VINCENTI MA NON CONTENTI

In serate così ti aggrappi ai maestri. Gianni Brera sosteneva che “il calcio è un mistero senza fine bello”, come le donne. In serate così ripensi a una vecchia frase di Benitez: “Vincere giocando bene sarebbe perfetto, altrimenti è sempre meglio vincere, perché dopo puoi sempre imparare”.

E il Verona ha vinto e questo solo conta. In attesa che impari (a giocare meglio), soprassediamo sul come. L’hanno visto tutti: gialloblu confusi, dal passo caduco e la testa pesante, monotematici nei soliti lanci per il solito Toni, pigri nell’adeguarsi sin da subito ai ritmi compassati del Palermo; spuntati e scarichi al punto che Saviola sembrava quasi la carta della disperazione. Ma è proprio in quel frangente, mentre El conejo s’apprestava ad entrare, che è apparso in tutta la sua meravigliosa essenza il “mistero” breriano: lancio abbastanza innocuo di Tachtsidis, forse il peggiore in campo fin lì, incertezza di Sorrentino e autogol di Pisano. 2-1 e Saviola che si è riaccomodato in panchina.

Insomma, vittoria tanto rocambolesca quanto gli episodi che l’hanno originata. Ma non sottilizzerei: alla seconda di campionato, con una sosta di mezzo per le nazionali, qualche alibi va pure concesso. Non fosse altro che la partita è stata brutta come poche da entrambe le parti e questo qualcosa vorrà pur dire. Non fosse altro che – a proposito di Benitez – squadroni più blasonati e ricchi hanno pure fatto peggio. Però è chiaro che domenica prossima, se vuoi uscire indenne da Torino, serve ben altra prestazione. E forse pure formazione, perché quella di ieri non mi ha convinto.

Viene in mente Tachtsidis, certo. Il sottoscritto lo scrive da più di un mese che il greco è una scommessa (visto il curriculum in serie A) in un ruolo delicatissimo. Eppure il ragazzo merita ancora delle possibilità (non infinite sia chiaro) per due motivi: qua e là ha fatto intravedere qualche lampo e non è al 100% delle condizione. Rimane il dubbio tra l’altro che Taxi potrebbe rendere di più con al fianco il connazionale Lazaros e non con Hallfredsson. Già Christodoulopoulos, l’altro neo della serata. Anche lui forse si porta dietro qualche scoria atletica post Mondiale, tuttavia esterno alto non è propriamente il suo ruolo per passo e caratteristiche (tende ad accentrarsi e rifinire più che saltare l’uomo) e l’incongruenza risulta ancora più marcata se dietro di lui agiscono l’onesto Hallfredsson, coi suoi pregi e difetti di sempre, il generoso ma offensivamente impalpabile Agostini (un cross dal fondo in 90 minuti) e dall’altra parte Gomez, volenteroso ma a cui non puoi chiedere di fare la differenza alla voce “fantasia”. Ecco allora che la frittata è servita: Verona troppo prevedibile.

Teniamoci dunque stretta la vittoria, con una considerazione finale: quattro punti in due partite, ciononostante qua e là affiora un filo di malcontento. Strano, ma non troppo: quest’anno le aspettative sono maggiori.

BELLA SENZ’ANIMA

Tutto senza allegria, senza una lacrima”. No emotions, è il calcio di oggi. Anzi forse il football moderno, a differenza della cocciantiana “Bella senz’anima”, non è neppure bello (partite imbarazzanti nella prima giornata di campionato); ma l’anima, questo è sicuro, se l’è venduta al diavolo. Il resto è venuto di conseguenza, trasformando uno sport in un marchio (quasi) fine a se stesso. Nostalgia canaglia di chi ha vissuto gli anni ’80 e ’90? Forse. Snobismo a metà tra disincanto e rassegnazione? Probabile. Eppure, credo, ci sia anche qualcosa che va oltre l’inflazionato filone del “si stava meglio quando si stava peggio”.

Chi scrive sa benissimo che in passato non era tutto romanticismo, anzi. L’ombra del doping negli anni ’70, il Totonero del 1980, i due punti a vittoria che spesso erano la molla per accomodare diverse partite in un pari (il buffoniano “meglio due feriti che un morto” ante litteram), dirigenti già allora “chiacchierati” quando Moggi era solo un allievo di Italo Allodi, i ritmi blandi di gioco e le eterne manfrine in campo.

Ma c’è una differenza decisiva: in passato il business, per quanto importante, rimaneva comunque e sempre un passo indietro rispetto allo sport e all’agonismo; e la corruzione era in un certo senso “naif”, paternalistica, cioè frutto di iniziative individuali e di sistemi quasi arcaici se non improvvisati. A rileggere adesso “Nel fango del dio pallone” di Carlo Petrini, che spiega il sistema delle scommesse a fine anni ’70, viene quasi da sorridere confrontandolo con quanto è emerso dagli scandali degli ultimi anni.

Oggi invece il business prevarica totalmente la sfera sportiva, che anzi sembra quasi un impiastro, una convitata da tollerare giusto per mantenere le apparenze. E’ questo il passaggio determinante: gli affari da dignitosi e legittimi comprimari sono divenuti gli arroganti protagonisti, anzi gli “one man show” di un sempre più delirante monologo. Comandano le pay tv e i grandi sponsor, presidenti e dirigenti sono solo controfigure che (felicemente) si adeguano.

Così cambiano gli usi e i costumi, le priorità, e persino le parole. Succede allora che un termine commerciale come “brand” venga applicato tristemente a un club sportivo senza che ci si renda conto di quanto grottesca sia la cosa. La parola “immagine” è tutto e dappertutto, ma John Lennon purtroppo non c’entra. Identità e appartenenza sono solo concetti di retroguardia per vecchi tromboni nostalgici. Le multinazionali – della tv o dell’abbigliamento poco importa – si sono prese tutto e omologano tutto, ché ormai non si capisce più chi è chi. Le interviste e il racconto giornalistico sono specie in via d’estinzione, tutto viene racchiuso e pianificato in inutili e stantie conferenze stampa che non dicono niente. Il resto è gossip. Il resto sono (scadenti) recite di attorucoli (quasi) tutti con le stesse pettinature, le stesse cuffie, gli stessi tatuaggi, le stesse donne e, nel pre e post partita, le stesse gravi e seriose espressioni da entrata e uscita in sala operatoria (ma giocano a calcio od operano a cuore aperto?). Il resto sono le facce grigie come i loro completi sartoriali e mai sorridenti di dirigenti in poco geniale parata. Il resto sono giornalisti specializzati in calciomercato – cioè niente, quindi tutto in quest’epoca – per 365 giorni l’anno, cantori del calcio virtuale, un po’ come se qualcuno ci volesse convincere che scopare su internet è più bello.

Infine ci sono i tifosi, trattati come polli da batteria, consumatori da blandire e mungere, da sballottare con partite in giorni e orari sempre più improbabili e – se è il caso – da punire con regole e sanzioni demenziali, in nome di un politicamente corretto oramai surreale quanto inutile (si puniscono i cori dentro lo stadio, ma poi le vere tragedie succedono fuori, vedi Raciti a Catania e Ciro Esposito a Roma). Già i tifosi, gli ultimi giapponesi a difesa della sola verità del calcio. Verità popolare, col suo pathos e non il suo ethos, le sue rivalità e le sue differenze. I tifosi, spesso capri espiatori per lor signori, in realtà l’unica àncora di bellezza che può salvare il mondo (del calcio). Qualcuno lo metta in testa ai padroni del vapore, che con il loro bulimico business hanno intristito tutto. Qualcuno dica loro che la maionese sempre più impazzita che ci propinano sta andando a male. Qualcuno li avverta che la “bella senz’anima”, a forza di cambiare letti e uomini, è rimasta sola.   

CON SAVIOLA ADDIO VECCHIO MODULO?

Javer Pedro Saviola Fernàndez. Tanti nomi quante le maglie pesanti vestite in carriera. Alzi la mano chi lo aveva pronosticato. Si faccia avanti chi lo avesse anche solo pensato. La verità è che i colpi a sorpresa last minute di Sogliano ormai sono come i regali di Natale. Sai che ogni anno li troverai sotto l’albero, ma non sai cosa ci sarà dentro. Saviola non era mai stato accostato al Verona nella lunga sessione di mercato, idem Bonaventura, sfumato e passato al Milan solo per il rifiuto di Zaccardo di firmare per il Parma in cambio di Biabiany ai rossoneri. Anche le operazioni Iturbe (un anno fa) e Cacia (2012) furono un fulmine a ciel sereno. L’auspicio, ovviamente, è che Saviola possa ripetere le gesta dei suoi due predecessori “just in time”.

Di certo il blitz soglianesco è di quelli pesanti. Come il passato dell’ex enfant prodige di Buenos Aires, che a prima vista sembra più vecchio dei suoi non ancora 33 anni (li compie a dicembre) – quattro in meno di Toni e due di Rafa Marquez. Il fatto è che Saviola ha avuto un avvio di carriera (fin troppo) precoce. Nel ’99, a 17 anni e mezzo era già campione affermato nel River Plate. Due anni dopo, assieme al compagno (e coetaneo) D’Alessandro, erede designato di Maradona. Nel 2001 mister 50 miliardi – la cifra per cui venne ceduto al Barcellona – e campione del mondo under 20, nonché capocannoniere di quel mondiale. Poi tre anni straordinari nel Barca e il coronamento con l’Argentina dell’oro olimpico ad Atene 2004.

Saviola è stato grandissimo sino a lì, “solo” grande per altri due anni (2004-06) fra Monaco e Siviglia, dove vinse la Coppa Uefa con 5 gol in 12 partite. Poi si è “normalizzato”. Si fa per dire ovviamente, perché se fino al 2012 giochi ancora con Barcellona, Real Madrid e Benfica proprio normale non sei. E non sei normale neppure se nelle ultime due stagioni segni venti gol tra Liga e campionato greco e giochi 11 partite realizzando 3 reti in Champions League, dove prima sfiori la semifinale col Malaga (2012-13) e l’anno seguente i quarti con l’Olympiakos (2013-14).

Questo dà l’idea del giocatore che ha ingaggiato il Verona. Un ex fuoriclasse, più di Toni e di Rafa Marquez; ma tutt’ora campione, come Toni e Rafa Marquez. Un campione vero e non una scolorita figurina venuta a svernare come qualcuno ha impudicamente azzardato. 

L’incognita semmai è un’altra e, se vogliamo, non di poco conto. E’ possibile inserirlo nel tradizionale quadro tattico mandorliniano? Il 4-5-1 del tecnico ravennate, costruito su un unica punta e due esterni-tornanti, poco si addice alle caratteristiche di seconda punta di Saviola, che pure, al pari di Toni e Marquez, sarà difficile immaginare in panchina. Cambio di modulo in vista?

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COSA MANCA?

Ricordate l’adagio del vecchio Trap? Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Ecco, ogni giudizio sul Verona è volutamente sospeso, anche se la squadra vista ieri sera ha già una sua fisionomia. Ma il calciomercato è ancora aperto e Sogliano sta lavorando su obiettivi che – a leggere i nomi – non sarebbero solo ritocchi all’esistente. Si cerca un giocatore per reparto, forse addirittura due in attacco. Come dicevamo, mica pizza e fichi. Certo, mancano pochi giorni alla Coppa Italia e meno di due settimane all’esordio in campionato, quindi qualche considerazione qua e là è legittima.

In attesa dei rinforzi, Mandorlini ha già trovato grosso modo l’undici titolare con cui iniziare la stagione. Con la Cremonese credo non si discosterà troppo dalla squadra vista ieri nel primo tempo con lo Shackhtar, con Obbadi ripiegato temporaneamente davanti alla difesa per le squalifiche di Tachtsidis e Donati, e Christodoulopoulos interno destro. A Bergamo invece potremmo vedere Taxi riprendere il suo posto da metodista, con l’ex Monaco rimesso interno e Christodoulopoulos nel tridente a sinistra. E, ovviamente, l’inserimento in difesa del tanto atteso Rafa Marquez. Ed è questo il copione tattico che ha più convinto Mandorlini sinora, come ha ammesso lo stesso tecnico ieri sera: “Lazaros lo preferisco nel tridente, Obbadi davanti alla difesa non ha mai giocato”.

Certo, manca ancora qualcosa. Tutti indicano la mezzapunta che salti l’uomo. Il fu Iturbe per intenderci. Vero, davanti siamo un po’ carenti in imprevedibilità e Chanturia non ha passato l’esame. Qualcuno lì arriverà (Lopez, Evangelista, forse un sorpresone). Eppure la vera lacuna a mio avviso è l’assenza di un vice Toni all’altezza, che possa anche giocare al suo fianco. Insomma, il Paulinho che avrebbe dovuto essere. Nené (per ora) non convince e pur augurando lunga vita al bomber di Pavullo, che se sta bene è ancora il numero uno, il gioco di Mandorlini passa per l’attaccante centrale ancor di più che per gli esterni d’attacco. Tradotto: se dovessi spendere lo farei lì.

Altro perno nel 4-1-4-1 mandorliniano è il centrocampista centrale. Tachtsidis è in progresso, ma il suo apporto non è ancora sufficiente. E Donati, non me ne voglia, pare l’ombra del giocatore che a vent’anni passò a suon di miliardi al Milan. Spero che Taxi esploda, ma in quel ruolo, per sicurezza, l’asticella va alzata, non con un fenomeno, basta un giocatore di categoria.

Attenzione, gli appunti che muovo sono legati a quello che è intimamente l’obiettivo della società: non solo non retrocedere, ma ripetere il campionato dello scorso anno e consolidarsi come media realtà del calcio italiano (quindi decimo posto finale, colonna sinistra della classifica). Perché la squadra, già così, è sufficientemente competitiva per non arrivare tra le ultime tre. Ma Setti, mi pare di capire, non è uomo da accontentarsi di una risicata salvezza.

IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE?

Quelli che va sempre tutto bene e “basta solo qualche ritocco”. Quelli invece che vedono nero perché, a loro dire, “hanno comprato degli scarti”. Quelli che… a prescindere, come diceva Totò. In mezzo… i fatti, questi sconosciuti. Come ho scritto una settimana fa, il Verona è una squadra ancora a metà, cioè in costruzione, eppure sta cominciando a delinearsi un gruppo, una spina dorsale. Ne ho avuto conferma ieri a Trento. L’impressione? Al momento siamo una buona rosa (con un parco riserve migliore rispetto alla stagione scorsa), ma una cattiva squadra (troppe caselle mancanti tra i titolari).

Sogliano sinora ha operato soprattutto per rinforzare le seconde linee, non trascurando contestualmente, ove possibile, di piazzare qualche colpo di rilievo. Tre in particolare: Obbadi e Lazaros, mezze ali in grado di assemblare insieme un centrocampo più tecnico e imprevedibile rispetto allo scorso anno; e Luna, terzino sinistro molto offensivo, considerato prossimo al salto di qualità. E gli altri? Scommesse intriganti (Valoti, Gollini e Zampano, ma anche Tachtsidis), incognite (Martic) e comprimari di categoria (Rodriguez, Nené e Ionita). E questo, è chiaro come il sole, non basta.

Rimangono infatti delle falle aperte in alcuni ruoli chiave. Servono 4-5 innesti. Uno o due esterni di fantasia (“qualche calciatore in grado di darci imprevedibilità” diceva ieri Mandorlini) che sostituiscano Iturbe e Marquinho, pur non volendo sminuire Gomez (che i suoi gol li farà) e Jankovic. Un terzino destro. Un forte centrale difensivo, che sia il punto di riferimento per uno tra “Superman” Moras (un abbraccio al fratello e alla famiglia), Marques e Rodriguez. E un mediano davanti alla difesa, perché lì il solo Tachtsidis non basta. Taxi a Verona può consacrarsi e questo è l’auspicio, ma ad oggi in serie A rimane un’incompiuta e il suo – è bene sottolinearlo – è il ruolo più importante della squadra (la partenza di Jorginho è sempre lì a ricordarcelo).

Sogliano sa e agisce, e infatti sta trattando giocatori “che contano” in tutti i reparti. Rafa Marquez per la difesa, il centromediano Susic e il fantasista Nico Lopez sono nomi di spessore e noti da tempo. Magari non saranno loro a vestire il gialloblu, forse ne arriveranno altri, poco importa. Quei nomi danno l’idea della fascia di mercato a cui si sta rivolgendo il Verona: quella di un club di medio livello che punta a un campionato tranquillo e non certo a una salvezza al fotofinish con altre 5-6 squadre. L’irrequietezza del ds (“non mi accontento di comprare tanto per fare, ma voglio portare qui chi dico io”) e la malcelata smania di Mandorlini (“sappiamo dove dobbiamo intervenire”) si spiegano così. Che il meglio debba ancora venire?

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IMPRESSIONI: UN VERONA A META’

Mutazioni genetiche. Una volta in ritiro valutavi il lavoro di un allenatore, oggi la preparazione è il termometro dei direttori sportivi. Vale per molte, vale anche per il Verona, che contro il Rubin Kazan si è mostrato (ancora) largamente incompleto.

Non giriamoci intorno: se la squadra è quella del primo tempo c’è da aver paura. La difesa Martic-Gonzalez-Marques-Agostini e il suo scudo protettivo Donati non danno garanzie. Ok sarà la pesantezza della preparazione, gli equilibri da trovare e bla bla bla… Sarà quel che sarà cantava la Rivale, ma il reparto arretrato titolare va totalmente rinnovato. Lo diciamo da tempo e lo confermiamo: nella rosa, ma come riserve, meritano di restare i soli Agostini, l’ancora assente Moras e forse Marques e Zampano. A parte Bianchetti, che va valorizzato e quindi mandato a giocare, gli altri non sembrano all’altezza. 

Meglio – decisamente – nella ripresa, cogli ingressi del bravo Tachtsidis (che si può rilanciare, ma che rimane pur sempre una scommessa in A, fossi Sogliano penserei comunque a un’alternativa) e soprattutto dell’ottimo Obbadi (ma si sapeva) schierato nel suo ruolo naturale di interno destro (da mediano sarebbe sacrificato) che l’ha rivelato nel Monaco. Mi è piaciuto Valoti, trequartista che permette di passare al 4-3-1-2, mentre Gomez è una conferma ovunque lo metti.

In attesa di Lazaros, interno sinistro di ruolo, ma all’occorrenza anche trequartista o esterno d’attacco, che sulla carta rimane sinora l’acquisto più importante con Obbadi, va rivisto Sala, che forse nel nuovo Verona potrebbe essere più convincente spostato qualche metro avanti, all’ala destra, ruolo dove potrebbe liberare la sua qualità migliore (la corsa) e dare anche quella copertura che un esterno d’attacco classico non garantirebbe, in modo da avvicinare alla porta l’altro esterno (la X titolare da comprare, o in alternativa Gomez). Rimandati per ora i tanto acclamati dalla stampa Chanturia e Jankovic, volenterosi ma un po’ impalpabili.

Insomma, work in progress e fiducia in Sogliano, ma metà Verona rimane da costruire.

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L’AFFARE ITURBE E IL VERONA CHE VERRA’…

Iturbe alla Roma, sospiro di sollievo in casa Forrester: Beautiful torna a essere la telenovela principe. Dieci milioni di euro il guadagno netto del Verona, che ha comprato il talento argentino qualche settimana fa dal Porto per 15 milioni e l’ha rivenduto ieri a circa 25 milioni (22 milioni più 2,5-3 di bonus su standard minimi). Queste le cifre di un’operazione complessiva che s’aggira (intermediazioni comprese) sui 28,5 milioni di euro.

Non male per un club di medio livello che non ha la forza contrattuale di una grande società; questo ricordiamolo sempre, perché ho letto e sentito qualche lamentela di troppo tipo “ma dicevano che a meno di trenta non lo cedevano” ecc.. Alzare il prezzo, da che mondo è mondo, in qualsiasi trattativa è un escamotage psicologico del venditore (viceversa, chi compra cerca di abbassare): il Verona ha sempre chiesto 30 per ottenere almeno 25 e così alla fine è stato. Non era scontato, visto la forza delle controparti (Roma, Juve ecc.) che hanno strategicamente puntato sull’offerta contrattuale al giocatore (dunque sulla sua volontà), su una stampa amica e sulla necessità del Verona di vendere (l’Hellas al momento non può permettersi determinati ingaggi).

Adesso il Verona col “tesoretto” Iturbe (10 mln), quello di Donsah (2,5 mln), il prossimo di Romulo (4 mln?) e quello futuro di Jorginho (altri cinque milioni da incassare fra un anno alla definitiva risoluzione della comproprietà) può andare sul mercato con una certa autorevolezza. L’acquisto di Paulinho (6 mln) e di Lazaros (1,5 mln) e Tachtsidis (riscatto a 1,8 mln) sono la conferma che in via Belgio fanno sul serio. Certo, Sogliano sa che la squadra è ancora ampiamente incompleta: mancano un terzino destro e uno sinistro, almeno tre centrali difensivi, un mediano alter-ego di Tachsidis (Donati verrà ceduto), un trequartista titolare (Chanturia è in sospeso, Mattia Valoti parte come riserva) e un’altra punta da serie A che con Toni, Paulinho e Gomez completi il reparto. L’impressione, al momento, è che Sogliano stia allestendo una rosa più equilibrata (meno stelle, ma anche meno brocchi) ed esperta (giocatori già pronti) rispetto a un anno fa, e con Jacopo Sala, il portiere Pierluigi Gollini e lo stesso Valoti giovani da valorizzare. Obiettivi tecnici? Colonna sinistra della classifica e consolidamento tra i primi dieci club italiani.

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QUEI COLORI COSI’ POCO TRADIZIONALI…

Eccole le nuove maglie! Le aspettavo con ansia, perché – da che mondo è mondo – come diceva il mitico Manuel Fantoni-Angelo Infanti (rip) a uno costernato e intimidito Sergio Benvenuti-Carlo Verdone: “A Sè, l’abito fa er monaco, eccome se lo fa!”. E questa volta, a differenza dello scorso anno, non sono rimasto deluso. Come intimamente mi aspettavo (ma non speravo) le “Game Kit Collection” (sic) – ai miei tempi chiamate volgarmente e barbaramente magliette – per le tonalità dei colori scelti, non sono molto rappresentative della storia del Verona. Mi riferisco alla prima, che poi è quella che conta, col suo blu “navy” ben distante dal quel “royal” a cui la tradizione si è sempre più o meno avvicinata. Ma così va, è la globalizzazione bellezza, del mondo o del pallone poco importa.

Sono maglie studiate, che abbiamo voluto rendere alquanto personalizzate”, ha dichiarato Giovanni Gardini. Troppa grazia Sant’Antonio! Battute sdrammatizzanti a parte (non stiamo parlando della guerra nucleare, sia inteso), Gardini dal suo punto di vista (professionale) ha ragione: se una maglia la prendi da catalogo e le metti qualche stemma o il giallo nel colletto (cosa buona e giusta questa), tecnicamente diventa personalizzata, niente da dire. Ma il dg ci capirà se a nostro avviso sarebbe servito qualcosa in più, cioè disegnarne una “solo” per l’Hellas Verona. Perché non è stato fatto?

Aggiungo: Gardini pochi mesi fa aveva smentito che le maglie anticipate dalla Gazzetta dello Sport fossero quelle a cui stava lavorando la società. Anche in questo caso tecnicamente il dg ha ragione, le divise non sono uguali, tuttavia sono molto simili. Perché allora smentire con tanta decisione?

Sul web più di qualcuno ha scritto che la prima divisa richiama quella del Chievo per le maniche di colore diverso dal busto. In realtà la maglia del Verona ha le intere bande laterali che “staccano”, però mi domando: per evitare ogni equivoco, o timore di un beffardo contrappasso (dopo la polemica coi cugini sui simboli e colori) non sarebbe stato preferibile confezionarne una a tinta unita blu (lievemente più chiaro) coi bordini gialli? Diceva Steve Jobs, il cui culto è celebrato dagli imprenditori e manager di oggi: “La semplicità è più difficile da raggiungere rispetto alla complessità”. Quanto aveva ragione…

CHIEVOLANDIA: LA CADUTA DELL’ULTIMO TABU’

“Isola felice”, “miracolo”, “favola di quartiere”. Ricordate la retorica dei corazzieri mediatici sul Chievo in tutti questi anni? Quattro lustri a raccontare le gesta di un club considerato mosca bianca nel calcio frenetico, milionario e asettico del nuovo millennio. La trama giornalistica era semplice ed efficace: la società (la sola) “pane e salame” come “spot dell’altro calcio”,  avverso s’intende a quello dei “paperoni” (tutti gli altri, indistintamente); un angolo di mondo scevro di pressioni e (pur umanissime) invidie e gelosie. Insomma, a leggere i fiumi di inchiostro dedicati in tutti questi anni al club della Diga pareva di essere capitati – almeno a livello calcistico – nell’anarchica e immaginaria isola di Utopia di Tommaso Moro, fondata al suo interno da solidarietà, collettivismo individuale (e non ideologico) e amicizia.

Ma poi venne il giorno… Già, poi è arrivato il giorno in cui tutta questa solenne prosopopea si è sbriciolata in cinque minuti. Le dimissioni, avvolte nel mistero, di una figura storica come quella di Giovanni Sartori perlomeno hanno avuto il merito di mostrare il Chievo per quello che è e forse è sempre stato: una società come tutte le altre nei suoi pregi e nei suoi difetti, coi suoi talenti ma anche i suoi narcisismi, la sua organizzazione ma anche i suoi egoismi, dove si può condividere, ma anche litigare, sopportare e addirittura divorziare, perfino dall’artefice della scalata dalla C ai preliminari di Champions League.

L’addio di Sartori è, se vogliamo, la rottura dell’ultimo tabù della Chievolandia mai esistita (se non sui giornali). A chi in passato gli chiedeva del perché si fosse fermato così a lungo nella società della Diga, il ds spiegava: “Non mi vedo lontano da qui, me ne andrò solo se non mi vorranno più”. Parole eloquenti, probabilmente Sartori si è sentito messo da parte senza troppi complimenti. Del resto non succede in tutti i club, in tutte le aziende e in tutti gli uffici?

Piuttosto, finalmente spatinato dalla retorica della favola, per il Chievo comincia ora la sfida più difficile: continuare a fare calcio, ma  da “normali” anche agli occhi dell’opinione pubblica. E’ questa la vera rivoluzione, altroché.

I CALCIATORI? CONTA SOLO IL VERONA

I petroldollari arabi hanno sedotto Marquinho, così sul web leggo commenti poco simpatici nei confronti del centrocampista brasiliano. Eppure mi chiedo, quanti altri al suo posto avrebbero fatto diversamente? Qualcuno ha paragonato il “mercenarismo” dell’ex romanista alla fedeltà di Maietta, tuttavia il confronto non regge. Il buon Mimmo (che va ringraziato per quanto ci ha dato in questi quattro anni e che rimane una persona genuina al di là delle polemiche di questi giorni ) un’offerta del genere non l’ha ricevuta e ad oggi – in attesa di trovare una buona sistemazione per i suoi desiderata – la migliore soluzione per lui è rispettare il contratto che lo lega a Via Belgio. Giusto così, com’è giusta la scelta di Marquinho.

Attenzione, scrivo con l’inchiostro del disincanto, non con quello del mondo che vorrei, perché stiamo parlando di professionisti, sempre e comunque, anche nei casi più insospettabili. Professionista, non bandiera, fu Del Piero quando decise di rimanere alla Juventus in B, forte di un contratto plurimilionario che altrove non avrebbe trovato (era reduce da due anni da panchinaro); al di là di tutta la retorica che si fece all’epoca. Professionista è stato Hallfredsson a gennaio, quando prima del rinnovo contrattuale si è guardato intorno tirando un po’ la corda. Professionista è Iturbe, che attende con la pazienza di chi sa che – comunque vada – andrà a guadagnare di più su palcoscenici agonisticamente più importanti. Professionista è Romulo e lo è il suo procuratore che cerca di sfruttare il più possibile il valore di mercato attuale del suo assistito. Professionista è Prandelli, che nonostante le promesse e un tatuaggio lasciò Verona per un contratto col Venezia (non con la Juve, il Milan o l’Inter) e adesso si dimette da ct triplicando il suo ingaggio al Galatasaray. Professionista è Sogliano, che prima o poi al Milan andrà (ma intanto teniamocelo stretto!), e professionista è Mandorlini, il cui il legame con la città è vero, ma che se lo chiamasse una grande o un danaroso club straniero probabilmente faticherebbe a rifiutare. E professionisti sono, pur in situazioni di mercato opposte, sia Marquinho, che ha diritto a firmare con gli arabi, che Maietta, che a 32 anni ha piena ragione di voler aspettare una chiamata dalla A.

Perché ricordo questo banalissimo concetto? Perché credo serva a farci riflettere, intendo noi giornalisti e una parte dei tifosi. A volte non dovremmo cedere alle tentazioni omologanti, ma invece ispirarci al motto della curva sud “cambieranno i giocatori, il presidente e l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”. Oggi più che mai. Quindi basta isterie (buone o cattive) mediatiche su questo o quel giocatore, piuttosto concentriamoci sul patrimonio identitario (storia, maglia, simboli, colori, senso di appartenenza) che rappresenta il Verona Hellas. Gli onanismi da calciomercato, gli psicodrammi collettivi per l’addio del campione di turno, le ipertrofie all’americana del numero di maglia da ritirare, i cori per tizio, caio o sempronio lasciamoli ad altre città, ad altre squadre e ad altri tifosi. Perché, come declama un altro coro, l’unico campione è l’Hellas Verona. Il resto è avanspettacolo.