COSA MANCA?

Ricordate l’adagio del vecchio Trap? Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Ecco, ogni giudizio sul Verona è volutamente sospeso, anche se la squadra vista ieri sera ha già una sua fisionomia. Ma il calciomercato è ancora aperto e Sogliano sta lavorando su obiettivi che – a leggere i nomi – non sarebbero solo ritocchi all’esistente. Si cerca un giocatore per reparto, forse addirittura due in attacco. Come dicevamo, mica pizza e fichi. Certo, mancano pochi giorni alla Coppa Italia e meno di due settimane all’esordio in campionato, quindi qualche considerazione qua e là è legittima.

In attesa dei rinforzi, Mandorlini ha già trovato grosso modo l’undici titolare con cui iniziare la stagione. Con la Cremonese credo non si discosterà troppo dalla squadra vista ieri nel primo tempo con lo Shackhtar, con Obbadi ripiegato temporaneamente davanti alla difesa per le squalifiche di Tachtsidis e Donati, e Christodoulopoulos interno destro. A Bergamo invece potremmo vedere Taxi riprendere il suo posto da metodista, con l’ex Monaco rimesso interno e Christodoulopoulos nel tridente a sinistra. E, ovviamente, l’inserimento in difesa del tanto atteso Rafa Marquez. Ed è questo il copione tattico che ha più convinto Mandorlini sinora, come ha ammesso lo stesso tecnico ieri sera: “Lazaros lo preferisco nel tridente, Obbadi davanti alla difesa non ha mai giocato”.

Certo, manca ancora qualcosa. Tutti indicano la mezzapunta che salti l’uomo. Il fu Iturbe per intenderci. Vero, davanti siamo un po’ carenti in imprevedibilità e Chanturia non ha passato l’esame. Qualcuno lì arriverà (Lopez, Evangelista, forse un sorpresone). Eppure la vera lacuna a mio avviso è l’assenza di un vice Toni all’altezza, che possa anche giocare al suo fianco. Insomma, il Paulinho che avrebbe dovuto essere. Nené (per ora) non convince e pur augurando lunga vita al bomber di Pavullo, che se sta bene è ancora il numero uno, il gioco di Mandorlini passa per l’attaccante centrale ancor di più che per gli esterni d’attacco. Tradotto: se dovessi spendere lo farei lì.

Altro perno nel 4-1-4-1 mandorliniano è il centrocampista centrale. Tachtsidis è in progresso, ma il suo apporto non è ancora sufficiente. E Donati, non me ne voglia, pare l’ombra del giocatore che a vent’anni passò a suon di miliardi al Milan. Spero che Taxi esploda, ma in quel ruolo, per sicurezza, l’asticella va alzata, non con un fenomeno, basta un giocatore di categoria.

Attenzione, gli appunti che muovo sono legati a quello che è intimamente l’obiettivo della società: non solo non retrocedere, ma ripetere il campionato dello scorso anno e consolidarsi come media realtà del calcio italiano (quindi decimo posto finale, colonna sinistra della classifica). Perché la squadra, già così, è sufficientemente competitiva per non arrivare tra le ultime tre. Ma Setti, mi pare di capire, non è uomo da accontentarsi di una risicata salvezza.

IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE?

Quelli che va sempre tutto bene e “basta solo qualche ritocco”. Quelli invece che vedono nero perché, a loro dire, “hanno comprato degli scarti”. Quelli che… a prescindere, come diceva Totò. In mezzo… i fatti, questi sconosciuti. Come ho scritto una settimana fa, il Verona è una squadra ancora a metà, cioè in costruzione, eppure sta cominciando a delinearsi un gruppo, una spina dorsale. Ne ho avuto conferma ieri a Trento. L’impressione? Al momento siamo una buona rosa (con un parco riserve migliore rispetto alla stagione scorsa), ma una cattiva squadra (troppe caselle mancanti tra i titolari).

Sogliano sinora ha operato soprattutto per rinforzare le seconde linee, non trascurando contestualmente, ove possibile, di piazzare qualche colpo di rilievo. Tre in particolare: Obbadi e Lazaros, mezze ali in grado di assemblare insieme un centrocampo più tecnico e imprevedibile rispetto allo scorso anno; e Luna, terzino sinistro molto offensivo, considerato prossimo al salto di qualità. E gli altri? Scommesse intriganti (Valoti, Gollini e Zampano, ma anche Tachtsidis), incognite (Martic) e comprimari di categoria (Rodriguez, Nené e Ionita). E questo, è chiaro come il sole, non basta.

Rimangono infatti delle falle aperte in alcuni ruoli chiave. Servono 4-5 innesti. Uno o due esterni di fantasia (“qualche calciatore in grado di darci imprevedibilità” diceva ieri Mandorlini) che sostituiscano Iturbe e Marquinho, pur non volendo sminuire Gomez (che i suoi gol li farà) e Jankovic. Un terzino destro. Un forte centrale difensivo, che sia il punto di riferimento per uno tra “Superman” Moras (un abbraccio al fratello e alla famiglia), Marques e Rodriguez. E un mediano davanti alla difesa, perché lì il solo Tachtsidis non basta. Taxi a Verona può consacrarsi e questo è l’auspicio, ma ad oggi in serie A rimane un’incompiuta e il suo – è bene sottolinearlo – è il ruolo più importante della squadra (la partenza di Jorginho è sempre lì a ricordarcelo).

Sogliano sa e agisce, e infatti sta trattando giocatori “che contano” in tutti i reparti. Rafa Marquez per la difesa, il centromediano Susic e il fantasista Nico Lopez sono nomi di spessore e noti da tempo. Magari non saranno loro a vestire il gialloblu, forse ne arriveranno altri, poco importa. Quei nomi danno l’idea della fascia di mercato a cui si sta rivolgendo il Verona: quella di un club di medio livello che punta a un campionato tranquillo e non certo a una salvezza al fotofinish con altre 5-6 squadre. L’irrequietezza del ds (“non mi accontento di comprare tanto per fare, ma voglio portare qui chi dico io”) e la malcelata smania di Mandorlini (“sappiamo dove dobbiamo intervenire”) si spiegano così. Che il meglio debba ancora venire?

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IMPRESSIONI: UN VERONA A META’

Mutazioni genetiche. Una volta in ritiro valutavi il lavoro di un allenatore, oggi la preparazione è il termometro dei direttori sportivi. Vale per molte, vale anche per il Verona, che contro il Rubin Kazan si è mostrato (ancora) largamente incompleto.

Non giriamoci intorno: se la squadra è quella del primo tempo c’è da aver paura. La difesa Martic-Gonzalez-Marques-Agostini e il suo scudo protettivo Donati non danno garanzie. Ok sarà la pesantezza della preparazione, gli equilibri da trovare e bla bla bla… Sarà quel che sarà cantava la Rivale, ma il reparto arretrato titolare va totalmente rinnovato. Lo diciamo da tempo e lo confermiamo: nella rosa, ma come riserve, meritano di restare i soli Agostini, l’ancora assente Moras e forse Marques e Zampano. A parte Bianchetti, che va valorizzato e quindi mandato a giocare, gli altri non sembrano all’altezza. 

Meglio – decisamente – nella ripresa, cogli ingressi del bravo Tachtsidis (che si può rilanciare, ma che rimane pur sempre una scommessa in A, fossi Sogliano penserei comunque a un’alternativa) e soprattutto dell’ottimo Obbadi (ma si sapeva) schierato nel suo ruolo naturale di interno destro (da mediano sarebbe sacrificato) che l’ha rivelato nel Monaco. Mi è piaciuto Valoti, trequartista che permette di passare al 4-3-1-2, mentre Gomez è una conferma ovunque lo metti.

In attesa di Lazaros, interno sinistro di ruolo, ma all’occorrenza anche trequartista o esterno d’attacco, che sulla carta rimane sinora l’acquisto più importante con Obbadi, va rivisto Sala, che forse nel nuovo Verona potrebbe essere più convincente spostato qualche metro avanti, all’ala destra, ruolo dove potrebbe liberare la sua qualità migliore (la corsa) e dare anche quella copertura che un esterno d’attacco classico non garantirebbe, in modo da avvicinare alla porta l’altro esterno (la X titolare da comprare, o in alternativa Gomez). Rimandati per ora i tanto acclamati dalla stampa Chanturia e Jankovic, volenterosi ma un po’ impalpabili.

Insomma, work in progress e fiducia in Sogliano, ma metà Verona rimane da costruire.

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L’AFFARE ITURBE E IL VERONA CHE VERRA’…

Iturbe alla Roma, sospiro di sollievo in casa Forrester: Beautiful torna a essere la telenovela principe. Dieci milioni di euro il guadagno netto del Verona, che ha comprato il talento argentino qualche settimana fa dal Porto per 15 milioni e l’ha rivenduto ieri a circa 25 milioni (22 milioni più 2,5-3 di bonus su standard minimi). Queste le cifre di un’operazione complessiva che s’aggira (intermediazioni comprese) sui 28,5 milioni di euro.

Non male per un club di medio livello che non ha la forza contrattuale di una grande società; questo ricordiamolo sempre, perché ho letto e sentito qualche lamentela di troppo tipo “ma dicevano che a meno di trenta non lo cedevano” ecc.. Alzare il prezzo, da che mondo è mondo, in qualsiasi trattativa è un escamotage psicologico del venditore (viceversa, chi compra cerca di abbassare): il Verona ha sempre chiesto 30 per ottenere almeno 25 e così alla fine è stato. Non era scontato, visto la forza delle controparti (Roma, Juve ecc.) che hanno strategicamente puntato sull’offerta contrattuale al giocatore (dunque sulla sua volontà), su una stampa amica e sulla necessità del Verona di vendere (l’Hellas al momento non può permettersi determinati ingaggi).

Adesso il Verona col “tesoretto” Iturbe (10 mln), quello di Donsah (2,5 mln), il prossimo di Romulo (4 mln?) e quello futuro di Jorginho (altri cinque milioni da incassare fra un anno alla definitiva risoluzione della comproprietà) può andare sul mercato con una certa autorevolezza. L’acquisto di Paulinho (6 mln) e di Lazaros (1,5 mln) e Tachtsidis (riscatto a 1,8 mln) sono la conferma che in via Belgio fanno sul serio. Certo, Sogliano sa che la squadra è ancora ampiamente incompleta: mancano un terzino destro e uno sinistro, almeno tre centrali difensivi, un mediano alter-ego di Tachsidis (Donati verrà ceduto), un trequartista titolare (Chanturia è in sospeso, Mattia Valoti parte come riserva) e un’altra punta da serie A che con Toni, Paulinho e Gomez completi il reparto. L’impressione, al momento, è che Sogliano stia allestendo una rosa più equilibrata (meno stelle, ma anche meno brocchi) ed esperta (giocatori già pronti) rispetto a un anno fa, e con Jacopo Sala, il portiere Pierluigi Gollini e lo stesso Valoti giovani da valorizzare. Obiettivi tecnici? Colonna sinistra della classifica e consolidamento tra i primi dieci club italiani.

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QUEI COLORI COSI’ POCO TRADIZIONALI…

Eccole le nuove maglie! Le aspettavo con ansia, perché – da che mondo è mondo – come diceva il mitico Manuel Fantoni-Angelo Infanti (rip) a uno costernato e intimidito Sergio Benvenuti-Carlo Verdone: “A Sè, l’abito fa er monaco, eccome se lo fa!”. E questa volta, a differenza dello scorso anno, non sono rimasto deluso. Come intimamente mi aspettavo (ma non speravo) le “Game Kit Collection” (sic) – ai miei tempi chiamate volgarmente e barbaramente magliette – per le tonalità dei colori scelti, non sono molto rappresentative della storia del Verona. Mi riferisco alla prima, che poi è quella che conta, col suo blu “navy” ben distante dal quel “royal” a cui la tradizione si è sempre più o meno avvicinata. Ma così va, è la globalizzazione bellezza, del mondo o del pallone poco importa.

Sono maglie studiate, che abbiamo voluto rendere alquanto personalizzate”, ha dichiarato Giovanni Gardini. Troppa grazia Sant’Antonio! Battute sdrammatizzanti a parte (non stiamo parlando della guerra nucleare, sia inteso), Gardini dal suo punto di vista (professionale) ha ragione: se una maglia la prendi da catalogo e le metti qualche stemma o il giallo nel colletto (cosa buona e giusta questa), tecnicamente diventa personalizzata, niente da dire. Ma il dg ci capirà se a nostro avviso sarebbe servito qualcosa in più, cioè disegnarne una “solo” per l’Hellas Verona. Perché non è stato fatto?

Aggiungo: Gardini pochi mesi fa aveva smentito che le maglie anticipate dalla Gazzetta dello Sport fossero quelle a cui stava lavorando la società. Anche in questo caso tecnicamente il dg ha ragione, le divise non sono uguali, tuttavia sono molto simili. Perché allora smentire con tanta decisione?

Sul web più di qualcuno ha scritto che la prima divisa richiama quella del Chievo per le maniche di colore diverso dal busto. In realtà la maglia del Verona ha le intere bande laterali che “staccano”, però mi domando: per evitare ogni equivoco, o timore di un beffardo contrappasso (dopo la polemica coi cugini sui simboli e colori) non sarebbe stato preferibile confezionarne una a tinta unita blu (lievemente più chiaro) coi bordini gialli? Diceva Steve Jobs, il cui culto è celebrato dagli imprenditori e manager di oggi: “La semplicità è più difficile da raggiungere rispetto alla complessità”. Quanto aveva ragione…

CHIEVOLANDIA: LA CADUTA DELL’ULTIMO TABU’

“Isola felice”, “miracolo”, “favola di quartiere”. Ricordate la retorica dei corazzieri mediatici sul Chievo in tutti questi anni? Quattro lustri a raccontare le gesta di un club considerato mosca bianca nel calcio frenetico, milionario e asettico del nuovo millennio. La trama giornalistica era semplice ed efficace: la società (la sola) “pane e salame” come “spot dell’altro calcio”,  avverso s’intende a quello dei “paperoni” (tutti gli altri, indistintamente); un angolo di mondo scevro di pressioni e (pur umanissime) invidie e gelosie. Insomma, a leggere i fiumi di inchiostro dedicati in tutti questi anni al club della Diga pareva di essere capitati – almeno a livello calcistico – nell’anarchica e immaginaria isola di Utopia di Tommaso Moro, fondata al suo interno da solidarietà, collettivismo individuale (e non ideologico) e amicizia.

Ma poi venne il giorno… Già, poi è arrivato il giorno in cui tutta questa solenne prosopopea si è sbriciolata in cinque minuti. Le dimissioni, avvolte nel mistero, di una figura storica come quella di Giovanni Sartori perlomeno hanno avuto il merito di mostrare il Chievo per quello che è e forse è sempre stato: una società come tutte le altre nei suoi pregi e nei suoi difetti, coi suoi talenti ma anche i suoi narcisismi, la sua organizzazione ma anche i suoi egoismi, dove si può condividere, ma anche litigare, sopportare e addirittura divorziare, perfino dall’artefice della scalata dalla C ai preliminari di Champions League.

L’addio di Sartori è, se vogliamo, la rottura dell’ultimo tabù della Chievolandia mai esistita (se non sui giornali). A chi in passato gli chiedeva del perché si fosse fermato così a lungo nella società della Diga, il ds spiegava: “Non mi vedo lontano da qui, me ne andrò solo se non mi vorranno più”. Parole eloquenti, probabilmente Sartori si è sentito messo da parte senza troppi complimenti. Del resto non succede in tutti i club, in tutte le aziende e in tutti gli uffici?

Piuttosto, finalmente spatinato dalla retorica della favola, per il Chievo comincia ora la sfida più difficile: continuare a fare calcio, ma  da “normali” anche agli occhi dell’opinione pubblica. E’ questa la vera rivoluzione, altroché.

I CALCIATORI? CONTA SOLO IL VERONA

I petroldollari arabi hanno sedotto Marquinho, così sul web leggo commenti poco simpatici nei confronti del centrocampista brasiliano. Eppure mi chiedo, quanti altri al suo posto avrebbero fatto diversamente? Qualcuno ha paragonato il “mercenarismo” dell’ex romanista alla fedeltà di Maietta, tuttavia il confronto non regge. Il buon Mimmo (che va ringraziato per quanto ci ha dato in questi quattro anni e che rimane una persona genuina al di là delle polemiche di questi giorni ) un’offerta del genere non l’ha ricevuta e ad oggi – in attesa di trovare una buona sistemazione per i suoi desiderata – la migliore soluzione per lui è rispettare il contratto che lo lega a Via Belgio. Giusto così, com’è giusta la scelta di Marquinho.

Attenzione, scrivo con l’inchiostro del disincanto, non con quello del mondo che vorrei, perché stiamo parlando di professionisti, sempre e comunque, anche nei casi più insospettabili. Professionista, non bandiera, fu Del Piero quando decise di rimanere alla Juventus in B, forte di un contratto plurimilionario che altrove non avrebbe trovato (era reduce da due anni da panchinaro); al di là di tutta la retorica che si fece all’epoca. Professionista è stato Hallfredsson a gennaio, quando prima del rinnovo contrattuale si è guardato intorno tirando un po’ la corda. Professionista è Iturbe, che attende con la pazienza di chi sa che – comunque vada – andrà a guadagnare di più su palcoscenici agonisticamente più importanti. Professionista è Romulo e lo è il suo procuratore che cerca di sfruttare il più possibile il valore di mercato attuale del suo assistito. Professionista è Prandelli, che nonostante le promesse e un tatuaggio lasciò Verona per un contratto col Venezia (non con la Juve, il Milan o l’Inter) e adesso si dimette da ct triplicando il suo ingaggio al Galatasaray. Professionista è Sogliano, che prima o poi al Milan andrà (ma intanto teniamocelo stretto!), e professionista è Mandorlini, il cui il legame con la città è vero, ma che se lo chiamasse una grande o un danaroso club straniero probabilmente faticherebbe a rifiutare. E professionisti sono, pur in situazioni di mercato opposte, sia Marquinho, che ha diritto a firmare con gli arabi, che Maietta, che a 32 anni ha piena ragione di voler aspettare una chiamata dalla A.

Perché ricordo questo banalissimo concetto? Perché credo serva a farci riflettere, intendo noi giornalisti e una parte dei tifosi. A volte non dovremmo cedere alle tentazioni omologanti, ma invece ispirarci al motto della curva sud “cambieranno i giocatori, il presidente e l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”. Oggi più che mai. Quindi basta isterie (buone o cattive) mediatiche su questo o quel giocatore, piuttosto concentriamoci sul patrimonio identitario (storia, maglia, simboli, colori, senso di appartenenza) che rappresenta il Verona Hellas. Gli onanismi da calciomercato, gli psicodrammi collettivi per l’addio del campione di turno, le ipertrofie all’americana del numero di maglia da ritirare, i cori per tizio, caio o sempronio lasciamoli ad altre città, ad altre squadre e ad altri tifosi. Perché, come declama un altro coro, l’unico campione è l’Hellas Verona. Il resto è avanspettacolo.

CARO-ABBONAMENTI? RIAPRITE CURVA NORD E PARTERRE

Il mio Mondiale in un’immagine: Parolo che si scalda nell’intervallo di Italia-Uruguay. Un riflesso condizionato e… sono scattato urlante: “Remondina cambia!”. Certi amori non finiscono cantava Venditti; be’ caro Antonello nemmeno certi malinconici ricordi. Quel Verona di serie C, che ora sembra lontano anni luce, era povero e con dei limiti, il suo allenatore bravino e precisino, insomma troppo “ino”, cioè puntuale nella didattica ma senza genio e grande talento, eppure quell’anno sfiorammo i playoff promozione e rivivemmo piccole speranze sepolte da tempo (il calcio come passione popolare vive di grandi slanci, traguardi raggiunti o solo lambiti, storie di vinti e vincenti, in quale categoria poco conta). E appunto il vituperato Remondina, uomo onesto e (troppo) perbene per i tempi che corrono, si barcamenò tra mille incognite societarie (il rischio fallimento, la morte di Arvedì e il passaggio di proprietà a Martinelli con la paventata fusione). Voglio dire, non sarà stato il più grande allenatore che abbiamo avuto il gentil Remo, e vederlo allacciare alla vita la maglia della tuta come un improvvisato escursionista sul Carega non lo faceva brillare per carisma e immagine; e poi non attaccava i giornalisti e quindi non li intimoriva, e men che meno non regalava loro titoli e soffiate, ma il Depardieu di Rovato credo debba essere un tantino rivalutato: in fin dei conti ha tenuto a galla la barca facendo il lavoro sporco in un momentaccio della nostra storia, perdendo poi il campionato successivo con una squadra sopravvalutata da dirigenti (vero Bonato?) e mass media e la “guerra” interna in società. Ben più fallimentari di lui i meglio remunerati Reja, Cagni, Salvioni, Colomba e Giannini.

“Remondina cambia” del resto è un sempreverde cavallo di battaglia che potremmo adattare all’attuale calcio italiano, perché se Parolo – con tutto il rispetto – può dire di aver giocato un Mondiale significa che il nostro football è in stato comatoso e servirebbe una rivoluzione. Certo, se la soluzione è il ticket Macalli-Lotito come si prospetta, be’ altro che coma, prepariamoci a celebrare un bel funerale. I miei candidati sono Andrea Abodi e Damiano Tommasi, sebbene quest’ultimo un giorno lo vorrei nei quadri dirigenziali del Verona con un incarico simile a quello di Facchetti nell’Inter di Moratti. Chissà…

Il Verona ha aumentato i prezzi degli abbonamenti. Sicuramente la società avrà avuto le sue motivazioni, tra certosine ricerche di marketing e precisi indici statistici, ma io avrei preferito che la fedeltà dimostrata dai tifosi gialloblu in questi anni venisse riconosciuta con un gesto concreto. Più in generale, citando il mitico Lubrano, la domanda sorge spontanea: ma il calcio è (ancora) davvero di tutti? A Verona sì, a patto che il club (assieme al Comune proprietario dello stadio) riesca a far riaprire i settori popolari chiusi da una vita, cioè parte della curva nord e del parterre, vendendo poi i singoli biglietti a prezzi accessibili. Setti e Gardini – l’ho già detto in passato e lo ripeterò alla noia – nel giusto intento di dare managerialità e promuovere il brand non facciano l’errore di pensare al calcio solo come… managerialità e brand appunto. La migliore mossa di marketing, che di riflesso tirerebbe tutte le altre, è uno stadio pieno in tutti i settori, come in Germania. E Setti non ha detto più volte di ispirarsi al modello tedesco?

SETTI, IL FUTURO E L’IDENTITA’

In principio fu Ranzani. Mi divertivo a chiamarlo così, Maurizio Setti, nei primi tempi da presidente del Verona. Era un modo ironico per parodiare i tic e i vezzi dell’industriale di Carpi, tipico self-made man della provincia italiana, che mi ricordava l’imprenditore di Cantù un po’ smargiasso e un po’ rampante inventato da dj Angelo a Radio Deejay e portato sugli schermi Mediaset da Albertino a Zelig.

Ora il ranzanismo è bypassato: a distanza di due anni Setti ha dimostrato di essere persona sì esuberante e visionaria, eppure terribilmente concreta e – a differenza delle apparenze iniziali – poco incline a raccontarla e a raccontarcela.

Lontano dalla logica da padre padrone del “ghe pensi mi”, Setti ha creato una struttura moderna e orizzontale, divisa per aree di competenza dove la figura di riferimento delegata ha un potere autonomo. E i risultati sportivi e manageriali sono sotto gli occhi di tutti, anche del partito dei diffidenti che due anni fa spaccava il capello in quattro “perché Setti non è veronese” (come se questa fosse la discriminante per essere o non essere un buon presidente). Io all’epoca scrissi provocatoriamente “per fortuna”, perché così non saremmo stati fagocitati da certe logiche salottiere e gelosie di bottega tipiche della provincia.

E così è stato: Setti, dal punto di vista della gestione, ha sprovincializzato il club, slegandolo dal paternalismo ambiguo (eufemismo) di Pastorello, da quello ingenuo di Arvedi e da quello buono di Martinelli. Il suo obiettivo, neanche tanto celato, è espandere il brand fuori dalla provincia, dando al Verona un’ immagine moderna, e patrimonializzare la società (da qui l’Hellas Store e l’ambizione del centro sportivo per il settore giovanile). Nell’idea presidenziale il Verona deve vivere di luce propria e autofinanziarsi (perché come Setti sovente ricorda “non sono uno sceicco e l’epoca dei mecenati è finita”). In tal senso i diritti tv sono determinanti, ma non devono essere la sola voce di bilancio: il resto lo fanno la valorizzazione dei calciatori, del vivaio e il merchandising.

L’importante è che nell’intento di sprovincializzare (intento necessario se vuoi restare a galla nel calcio ahimè globalizzato di oggi) si salvaguardi sempre la cultura identitaria del Verona Hellas, un’anomalia positiva nel panorama calcistico italiano, una risorsa e, aggiungerei, anche un anticorpo all’omologazione che può fare la differenza, anche a livello di immagine. Credo che in questi due anni di conoscenza della piazza, Setti e il dg Gardini l’abbiano capito. Vecchio e nuovo assieme, il passato per consolidare il futuro, modernità e non modernismo. Questo è il must: non ci si scappa.

NON SI RIPARTE DA ZERO

“Cambieremo molti giocatori”, ha confidato Sogliano a Vighini. Non mi stupisce, l’avevo preannunciato il 14 aprile: “Aria di rivoluzione” scrivevo. Del resto il ds non è uomo da nascondere la polvere sotto il tappeto e sa che molti petali della rosa attuale sono appassiti. Non inganni infatti il bel campionato di quest’anno: come ho più volte evidenziato i problemi ci sono stati, spesso celati dal fosforo di Romulo, dal genio di Iturbe e dai gol di Toni (senza dimenticare il talento di Jorginho per metà torneo, “solo” 22 punti senza di lui nel ritorno). Ed è ovvio che coi probabili addii dei due sudamericani – entrambi in rampa di lancio – e con un Toni più vecchio e privo dello stimolo del mondiale, è necessario ripensare da cima a fondo alla squadra.

Come? Partiamo da un presupposto: grazie alle cessioni eccellenti (Iturbe, Romulo e la seconda metà di Jorginho) il Verona si ritroverà un tesoretto di circa 20-25 milioni di euro, a cui vanno sommati i diritti tv. Non tutto verrà reinvestito nella squadra (c’è in ballo anche il centro sportivo di proprietà, il sogno di Setti), però è chiaro che si può andare sul mercato con una certa autorevolezza. I ruoli chiave dove il club spenderà saranno: un centrale difensivo, un centrocampista centrale e una prima punta (Toni o non Toni).

In difesa cambierà quasi tutto, eccetto Moras e Rafael, comunque a loro volta in discussione. Qui sarebbe il caso di puntare meno su sudamericani inesperti e ballerini e più sul “made in Italy” (comprendendo nella categoria anche gli stranieri con esperienza nel nostro campionato). Certo i nostri sono più difficili da reperire e spesso costano di più, tuttavia non vedo alternative: se com’è presumibile avremo meno qualità davanti, dovremo garantirci dietro. Parallelamente Sogliano, come ha fatto intuire nell’ultima puntata del “Vighini Show”, chiederà miglioramenti tattici nella fase difensiva di Mandorlini curata dal suo vice Bordin. Stop agli eccessivi arretramenti in fase di non possesso che creano precarietà e affanni negli uno contro uno e in marcatura.

A centrocampo bisogna uscire da un equivoco, che riguarda il ruolo chiave, cioè il regista basso, o metodista che dir si voglia. Jorginho era talmente forte che metteva d’accordo tutti, ma non è un mistero che Sogliano in quella zona del campo preferisca giocatori “di tocco”, tecnici e capaci di fare gioco, mentre Mandorlini abbia più nelle corde i mediani interditori. A meno che non arrivi uno davvero forte, sarebbe il caso di accontentare il mister, vista la delicatezza del ruolo. Poi è tassativo riconfermare Marquinho, il “collante” della fase offensiva.

Davanti per sostituire Iturbe si pescherà ancora tra i giovani talenti del Sudamerica, ma Sogliano non ha fretta, perché non vuole sbagliare. Ma è sul centravanti che, rimanga o meno Toni, il Verona spenderà e andrà sul sicuro. Anche qui serve pazienza, sappiamo che il mercato delle punte entra nel vivo nelle ultime due settimane di agosto.

Postilla: niente paragoni col Catania e il Bologna di quest’anno, retrocesse dopo il brillante campionato precedente e alcune dolorose cessioni. Per carità, le loro storie ci devono insegnare a rimanere sull’attenti, ma il Verona ha una solidità societaria e finanziaria nemmeno lontanamente paragonabile a quella di etnei e felsinei. Mettiamocelo in testa: si riparte, ma non da zero.