del calcio sia solo primeggiare), ma per uno slancio romantico, per costruirci il nostro romanzo. L’immaginario di noi tifosi si nutre di sfide: scudetto e gloriosi anni ’80 a parte, ci ricordiamo più dei mediocri anni di Mutti (non me ne voglia il buon Lino), o degli spareggi di Terni, Reggio Calabria, Busto Arsizio, Salerno?

La società, Mandorlini e i ragazzi ci hanno provato a inseguire il sogno (chi non ci crede vada a rivedersi le facce di Setti, Sogliano e del mister all’Olimpico dopo il “furto” di Mazzoleni), tuttavia la sensazione è che abbiano cominciato a farlo troppo tardi. Grida vendetta quel mese di marzo post “40 punti”, quelle 4-5 partite un po’ così…

La speranza è che il prossimo anno, comunque vada (che ci si ripeta, che si navighi a metà classifica, o che si lotti per la salvezza non importa), si tenga sempre tirato il filo della tensione. Perché vestire gialloblu va oltre a punti, classifiche e obiettivi. Vestire gialloblu va oltre a questo calcio moderno sparagnino e calcolatore.

Detto questo, che scrivo in ottica positivista come sprone per il futuro, dobbiamo fare i complimenti a società, allenatore e squadra. Sento in giro: “Stagione irripetibile”. E chi l’ha detto?

 

GRAZIE VERONA!

Va bene va bene così, cantava Vasco. Quel pezzo era più una rassegnata e fatalistica scrollata di spalle, che un gioioso accontentarsi. Ho colto la stessa delusa rassegnazione nella parole di Mandorlini ieri in sala stampa dopo Verona-Udinese. Più che l’orgoglio per il brillante campionato della sua squadra, il tecnico mostrava rammarico per l’obiettivo sfumato dell’Europa League: “Siamo contenti per quanto fatto, ma è ancora troppo fresca la delusione, permettetemi quindi di essere un po’ così…”, il suo esordio davanti ai microfoni.

Quindi oggi anche noi scriviamo “va bene va bene così”, ma a caldo (e solo a caldo) sappiamo che va bene a metà. L’occasione era ghiotta ed è sfumata per gli episodi di Roma lunedì e qualche punto di troppo lasciato per strada.

Il “furto con scasso” (per la sua grossolanità) di Mazzoleni ancora si faceva sentire ieri in campo. Mandorlini alla fine l’ha confermato: “Se avessimo vinto a Roma, avremmo giocato con un altro spirito oggi”. Invece si è visto un Hellas scarico, come se la benzina fosse finita, arroccato sulla difensiva e a maglie larghe nella propria area di rigore. Un Verona che ha confermato quanto diciamo dall’inizio: costruito per offendere e non difendersi, dà spettacolo quando impone il suo gioco, mentre se si “abbassa” troppo prende paga, per caratteristiche e anche per il livello non eccelso dei suoi difensori.

Peccato dunque, ma resta l’orgoglio di essersi riaffermati a grandi livelli dopo tanti anni. Adesso verrà il difficile, confermarsi, ma la sfida sarà anche affascinante. Ma per il futuro c’è tempo, ora digeriamo la delusione e sorridiamo per quanto il Verona ci ha regalato. Troppi anni di retrovie, pugni nei denti e foto scolorite in soffitta, quest’anno ci siamo ripresi il palcoscenico e il voluttuoso piacere di attimi di superba gioia. Grazie Verona!

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FURTO CON SCASSO

Furto con scasso. Altro che “Malox per pettinarci lo stomaco” (cit.), qui brucia tutto e non si pettina un bel niente. Quel rigore alla Lazio grida vendetta. Senso di impotenza, pugni all’aria, nervi a fior di pelle. Sogliano si morde la lingua e chissà quanto gli deve costare. Mandorlini, imbufalito con l’arbitro Mazzoleni, sfiora la rissa con Reja: interviene Gardini che se lo porta via per evitargli guai peggiori (o forse li evita Reja). Mazzoleni, angosciato e remissivo come un bambino scoperto a rubare la caramella, guadagna l’uscita: ha timbrato il cartellino e compiuto il suo dovere.

Italia del Gattopardo. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, spiegava arguto e spregiudicato Tancredi Falconeri nel romanzo di Tomasi di Lampedusa. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’azzecca”, sosteneva Belzebù Andreotti, che di cose maligne se ne intendeva.

Lazio-Verona per il Palazzo doveva finire pari e pari è stato. A cosa è servito Moggi? Perché l’ex arbitro De Santis è stato radiato? L’avete mai letto il corrosivo e sarcastico Daniel Pennac? Inventò il signor Malaussène, di professione capro espiatorio. Designare chi si prende le colpe e sacrificarlo è un modo per fingere di fare pulizia e nel frattempo “gattopardescamente” riciclarsi e combinarne di peggio.

Il calcio non è pulito, non lo è mai stato e Genny ‘a Carogna stavolta non c’entra. Lo sporca anche (soprattutto?) chi non ha tatuaggi, ma porta la cravatta e copiosi sorrisi di circostanza. Signori in abiti eleganti che la faranno franca, fino al prossimo scandalo, fino al prossimo capro espiatorio, fino alla prossima rivoluzione del “tutto cambi perché tutto rimanga com’è”. E mentre noi quel giorno alzeremo le spalle rassegnati e senza stupore, un nugolo di squali complici si mostreranno verginelle violate scandalizzate, in attesa di servire il prossimo Gattopardo. E’ il “circo mangione” (cit.), rutilante e falso, eterno e trasformista. Venghino signori venghino…

P.S. Grazie Verona, società, staff tecnico e giocatori: ci avete fatto divertire e sognare!

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