LA SVOLTA DI SETTI E GARDINI

Anche i Richelieu hanno un’anima. E’ sbiancato Giovanni Gardini l’altra mattina in sede quando gliel’hanno detto. Anche i “cardinali” sbottano, s’incazzano, tremano di fronte a un sopruso. Ansia, angoscia, impotenza: capita anche a chi ha fatto di un self control ai limiti dell’algidità la sua cifra stilistica. Cuore a duemila, groppo in gola e una prima sensazione di smarrimento. Ma come, due anni di lavoro buttati nel cesso per colpa di una negligenza (chiamiamola così) di tre ispettori federali? Ma come, si sarà chiesto il dg, da quando sono qui mi sbatto per riproporre il Verona a Palazzo con tutti i crismi del caso, a costo anche di qualche occhiataccia dei puristi, e poi tre burocrati zelanti del nulla mandano tutto in malora?

Metteteci anche il divieto alla trasferta di Napoli deciso 24 ore prima e potete capire cosa balenava per la testa dei dirigenti del Verona. Frustrazione, amarezza, senso di accerchiamento per le due ingiustizie a stretto giro. Gli stessi sentimenti della piazza. Gardini così si è trovato tra due fuochi. Da un lato i rapporti, le relazioni, il doroteismo del “nemici mai” di cui ha fatto un caposaldo esistenziale, convinto come fosse l’unica via possibile per ottenere il risultato. Dall’altro la rabbia sacrosanta dei tifosi. Gardini non ha avuto dubbi, troppo grossa ‘sto giro  l’angheria perpetrata. Troppo anche per lui, vecchio lupo di mare delle stanze dei bottoni. Così il nostro si è allentato il nodo della cravatta impeccabile fin dalla culla, ha smesso il gessato di alta sartoria e la camicia perfettamente  stirata, ha abbandonato i panni del “politico” ed è sceso in trincea a combattere in prima linea per difendere il fortino: cioè il Verona, l’identità e la sua diversità. Ed ecco dunque il “SOLI CONTRO TUTTI” del comunicato stampa, quello stesso “soli contro tutti” abiurato da Setti più di due anni fa nella conferenza stampa d’insediamento.

Non è un dettaglio. Non è una quisquìlia. E’ la fine di una politica: quella del Palazzo, di Milano (Lega Calcio) e di Roma (Figc) prioritari rispetto alla propria gente. E la fine di un’era: quella del compromesso sempre e comunque, dell’immagine a tutti i costi. E’ la svolta. Sai che vi dico? Spero riaprano la curva, per crederci ancora in un po’ di giustizia in questo calcio di merda;  intanto però forse abbiamo trovato una dirigenza in tutto e per tutto. Benvenuto tra noi, mister Setti!

MANDORLINI, CI STUPISCA!

“Abbiamo perso 3 a 0 e Abbiati è stato il migliore in campo”. ha detto Mandorlini in sala stampa. E’ una verità, ma una verità parziale, che dunque non aiuta a una riflessione compiuta. Come la scusa dei nazionali in giro per il mondo (li ha il Verona come molte altre squadre). Peggio ancora il “se non ci fosse stata l’autorete…” che pure qualcuno (non il tecnico), qua e là, ha abbozzato.

Per favore, evitiamo paraculaggini e frasi fatte. Abbiamo perso e male. Non mi interessa soffermarmi sul computo matematico delle occasioni, o sugli stucchevoli onanismi dei se e dei ma. Prima dell’autogollonzo di Marques, El Sharaawy ha “ciccato” clamorosamente un gol facile. Insomma, non è stata aria sin dall’avvio e la sconfitta è meritata. Punto.

Ma forse non tutto il male vien per nuocere. Se siamo intelligenti il 3 a 1 può servirci da lezione. Se facciamo autocritica ci rendiamo conto che prima di ieri non era tutto oro quello che luccicava. L’ho detto anche al “Vighini Show” di due settimane fa: “Prima o poi, soprattutto in attacco, qualcosa bisognerà rivedere, non credo si potrà andare avanti così a lungo”. Del resto  gli Iturbe che sanno fare tutto, pure sfiancarsi in copertura e in una frazione di secondo essere già dall’altra parte del campo a concludere a rete o suggerire l’assist a Toni, non li puoi clonare; i Romulo che ti permettevano contropiedi micidiali sono stati sostituiti da giocatori altrettanto bravi, ma con caratteristiche differenti; e un Marquinho non ce l’hai più. Lo dicono tutti: il Verona di quest’anno è diverso da quello della scorsa stagione. E se sei diverso non puoi mantenere lo stesso modo di giocare. Lapalissiano.

Non giriamoci intorno caro Mandorlini: se vuole sfruttare appieno l’organico che ha a disposizione proponga qualcosa di nuovo, nell’assetto tattico e nell’undici titolare. E’ sicuro che sulla fascia sinistra un Brivio non le possa dare più fisicità e corsa di un Agostini agli ultimi scampoli di carriera? Perché spostare Moras, che da centrale non ne ha sbagliata mezza, dal suo unico ruolo possibile? Privo di Sala e Martic ritiene Sorensen così inadeguato? E Campanharo, probabilmente il centrocampista più qualitativo della squadra, non crede sia determinante dall’inizio?

Poi c’è l’attacco e l’annosa questione esterni. Giocando col 4-5-1 lei non può far altro che schierare Gomez e Jankovic. E non ha torto, altri esterni puri non ne ha. La questione piuttosto è un altra: forse in rosa abbiamo giocatori più forti di Juanito e Bosko, solo con caratteristiche diverse. Non sarebbe allora il caso di cambiare? Lopez è una seconda punta, ama partire dall’esterno, ma non è un tornante. Saviola, l’ha ammesso anche lei, è una seconda punta, certo non sarà il Saviola del Barca e forse nemmeno quello del Siviglia, ma non credo sia così bollito da meritare appena sessanta minuti. Gomez nasce come attaccante e lo stesso Nenè può giocare in appoggio a Toni. Facendo la conta: tanti attaccanti bravi, pochi esterni all’altezza. Idea, perché non provare con il trequartista (Campanharo, Valoti, Lazaros) e due frecce lì davanti? Caro mister, ci stupisca!

E SE IL MODELLO FOSSE L’ATHLETIC BILBAO?

“Non c’è mondo per me al di là delle mura di Verona: c’è solo purgatorio, c’è tortura, lo stesso inferno. Bandito da qui è come se fossi bandito dal mondo; e l’esilio dal mondo vuol dire morte”. Lo disse Romeo, lo scrisse Shakespeare. Manifesto identitario, vessillo della veronesità.

Mi direte: che c’entra un gigante come Shakespeare con un piccolo blog di calcio? Rispondo: cosa c’è di più identitario del calcio? Vorrei lanciarvi una provocazione: perché Setti, che ha detto di ispirarsi al Borussia Dortmund, nella creazione del suo modello calcistico non ci mette anche una spruzzatina di Athletic Kluba, alias Athletic Bilbao? Lo ammetto, sarebbe una scelta rivoluzionaria e in controtendenza in questa melassa insipida che è il calcio del duemila; ma vuoi mettere il fascino?

Oddio, mi rendo conto che non si può in un nanosecondo – e soprattutto in questo calcio – emulare 116 anni di storia del club basco, che è un modello a sé difficilmente esportabile. Per esserne consapevoli basterebbe farsi un giro da quelle parti, giusto per capire il carattere di quel popolo e i sentimenti di quella terra, vera e propria piccola patria.

Scimmiottare dunque sarebbe stupido, ma qua e là qualcosina si può “rubare”. Ad esempio, mi piacerebbe vedere qualche italiano in più nella mia squadra, pur non essendo di principio contro gli stranieri e capendo qualcosina di libero mercato e quindi delle ragioni (soprattutto economiche) che portano le società a tesserarne in quantità industriale. Ma è il modello del settore giovanile della società basca, in particolare, a ispirarmi. L’Athletic Club in passato tesserava solo calciatori originari dell’Euskal Herria, adesso ha “aperto” anche a quelli non indigeni purché cresciuti nel suo vivaio. Il caso di Fernando Llorente è solo il più emblematico, ma non l’unico. Nato navarro nella Pamplona cara a Hemingway, infanzia nella Rjoia, l’attaccante ora della Juventus è però cresciuto a Bilbao dove si trasferì a soli dieci anni per formarsi nella cantera rojiblanca. Il caso Llorente peraltro dimostra che anche con “l’autarchia” si possono fare le plusvalenze care a qualsiasi presidente di calcio e imprescindibili per una società di media fascia come il Verona. A questo proposito Setti ha in testa da tempo un centro sportivo per le giovanili: sarebbe una svolta decisiva nell’ottica di costruirsi calciatori in casa, che abbiano il giusto mix di senso di appartenenza e fame di imporsi alla ribalta.

Ma più in generale, assodato che per i tifosi l’essenza del Verona Hellas è la sua identità, i suoi colori e la sua storia di unica vera squadra della città (per questo, ripeto, gli addetti ai lavori e i mass media quando si rivolgono all’esterno dovrebbero sforzarsi di chiamarlo Verona prima ancora che Hellas), su quale strategia deve puntare invece la società? Sull’omologazione, consentitemi la parola, quindi l’internazionalizzazione del brand, perché per campare con dignità in questo calcio non ci sono altre vie e dunque essa è l’unica scelta responsabile? O sulla propria specificità, riuscendo nell’impresa di imporlo, il brand, all’esterno, attraverso la creazione di una propria via che possa caratterizzare nella sua singolarità il “modello Setti”? Personalmente sceglierei la seconda strada. E’ possibile?

RIDICOLI COUNTDOWN

Vorrei essere Dan Aykroyd e non perché era amico di John Belushi. Lo so, già questo sarebbe un motivo sufficiente, ma si tratta di altro. Vorrei essere Dan Aykroyd e come un provetto ghostbusters acchiappare i fantasmi del minimalismo, i piccoli Casper del “meno 29 alla salvezza”. Un disco rotto l’anno scorso e che ora riprende a gracchiare stonato e fastidioso.

Liberamente ispirato al Principe De Curtis dico: siamo uomini o ragionieri? Ricominciamo la litania? Sembriamo militari che segnano croci sul calendario; programmatori del tempo libero che non è più libero, salutanti ferragosto per pensare già a capodanno; turisti piantatori di bandierine in itinerari prestabiliti; ipocondriaci che viviamo malati per morire sani. Ma viversela giorno per giorno, no? Scoprirsi piano piano e vedere strada facendo dov’è possibile arrivare non ci è concesso? Perché irrigidirsi in stucchevoli e italioti obiettivi? Che facciamo, la meniamo ancora lagnosamente con ‘sta tiritera della “quota 40”? E poi? Poi chiudiamo baracca perché appagati come l’anno scorso?

La verità è che il Verona sinora non ha sbagliato un colpo (l’exploit di Torino compensa il pari col Genoa). E c’è riuscito con la compassata maturità delle squadre forti, e non con l’esaltante ma spesso effimero entusiasmo delle piccole. La verità è che – a pensarci bene – siamo qui addirittura a recriminare per la sconfitta di Roma, dove in certi frangenti forse avremmo dovuto osare di più.

Di grazia, come si fa allora solo a nominarla la salvezza? Mi sembra un atteggiamento di comodo, infantile e modesto. Come il bambino che non vuole crescere, come il timido romantico sempre un metro più a lato della ragazza che sogna di baciare e alla quale in realtà fatica solo a dire un “ciao”.

Perché pensare al calcio solo come piccolo cabotaggio? Non si tratta di parlare di Europa o altro, ma solo di non porsi limiti. Giorno per giorno.

P.S. La mia pagina facebook dove si può intervenire quotidianamente:

(https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512)

SOLIDITA’ MORALE, NON (ANCORA) TATTICA

Teniamoci il punto. Teniamoci la rimonta. Il resto? Mandorlini ha sintetizzato bene: “Grande cuore, ci manca ancora qualcosa a livello tattico”. Il Verona ha otto punti e hai detto poco; ha sfruttato pienamente il calendario, benché sia ancora in fase di conoscenza con se stesso. In attesa di Roma (vada come vada), questo fa ben sperare per un campionato da parte sinistra della classifica. Per i discorsi di Europa League aspettiamo: togli 4-5 squadre sopra e 4-5 sotto, le altre più o meno si equivalgono.

COSA VA. Il Verona ha qualità tecnica, forza fisica e una rosa ampia. E questo è merito soprattutto di Sogliano, che ha saputo costruire senza spendere molto un organico sulla carta non inferiore a quello dello scorso anno. L’Hellas, privo di quei due-tre giocatori di qualità assoluta, ha però rinforzato il livello medio generale. Ionita non è solo un “cagnaccio”, Marquez (errore di ieri a parte) è un professore; Tachtsidis, ora in condizione, mi ha convinto e se cresce anche in intelligenza calcistica può fare la differenza; Obbadi è il classico mediano che non sempre si vede ma sempre si sente, e Toni non sarà quello dell’anno scorso, ma ha ancora lampi di classe e una decina di gol nel serbatoio. Altro? Sì, Brivio, ancora poco utilizzato, può essere il terzino che aspettavamo da anni, Gollini il portiere del futuro e fra qualche anno una super plusvalenza. Il resto lo fa lo zoccolo duro, la “classe operaia” dei Rafael, Moras, Hallfredsson e Gomez. Il resto lo fa la mentalità della squadra, che è quella del suo l’allenatore: gruppo unito e grande solidità morale. Di questi tempi e in questo calcio, con rose troppo ampie e rischio gelosie sempre in agguato, non è poco. E nel Verona dei  molti giocatori nuovi (cambiare era necessario), alcuni di grande personalità e di livello internazionale, è un merito in primis dell’allenatore e in secondo luogo di un ds presente anche nello spogliatoio e di una società che rispetta le autonomie di ognuno. Peraltro Mandorlini nelle sue dichiarazioni pubbliche appare quest’anno più pretenzioso e severo nell’analisi della partita (mi riferisco alla sfera pubblica, poi in privato magari lo è sempre stato). E questo mi piace.

COSA NON VA. L’equilibrio tattico ancora da trovare, specie se si vuole sfruttare appieno il potenziale offensivo (Saviola e Lopez in primis). L’anno scorso Iturbe, al di là della classe inarrivabile del giocatore, garantiva grazie al suo fisico sia copertura che estro. Al momento Saviola (suo ieri il primo gol a mio avviso) e Lopez danno solo estro, Jankovic solo copertura, Gomez un po’ tutto ma senza straordinarietà. Per schierare Saviola, col Genoa Mandorlini ha proposto un 3-5-2 un po’ improvvisato e quindi da rivedere (“abbiamo avuto solo due giorni per prepararlo e non è facile” ha confessato Marques in sala stampa), a dimostrazione che l’inserimento del Conejo nel tradizionale modulo è problematico, come a suo tempo scrissi. Ma è un problema che il tecnico deve risolvere, perché almeno uno tra Saviola e Nico Lopez va messo per rendere la squadra più forte.

Lascia ancora a desiderare il rendimento di Christodoulopoulos, uno dei giocatori di maggior talento della rosa. Mandorlini lo stima molto, ciononostante il paradosso è che il centrocampista – né mediano né ala – rischia di risultare un pesce fuor d’acqua nel calcio mandorliniano, fatto di mediani di spinta e non mezzali di tocco a centrocampo, ed esterni “di gamba” e non trequartisti sulle fasce. Quanto al “professor” Marquez, come detto sopra non si discute, l’unica perplessità può essere la sua tenuta in un campionato di 38 partite e la sua gestione in impegni ravvicinati. Detto questo, a me andrebbe bene che giocasse ai suoi livelli venti partite, bastano e avanzano. Infine, sebbene se ne parli poco, pesa l’assenza di Sala: la sua duttilità in questo Verona è preziosa.

COL GENOA VIETATO DISTRARSI

E poi ci sono quelle serate epiche, in cui ti riappropri dell’unico senso del calcio, che è passione non spettacolo. Un carico di sentimenti. Speranza è il Verona del primo tempo, che superiore al Torino regalava dolci presagi. Preoccupazione i primi venti minuti del secondo, con la partita che sembrava girarsi. Euforia è Ionita (bravo), strattonato ma ancora in piedi e con la forza di concludere, capace di farci saltare sui tavoli dall’ebbrezza. Paura questa sconosciuta, se Rafael ci avesse avvisati prima: “In settimana come rigorista avevo studiato Quagliarella, ma El Kaddouri lo ricordavo dai tempi del Sud Tirol”, dirà il portiere negli spogliatoi. E poi dicono che l’esperienza è un sostantivo calcisticamente vuoto. Ansia nei minuti finali, ché sennò mica sarebbe stato così bello.

Sentimenti, solo sentimenti, quindi tutto. La bellissima dedica di Rafael ad Hallfredsson, il “sogno americano” di Ionita, il Verona là in alto che per quelli come me è come riprendersi l’infanzia.  E il lato tecnico? Crescerà con l’inserimento fisso di uno o due elementi davanti in grado di aiutare Toni e piazzare il colpo. Crescerà perché, a centrocampo, Ionita o Campanharo forse non sono solo rincalzi e Tachtsidis ha margini. Crescerà perché Mandorlini alla formazione e alla “quadra” ci sta ancora lavorando. Sì avete capito bene, sebbene da terzi in classifica e con sette punti in tre partite sembra strano dirlo: questa squadra tiene ancora qualcosa per sé ed è stata (riconosciamolo) anche un tantino fortunata. Però la fortuna te la cerchi e il Verona ha due grandi qualità: è forte e, nonostante i cambiamenti, non ha perso il marchio di fabbrica mandorliniano. Tuttavia, guardando il passato, un pericolo lo vogliamo sventare: i cali di tensione anch’essi mandorliniani. Godiamoci una classifica straordinaria, ma col Genoa vietato distrarsi.

Parliamo di Verona anche su facebook:

(https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512?fref=nf)

VINCENTI MA NON CONTENTI

In serate così ti aggrappi ai maestri. Gianni Brera sosteneva che “il calcio è un mistero senza fine bello”, come le donne. In serate così ripensi a una vecchia frase di Benitez: “Vincere giocando bene sarebbe perfetto, altrimenti è sempre meglio vincere, perché dopo puoi sempre imparare”.

E il Verona ha vinto e questo solo conta. In attesa che impari (a giocare meglio), soprassediamo sul come. L’hanno visto tutti: gialloblu confusi, dal passo caduco e la testa pesante, monotematici nei soliti lanci per il solito Toni, pigri nell’adeguarsi sin da subito ai ritmi compassati del Palermo; spuntati e scarichi al punto che Saviola sembrava quasi la carta della disperazione. Ma è proprio in quel frangente, mentre El conejo s’apprestava ad entrare, che è apparso in tutta la sua meravigliosa essenza il “mistero” breriano: lancio abbastanza innocuo di Tachtsidis, forse il peggiore in campo fin lì, incertezza di Sorrentino e autogol di Pisano. 2-1 e Saviola che si è riaccomodato in panchina.

Insomma, vittoria tanto rocambolesca quanto gli episodi che l’hanno originata. Ma non sottilizzerei: alla seconda di campionato, con una sosta di mezzo per le nazionali, qualche alibi va pure concesso. Non fosse altro che la partita è stata brutta come poche da entrambe le parti e questo qualcosa vorrà pur dire. Non fosse altro che – a proposito di Benitez – squadroni più blasonati e ricchi hanno pure fatto peggio. Però è chiaro che domenica prossima, se vuoi uscire indenne da Torino, serve ben altra prestazione. E forse pure formazione, perché quella di ieri non mi ha convinto.

Viene in mente Tachtsidis, certo. Il sottoscritto lo scrive da più di un mese che il greco è una scommessa (visto il curriculum in serie A) in un ruolo delicatissimo. Eppure il ragazzo merita ancora delle possibilità (non infinite sia chiaro) per due motivi: qua e là ha fatto intravedere qualche lampo e non è al 100% delle condizione. Rimane il dubbio tra l’altro che Taxi potrebbe rendere di più con al fianco il connazionale Lazaros e non con Hallfredsson. Già Christodoulopoulos, l’altro neo della serata. Anche lui forse si porta dietro qualche scoria atletica post Mondiale, tuttavia esterno alto non è propriamente il suo ruolo per passo e caratteristiche (tende ad accentrarsi e rifinire più che saltare l’uomo) e l’incongruenza risulta ancora più marcata se dietro di lui agiscono l’onesto Hallfredsson, coi suoi pregi e difetti di sempre, il generoso ma offensivamente impalpabile Agostini (un cross dal fondo in 90 minuti) e dall’altra parte Gomez, volenteroso ma a cui non puoi chiedere di fare la differenza alla voce “fantasia”. Ecco allora che la frittata è servita: Verona troppo prevedibile.

Teniamoci dunque stretta la vittoria, con una considerazione finale: quattro punti in due partite, ciononostante qua e là affiora un filo di malcontento. Strano, ma non troppo: quest’anno le aspettative sono maggiori.

BELLA SENZ’ANIMA

Tutto senza allegria, senza una lacrima”. No emotions, è il calcio di oggi. Anzi forse il football moderno, a differenza della cocciantiana “Bella senz’anima”, non è neppure bello (partite imbarazzanti nella prima giornata di campionato); ma l’anima, questo è sicuro, se l’è venduta al diavolo. Il resto è venuto di conseguenza, trasformando uno sport in un marchio (quasi) fine a se stesso. Nostalgia canaglia di chi ha vissuto gli anni ’80 e ’90? Forse. Snobismo a metà tra disincanto e rassegnazione? Probabile. Eppure, credo, ci sia anche qualcosa che va oltre l’inflazionato filone del “si stava meglio quando si stava peggio”.

Chi scrive sa benissimo che in passato non era tutto romanticismo, anzi. L’ombra del doping negli anni ’70, il Totonero del 1980, i due punti a vittoria che spesso erano la molla per accomodare diverse partite in un pari (il buffoniano “meglio due feriti che un morto” ante litteram), dirigenti già allora “chiacchierati” quando Moggi era solo un allievo di Italo Allodi, i ritmi blandi di gioco e le eterne manfrine in campo.

Ma c’è una differenza decisiva: in passato il business, per quanto importante, rimaneva comunque e sempre un passo indietro rispetto allo sport e all’agonismo; e la corruzione era in un certo senso “naif”, paternalistica, cioè frutto di iniziative individuali e di sistemi quasi arcaici se non improvvisati. A rileggere adesso “Nel fango del dio pallone” di Carlo Petrini, che spiega il sistema delle scommesse a fine anni ’70, viene quasi da sorridere confrontandolo con quanto è emerso dagli scandali degli ultimi anni.

Oggi invece il business prevarica totalmente la sfera sportiva, che anzi sembra quasi un impiastro, una convitata da tollerare giusto per mantenere le apparenze. E’ questo il passaggio determinante: gli affari da dignitosi e legittimi comprimari sono divenuti gli arroganti protagonisti, anzi gli “one man show” di un sempre più delirante monologo. Comandano le pay tv e i grandi sponsor, presidenti e dirigenti sono solo controfigure che (felicemente) si adeguano.

Così cambiano gli usi e i costumi, le priorità, e persino le parole. Succede allora che un termine commerciale come “brand” venga applicato tristemente a un club sportivo senza che ci si renda conto di quanto grottesca sia la cosa. La parola “immagine” è tutto e dappertutto, ma John Lennon purtroppo non c’entra. Identità e appartenenza sono solo concetti di retroguardia per vecchi tromboni nostalgici. Le multinazionali – della tv o dell’abbigliamento poco importa – si sono prese tutto e omologano tutto, ché ormai non si capisce più chi è chi. Le interviste e il racconto giornalistico sono specie in via d’estinzione, tutto viene racchiuso e pianificato in inutili e stantie conferenze stampa che non dicono niente. Il resto è gossip. Il resto sono (scadenti) recite di attorucoli (quasi) tutti con le stesse pettinature, le stesse cuffie, gli stessi tatuaggi, le stesse donne e, nel pre e post partita, le stesse gravi e seriose espressioni da entrata e uscita in sala operatoria (ma giocano a calcio od operano a cuore aperto?). Il resto sono le facce grigie come i loro completi sartoriali e mai sorridenti di dirigenti in poco geniale parata. Il resto sono giornalisti specializzati in calciomercato – cioè niente, quindi tutto in quest’epoca – per 365 giorni l’anno, cantori del calcio virtuale, un po’ come se qualcuno ci volesse convincere che scopare su internet è più bello.

Infine ci sono i tifosi, trattati come polli da batteria, consumatori da blandire e mungere, da sballottare con partite in giorni e orari sempre più improbabili e – se è il caso – da punire con regole e sanzioni demenziali, in nome di un politicamente corretto oramai surreale quanto inutile (si puniscono i cori dentro lo stadio, ma poi le vere tragedie succedono fuori, vedi Raciti a Catania e Ciro Esposito a Roma). Già i tifosi, gli ultimi giapponesi a difesa della sola verità del calcio. Verità popolare, col suo pathos e non il suo ethos, le sue rivalità e le sue differenze. I tifosi, spesso capri espiatori per lor signori, in realtà l’unica àncora di bellezza che può salvare il mondo (del calcio). Qualcuno lo metta in testa ai padroni del vapore, che con il loro bulimico business hanno intristito tutto. Qualcuno dica loro che la maionese sempre più impazzita che ci propinano sta andando a male. Qualcuno li avverta che la “bella senz’anima”, a forza di cambiare letti e uomini, è rimasta sola.   

CON SAVIOLA ADDIO VECCHIO MODULO?

Javer Pedro Saviola Fernàndez. Tanti nomi quante le maglie pesanti vestite in carriera. Alzi la mano chi lo aveva pronosticato. Si faccia avanti chi lo avesse anche solo pensato. La verità è che i colpi a sorpresa last minute di Sogliano ormai sono come i regali di Natale. Sai che ogni anno li troverai sotto l’albero, ma non sai cosa ci sarà dentro. Saviola non era mai stato accostato al Verona nella lunga sessione di mercato, idem Bonaventura, sfumato e passato al Milan solo per il rifiuto di Zaccardo di firmare per il Parma in cambio di Biabiany ai rossoneri. Anche le operazioni Iturbe (un anno fa) e Cacia (2012) furono un fulmine a ciel sereno. L’auspicio, ovviamente, è che Saviola possa ripetere le gesta dei suoi due predecessori “just in time”.

Di certo il blitz soglianesco è di quelli pesanti. Come il passato dell’ex enfant prodige di Buenos Aires, che a prima vista sembra più vecchio dei suoi non ancora 33 anni (li compie a dicembre) – quattro in meno di Toni e due di Rafa Marquez. Il fatto è che Saviola ha avuto un avvio di carriera (fin troppo) precoce. Nel ’99, a 17 anni e mezzo era già campione affermato nel River Plate. Due anni dopo, assieme al compagno (e coetaneo) D’Alessandro, erede designato di Maradona. Nel 2001 mister 50 miliardi – la cifra per cui venne ceduto al Barcellona – e campione del mondo under 20, nonché capocannoniere di quel mondiale. Poi tre anni straordinari nel Barca e il coronamento con l’Argentina dell’oro olimpico ad Atene 2004.

Saviola è stato grandissimo sino a lì, “solo” grande per altri due anni (2004-06) fra Monaco e Siviglia, dove vinse la Coppa Uefa con 5 gol in 12 partite. Poi si è “normalizzato”. Si fa per dire ovviamente, perché se fino al 2012 giochi ancora con Barcellona, Real Madrid e Benfica proprio normale non sei. E non sei normale neppure se nelle ultime due stagioni segni venti gol tra Liga e campionato greco e giochi 11 partite realizzando 3 reti in Champions League, dove prima sfiori la semifinale col Malaga (2012-13) e l’anno seguente i quarti con l’Olympiakos (2013-14).

Questo dà l’idea del giocatore che ha ingaggiato il Verona. Un ex fuoriclasse, più di Toni e di Rafa Marquez; ma tutt’ora campione, come Toni e Rafa Marquez. Un campione vero e non una scolorita figurina venuta a svernare come qualcuno ha impudicamente azzardato. 

L’incognita semmai è un’altra e, se vogliamo, non di poco conto. E’ possibile inserirlo nel tradizionale quadro tattico mandorliniano? Il 4-5-1 del tecnico ravennate, costruito su un unica punta e due esterni-tornanti, poco si addice alle caratteristiche di seconda punta di Saviola, che pure, al pari di Toni e Marquez, sarà difficile immaginare in panchina. Cambio di modulo in vista?

P.S. Seguitemi su fb (https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512)

COSA MANCA?

Ricordate l’adagio del vecchio Trap? Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Ecco, ogni giudizio sul Verona è volutamente sospeso, anche se la squadra vista ieri sera ha già una sua fisionomia. Ma il calciomercato è ancora aperto e Sogliano sta lavorando su obiettivi che – a leggere i nomi – non sarebbero solo ritocchi all’esistente. Si cerca un giocatore per reparto, forse addirittura due in attacco. Come dicevamo, mica pizza e fichi. Certo, mancano pochi giorni alla Coppa Italia e meno di due settimane all’esordio in campionato, quindi qualche considerazione qua e là è legittima.

In attesa dei rinforzi, Mandorlini ha già trovato grosso modo l’undici titolare con cui iniziare la stagione. Con la Cremonese credo non si discosterà troppo dalla squadra vista ieri nel primo tempo con lo Shackhtar, con Obbadi ripiegato temporaneamente davanti alla difesa per le squalifiche di Tachtsidis e Donati, e Christodoulopoulos interno destro. A Bergamo invece potremmo vedere Taxi riprendere il suo posto da metodista, con l’ex Monaco rimesso interno e Christodoulopoulos nel tridente a sinistra. E, ovviamente, l’inserimento in difesa del tanto atteso Rafa Marquez. Ed è questo il copione tattico che ha più convinto Mandorlini sinora, come ha ammesso lo stesso tecnico ieri sera: “Lazaros lo preferisco nel tridente, Obbadi davanti alla difesa non ha mai giocato”.

Certo, manca ancora qualcosa. Tutti indicano la mezzapunta che salti l’uomo. Il fu Iturbe per intenderci. Vero, davanti siamo un po’ carenti in imprevedibilità e Chanturia non ha passato l’esame. Qualcuno lì arriverà (Lopez, Evangelista, forse un sorpresone). Eppure la vera lacuna a mio avviso è l’assenza di un vice Toni all’altezza, che possa anche giocare al suo fianco. Insomma, il Paulinho che avrebbe dovuto essere. Nené (per ora) non convince e pur augurando lunga vita al bomber di Pavullo, che se sta bene è ancora il numero uno, il gioco di Mandorlini passa per l’attaccante centrale ancor di più che per gli esterni d’attacco. Tradotto: se dovessi spendere lo farei lì.

Altro perno nel 4-1-4-1 mandorliniano è il centrocampista centrale. Tachtsidis è in progresso, ma il suo apporto non è ancora sufficiente. E Donati, non me ne voglia, pare l’ombra del giocatore che a vent’anni passò a suon di miliardi al Milan. Spero che Taxi esploda, ma in quel ruolo, per sicurezza, l’asticella va alzata, non con un fenomeno, basta un giocatore di categoria.

Attenzione, gli appunti che muovo sono legati a quello che è intimamente l’obiettivo della società: non solo non retrocedere, ma ripetere il campionato dello scorso anno e consolidarsi come media realtà del calcio italiano (quindi decimo posto finale, colonna sinistra della classifica). Perché la squadra, già così, è sufficientemente competitiva per non arrivare tra le ultime tre. Ma Setti, mi pare di capire, non è uomo da accontentarsi di una risicata salvezza.