VOLIAMO ALTO (SI PUO’)

“Quelli che fanno una vita da malati per morire da sani…”. Enzo Jannacci sbeffeggiava così i fanatici del salutismo, della purezza morale e della prudenza. La provocazione calza a pennello anche per gli adepti di quella che io chiamo “la retorica della salvezza” (tipico piatto calcistico in salsa italiana). Il Verona sbanca Bologna con una prestazione super per qualità, organizzazione e temperamento? Eccoli che arrivano puntuali i pompieri: “Pensiamo ad arrivare il prima possibile alla salvezza”. “Facciamo 40 punti e poi ne riparliamo”. L’Hellas è quinto in classifica? Getti e secchiate d’acqua dappertutto: “Il campionato è lungo”. Un disco rotto di ovvietà.

Attenzione, non addito dirigenti, giocatori e allenatore. Bagnoli vinse uno scudetto parlando di salvezza e dunque ben venga il Mandorlini saldo coi piedi per terra. Lo impone il suo ruolo. Il punto è che siamo noi tifosi – quasi  più saggi dei “saggi” di Napolitano – ormai a parlare come gli addetti ai lavori. Paura di sognare, o solo voglia di farlo in silenzio? Scaramanzia poco scaligera, o sano realismo questo sì molto veronese?  Chissà.

Eppure la realtà è lampante. Il Verona oggi al Dall’Ara ha confermato quanto già scrissi dopo il Livorno. La squadra è forte e Mandorlini la sente maledettamente sua (e si vede). Bologna derelitto? Forse, ma non lo fosse stato avremmo vinto comunque con uno scarto meno netto. E’ certamente presto per azzardare previsioni, ma forse non lo è per nutrire (facendo finta di niente, of course) qualche realistica e sana ambizione. Che non vuol dire presunzione (sia mai), ma consapevolezza del proprio valore. Voliamo alto, si può.

P.S. chi vuole discutere col sottoscritto sul Verona e il calcio in generale può intervenire anche cliccando “Mi piace” sulla mia pagina facebook.

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PROVA DI FORZA

Mi tocca scomodare Lubrano (e chi se lo ricordava?). Vedi il Verona, questo Verona, e la domanda appunto nasce spontanea. Sicuri che siamo solo da salvezza? Col Livorno tutto è girato (quasi) alla perfezione. Partita convincente, contro un buon avversario. Il Verona ha sempre dato la sensazione di governare il match. Al di là degli episodi. Certo, sarebbe andato sotto se non fosse stato per lo strepitoso riflesso di Rafael. Ed è vero che l’ingenuità di Bianchetti (poveraccio,  quella stupida intervista alla Gazzetta lo sta condizionando) l’ha costretto a ricominciare daccapo. Ma è stata una partita giocata a viso aperto sin dall’inizio e, forse, la prima vera prova di forza della squadra di Mandorlini. Tecnica, tattica e morale. E scriverei le stesse cose anche se avessimo pareggiato.

Possiamo sognare? La butto lì: sì. Non abbiamo fatto 10 punti in sei partite per caso. Siamo a punteggio pieno in casa e negli scontri diretti non abbiamo mai fallito. Quindi, sfidando la retorica, aggiungo pure che non siamo arrivati lì “sulle ali dell’entusiasmo”, come si usa dire in questi casi (la fantasia dei giornalisti a volte è pari ai centrimetri di pelle naturale della Santanché, alla carica erotica della Binetti e al carisma di Livia Turco). Anzi l’istinto proibito mi suggerisce: non siamo ancora al massimo. Sogliano ha costruito una rosa, dal centrocampo in su, ricca di talento e alternative (non è da tutti permettersi Martinho in panchina). Rafael, lasciata da parte qualche incertezza, dice la sua anche in questa categoria. Mandorlini, come i giocatori, sta scoprendo la serie A, che in passato aveva solo assaggiato. Credo che col tempo, abbandonati gli eccessi di timidezza tipici del neofita, il Verona sarà ancora più autorevole e, perché no, a tratti spregiudicato, in modo da sfruttare la sua forza d’urto in avanti e coprire le falle dietro. Le fondamenta (leggi l’organizzazione che Mandorlini e staff hanno dato) ci sono già, si tratta ora di inserire appieno alcuni nuovi (Iturbe e Cirigliano in primis) per l’ulteriore salto di qualità.

Del resto, grandi a parte, chi può schierare un tridente come Toni-Iturbe-Martinho? Con Gomez, questo Gomez, un ragazzo dall’umiltà calcistica straordinaria, ottima alternativa? E Jorginho e Romulo in mediana quante altre li hanno? Resta il nodo Hallfredsson, come detto. Mandorlini spiega che ha bisogno di giocare per entrare in forma. Un déjà vu, non vorrei si ripetessero  gli errori del passato, specie se hai in batteria Donati e Cirigliano e un Sala tutto da scoprire. E la difesa? E’ l’anello debole e si sapeva. Aggiungici gli infortuni. Da che mondo e mondo, cambiare i centrali ogni partita non aiuta a perfezionare i meccanismi. Lì va trovata, più prima che poi, continuità. Gonzalez e Moras potrebbero essere la coppia del futuro, intanto Marques, con mezzo reparto in infermeria, scalpita per Bologna.

Ma non c’è solo il valore tecnico dell’organico. E’ che questa squadra, a differenza dell’anno scorso, piace da matti e in tutto per tutto al suo allenatore. Si può crescere, è possibile. Non è questione di essere incontentabili (è bello già così), ma di prendere convinzione dei propri mezzi. Parlavo nell’ultimo blog dell’attuale calcio contabile, fatto di liste bloccate nell’alta classifica e della corsa ragionieristica ai fatidici 40 punti nella bassa. E’ così e noi siamo solo una neopromossa. E conosciamo l’obiettivo (non vorrei che presto imparassimo a conoscere anche il sistema, leggi arbitri). Ma l’ho scritto l’altra volta e lo ripeto: a me piace sognare. Anni di vacche magre, un po’ di pancia piena non ci fa male.

MANDORLINI RICORDI DUE ANNI FA?

Si può definire un 2-2, scialbo? Sì, si può. Non ingannino infatti le apparenze. Ieri al vecchio Comunale, ora Olimpico di Torino è andata in scena la partita del “giochiamocela, ma senza farci troppo del male”. Squadre stanche, con la testa anche al prossimo impegno (il Toro ha il derby e il Verona ospita il Livorno) e una discreta classifica. Ritmi blandi, gol episodici. E la sensazione che nessuna delle due squadre volesse del tutto affondare i colpi. Il 2-2 di ieri è tutto qui. Ma, si sa, il calcio moderno ha trasformato sogni e ambizioni in ragionieristici calcoli contabili. Un calcio nel quale si gioca troppo e male (venti squadre, troppe) e le piccole-medie società a più di tanto non possono ambire. C’è il porcellum anche qui, le liste dei posti che contano infatti sono (quasi) bloccate e chi, per caso o per merito, una volta nella vita si è insediato nel gotha (Chievo e Samp in Champions) fatalità l’anno dopo è retrocesso. Quindi? Le energie meglio concentrarle per arrivare a 40 punti e salvarsi. E morta lì (ok ne puoi fare anche 50 ma cosa cambia?).

Comprensibile. Troppo importanti i diritti televisivi, ma non solo. La permanenza serie A ti garantisce, ad esempio, anche di non svendere i gioielli in rosa (a giugno se retrocedi Jorginho non vale gli stessi soldi). Tuttavia mortificante. I sogni sono sogni, il tifo è tifo e io vorrei vedere il Verona sempre vincere, o provarci perlomeno. Ma il calcio di oggi è questo e non è colpa dei Setti, dei Campedelli, dei Cairo o dei Garrone di turno. Loro si adattano. Eppoi, diciamocelo, noi stessi tifosi ormai ci siamo contabilizzati. Quante volte sento e leggo frasi tipo: “Dobbiamo solo arrivare a 40 e salvarci”? Il calcio nel senso di sport è morto tra il 1994 (esplosione pay tv) e il 1996 (sentenza Bosman), due terremoti.

Quindi che dire di ieri sera? Che Toni è indispensabile (il gol di Gomez è quasi tutto suo), che abbiamo le qualità tecniche per giocare più “alti” e propositivi e che Cirigliano, se è quello di ieri, deve giocare sempre (sottolineo anche le sue scarpette nere, old style). Se gli anni ’80 sono finiti e i sogni di gloria anche, mi piacerebbe perlomeno tornare a divertirmi. Marco Gaburro, provocatoriamente, ha scritto che il dna di Mandorlini è questo e non può cambiare. A pensarci bene, non sono d’accordo. Mandorlini è lo stesso che due stagioni fa nel girone di andata diede spettacolo. Era un Verona equilibrato e propositivo allo stesso tempo. Perché non riprovarci? La butto lì, con Cirigliano si potrebbe riproporre quel Verona. L’argentino davanti alla difesa e Jorginho qualche metro più avanti falso trequartista alla Falcao. Romulo e Martinho mezz’ali. E due punte: Toni ovviamente e uno a scelta tra Iturbe, Gomez, Longo e Cacia (sbizzarritevi) in base all’avversario. Mandorlini ricordi due anni fa?

MANDORLINI-DOC: RITORNO AL FUTURO

Ha ragione Mandorlini. “Le partite sono tutte uguali, avremmo dovuto gestire meglio il vantaggio”, la sua secca e un po’ scorbutica risposta al solito stupido cliché autoconsolatorio “non sono queste le partite in cui fare punti” (genere “quella non me la dà perciò non mi merita” e intanto vai di pratiche onanistiche).

Ha torto Mandorlini quando, indirettamente, accusa i suoi difensori per i gol presi. E’ vero, Bianchetti e Moras si fanno gabbare ingenuamente da Tevez e Llorente, tuttavia se tu dal primo minuto ti arrocchi in un catenaccio alla Rocco, è probabile che prima o poi i tuoi difensori, che non sono Nesta e Baresi, sottopressione sbaglino.

Ieri è stato un “Ritorno al futuro” con Mandorlini in veste di Doc e la mitica DeLorean a riportarci alle marcature a uomo. Sono tornato bambino, agli anni ’80. Romantico ed epico. Del resto sono tempi da “nostalgia canaglia”. Berlusconi rifonda Forza Italia e Storace dice che bisogna rifare AN. Da un po’ si son perse le tracce di Pizza, quello della nuova DC, ma aspetto fiducioso. Quindi il Mandorlini retrò ha tutto il diritto di esistere. Tuttavia mi chiedo se il Verona abbia le caratteristiche per giocare in trincea. Gonzaléz a parte, non vedo in rosa grandi marcatori (lo avevo già ribadito dopo la sofferta vittoria col Sassuolo, quindi il mio ragionamento prescinde dal risultato e dall’avversario). Non sarebbe forse il caso di essere più propositivi per alleggerire le responsabilità della terza linea?

Perché un problema difesa c’è, inutile negarlo. Ieri appena la Juve ha cominciato a fare la Juve è stato un tiro al bersaglio. Non inganni quindi il 2 a 1. Qualcuno mi dirà, ma quello di Moras per il resto è stato un partitone. Risposta: a certI livelli per il resto non conta. Moras una sbavatura ogni partita la fa. Bianchetti? Ancora acerbo. Per carità di patria non infierisco sulla sua intervista polemica alla Gazzetta, dico solo: l’Under 21 non c’entra nulla con la serie A. Anche Maietta, pur non sfigurando, nelle prime due partite, qua e là, qualche incertezza l’ha avuta. Bene invece Gonzaléz: el Patron sa il fatto suo. Aspetto Marques.  

Note a margine: perché insistere su Hallfredsson? Questo Hallfredsson soffre. Il centrocampo è il reparto più fornito, chiedo modestamente al mister: certe gerarchie sono eterne? Idem l’attacco, Longo è stato voluto a Verona da Mandorlini, che si è pure prodigato di persona per portarlo all’Hellas. Davvero l’ex Inter vale meno di Cacia e soprattutto Gomez? Iturbe è utile schierato, in pratica, da terzino?

Domande in serenità, perché rispetto a un mese fa, vigilia del campionato, sono più tranquillo. Ci sono squadre più scarse della nostra e la salvezza è alla portata.  

 

p.s. I 3 mila veronesi allo Juventus Stadium dopo il nostro 1-0: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”. Strafottenti, incuranti, corrosivi. Fantastici. Verona style.    

 

   

 

 

TUTTI GLI UOMINI…DI MANDORLINI

Gene Gnocchi, giocando su un francesismo, ironizzava sulla fortuna di Sacchi chiamandola cul-de-Sac. Mandorlini è un uomo fortunato? Si è detto e scritto che il 2-0 di ieri è ingeneroso nei confronti del Sassuolo, padrone del campo per tutto il secondo tempo. Analisi da fattucchieri, con tutto il rispetto. Fortuna e sfortuna li lascerei agli scaramantici devoti di San Gennaro. Io più marxianamente adotto il profilo materialista.

Sassuolo sfortunato? No scarso, cioè impreciso in rifinitura e sotto porta. Al resto ci ha pensato il (questa volta) bravo Rafael. Contro un avversario un attimo decente sarebbe andata diversamente, questo è chiaro. Ammetterlo serve a crescere e a non cullarsi sugli allori di sei punti che comunque ci teniamo ben stretti.

Mandorlini fortunato? Vecchia questione, risolta da lui stesso con una delle sue battute più riuscite: “Meglio fortunati che sfigati”. Come dargli torto. Premesso che la “sindrome da trincea” (leggi arretrare a difendere il vantaggio) è un vizio storico del suo Verona, ho ragione di credere che negli scontri diretti spesso avremo questo atteggiamento. Questo è il calcio del mister, non ci si scappa, magari poco elegante ma sinora piuttosto redditizio. Quindi il problema non è tanto il “ci difendiamo” (embè?), semmai il “come ci difendiamo”. Ergo bene o male? Qualche sbavatura c’è e va limata, onde evitare guai con Torino, Livorno, Bologna e Parma, le prossime pari fascia, di ben altro spessore rispetto ai neroverdi del bilioso Di Francesco. Ecco perché continuo a rimanere perplesso sulla difesa e i suoi interpreti (se vuoi giocare in trincea servono marcatori più bravi). Maietta, Moras e Bianchetti, per motivi diversi, a questi livelli ci possono stare, ma non assieme. Manca un leader. Forse lo è Gonzales che da pedigree è il migliore che abbiamo. Presto sarà pronto. L’altra perplessità è su Cacciatore, benché al momento non veda alternative al “tronista”. Sala è più offensivo e Romulo (anche ieri straordinario) per ora è meglio lasciarlo dov’è.   

Mandorlini comunque un messaggio in queste prime tre giornate l’ha lanciato: lui preferisce (ancora) la vecchia guardia. Col Sassuolo, a parte Romulo, ha schierato la squadra dell’anno scorso. Ok mancava Toni, ma col campione del mondo sarebbero stati pur sempre nove i superstiti. Tanti in rapporto al movimentato mercato di Sogliano.

La situazione però è in evoluzione. Il tecnico di Ravenna ha fatto capire che qualche posto è ancora in ballottaggio e qualche altro lo potrebbe presto essere. In difesa i titolari sono ancora quelli della B, ma Gonzales appunto, Bianchetti, l’impiego di Albertazzi a sinistra e di Romulo a destra sono soluzioni che Mandorlini ha in testa. Assodato che a centrocampo i titolari sono Romulo, Jorginho e Halfredsson, con Donati primo cambio, al momento è il terzo tassello del tridente offensivo a non avere ancora un padrone. Martinho e Toni non si discutono. Cacia ieri ha deluso (quanto varranno ancora le gerarchie tirate in ballo dallo stesso allenatore?). Gomez è troppo timido. Jankovic discontinuo. In attesa di Longo, il pensiero di tutti corre a Iturbe. Che sia lui il giocatore con cui spiccare il volo? Chissà, per adesso godiamoci questo brillante avvio.           

 

   

 

   

CAVALLO PAZZO

C’è sempre un inizio. Una prima immagine che poi è per tutta la vita. Gli amori nascono così. Pioveva in quel pomeriggio dell’11 ottobre del 1987 e io a San Siro bagnai (è proprio il caso di dirlo) la mia prima trasferta. Un regalo anticipato del mio settimo compleanno. Inter-Verona, viaggio in treno con famiglia. All’epoca con l’Inter si era gemellati e l’unico “fuori programma” da bollino rosso accadde durante il viaggio di ritorno, passando da Brescia, quando i tifosi intonarono un famoso coro in rima sulla facilità amatoria – diciamo così – delle bresciane.

Ma io ricordo soprattutto lui: Preben Larsen Elkjaer, dall’altro ieri splendido 56enne, il più grande giocatore che abbia mai vestito la maglia del Verona. Il colpo di fulmine  si riverberò presto in amore ed esplose tutto in un’azione: contropiede, Pacione all’ala sinistra che appoggia per il nostro “Cavallo Pazzo”, controllo di coscia-ginocchio e destro al volo in corsa da fuori area. Zenga trafitto, San Siro ammutolito. Gol. Uno dei suoi più belli di sempre, quasi che l’avesse segnato apposta per me, piccolo esordiente nell’atto d’iniziazione di una passione che si sarebbe rivelata poi infinita, anonimo spettatore tra i tanti di così nobili gesta.

Era un Preben già al tramonto, in quella che sarebbe stata la sua ultima stagione in gialloblù (traumatico per me l’abbandono, in coda in autostrada sulla Uno45 Super blu-azzurra verso San Benedetto del Tronto, mio padre alla guida, mia madre con in mano L’Arena che titolava l’addio).

Preben era classe e potenza, ma anche molto altro. In una parola, passione. Voglio dire, zero calcolo in campo, gioia, rabbia, esaltazione, ira. Istinto. Guasconeria nordica, raffinata, intelligente, maliziosa. Sguardo solare e tagliente allo stesso tempo. Originalità. Già dal nome. Avrebbe potuto farsi chiamare Larsen, ma in Danimarca è come chiamarsi Rossi. Sarebbe stato uno dei tanti. Ve lo immaginate lui tra i tanti? No, lui scelse Elkjaer, il cognome della madre.

Elkjaer era uno stato d’animo in moto perpetuo in tutte le sue sfumature. Come la natura, che non riposa mai, si evolve e ritorna. E qui scivolo nel secondo aneddoto. Verona-Pescara, 22 novembre dello stesso anno, un 2-0 (quasi) comodo. Passiamo in vantaggio già nel primo tempo con Pacione, ma nella ripresa mentre attacchiamo sotto la curva nord, dove sedevo io (all’epoca era aperta ai veronesi e con la curva esaurita era il settore popolare per eccellenza), sotto di me vedo Elkjaer incazzato nero che smadonna per conto suo a gioco fermo. Nel primo tempo aveva preso una traversa, fallito un rigore e sbagliato un gol facile, e lui era ancora lì a smoccolare, con una visceralità tale che avrei voluto scendere in campo a imprecare con lui, solidale. Bambino sì, ma mica scemo: mi rendevo conto già allora che Preben avrebbe considerato patetico qualsivoglia supporto morale, specie se di un babbeo ingenuo come me. Lui preferiva risolversela alla sua maniera. Da solo. Come quegli eroi dei film, che salvano il mondo dai criminali mentre la polizia arriva sempre dopo, a cose fatte. Siglò il raddoppio, Preben: lancio dalla mediana, scatto sul filo del fuorigioco e stop d’interno collo a seguire, fuga verso l’area e pallonetto a Zinetti (come si dice adesso cucchiaio? scavino?). Ed esultanza alla sua maniera, con le braccia tese verso il bacino e i pugni serrati. Gioia focosa, spontanea, essenziale. Ergo non televisiva. Ma Elkjaer era questo, fuoriclasse di un calcio nel quale la tv era il mezzo, non il fine. Ed è da questo (terribile) trapasso che il football ha cominciato a imbruttirsi.   

Auguri (in ritardo) Vichingo. E come scrissero i tifosi danesi il giorno del tuo addio alla Nazionale: “Tak Elkjaer”.

 

P.S. Un omaggio al mio campione. Un omaggio a tutti i “cavalli pazzi”. Mai omologarsi.   

PULIERO, SETTI E L’IDENTITA’ SCALIGERA

Ci sono assenze che fanno rumore.  “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?”, si domandava Nanni Moretti in Ecce Bombo. Roberto Puliero è di quelli che si sentono quando non ci sono. Le sue mancate radiocronache in questo avvio di campionato hanno scatenato un caso. E’ nato un gruppo su facebook (“Roberto Puliero per le radiocronache e le formazioni dell’Hellas”) che in poco tempo ha raccolto 7 mila “likes”. Lo stesso attore veronese, due settimane fa, ha rilasciato un’intervista al vetriolo accusando, in sostanza, la società di Setti di averlo emarginato. A stretto giro di posta la replica del responsabile comunicazione del Verona Fabrizio Cometti, che ha invece ribadito che per Puliero le porte rimangono aperte anche a Radio Hellas – il nuovo network del club di via Belgio che trasmette in esclusiva le partite dei gialloblù – e che non c’è nessun caso, ma solo dei tempi da rispettare dal momento che Puliero è sotto contratto con un altro network e la radio del club, appena nata, non è ancora pienamente strutturata. Un controcanto un po’ politichese e (ad oggi) smentito.

Infatti le porte Puliero sono rimaste chiuse e, anzi, la situazione pare sia volta al peggio per i migliaia di fan dell’attore veronese, per decenni voce narrante dell’Hellas Verona, dall’epoca pioneristica delle radio libere (gli anni ’70) a quella ipermediatica e bulimica del calcio televisivo di oggi. Giusto? Sbagliato?

Non è questo il punto. La scelta della società, che ha deciso di cedere i diritti a una “sua” radio e di avvalersi di nuovi collaboratori, è legittima. Com’è legittima la voglia del club di sperimentare nuovi format e linguaggi. E ben venga Radio Hellas, coi suoi giovani giornalisti, alcuni davvero bravi.  Si può financo discutere fino a notte, senza cavarne nulla peraltro, se Puliero fosse superato o meno (di sicuro è due spanne sopra a chi l’ha sostituito, ma tant’è…). Tuttavia la faccenda avrebbe potuto essere gestita meglio. Con più signorilità e anche, perché no (per i cinici), malizia. L’impressione che emerge dall’esterno, infatti, è che la società fin dall’inizio non credesse più in Puliero, ma che non si sia curata troppo (prima che la cosa diventasse un caso) di giustificare la sua “rimozione” all’opinione pubblica. Quasi che Roberto fosse uno qualunque e non un’icona di Verona e provincia. Un po’ come non si è preoccupata, a suo tempo, di spiegare l’accordo Nike e il motivo delle nuove maglie “infedeli” nelle tonalità del gialloblù. Simile noncuranza nell’affidare a un’agenzia di marketing non veronese la campagna abbonamenti degli opliti greci, con buona pace dei simboli cittadini (e di tutta la polemica degli anni scorsi sui simboli e colori).

L’impressione è che la società, bravissima sul piano manageriale e sportivo, pecchi ancora nel rapporto con la “piazza”. Per scarsa conoscenza della stessa, in primis. Aggiungici che Setti, da tipico self made man, è uomo risoluto che per indole non ama troppo le mediazioni. Tuttavia una squadra di calcio non è una normale azienda. Nel calcio devi rendere conto anche a un popolo di tifosi che, a differenza del normale consumatore di qualsiasi altro mercato, porta con sé un carico di passioni. E Verona è particolare, più iconoclasta e conservatrice (e non  sempre è un difetto) che fighetta e modernista. Non è Milano, insomma, dove il “kit del tifoso” può confondersi facilmente col fu kit di Forza Italia di berlusconiana memoria. Provinciale? Sì, fieramente e nel senso nobile della parola (quindi localista e identitaria).

Setti affermò a suo tempo di volere “sprovincializzarci”. Tifo per lui se questo significa modernizzare la struttura del club, il rapporto coi media e le istituzioni locali (battaglia coraggiosa nella città dove qualsiasi potere, anche giornalistico, soffre delle sindrome da “Montecchi e Capuleti” tra invidie, prebende e primedonne). Lo appoggio se l’obiettivo è legittimarci a livello nazionale, dove tuttora siamo poco considerati se non, peggio, discriminati. Se questo vuol dire, al contrario, sottovalutare (anche in buonafede ed è il caso di Setti) l’importanza di certi “simboli” della nostra provincialità, be’ permettetemi garbatamente di dissentire.  Il Verona è l’unica provinciale a essersi fregiata di uno scudetto ed è quella che ha tuttora il maggior numero di abbonati. Ergo è la provinciale più importante d’Italia. Ed è su questo orgoglio da primato e sentimento di unicità che va costruita l’immagine del club. Anche nei simboli. Altrimenti il rischio è di annacquare asetticamente nel mare magnum dell’”uno tra i tanti”. Invece “meglio re in Gallia che schiavi a Roma” (cit). Se Setti lo capisce è seduto su una miniera d’oro.

L’AZZARDO DI SOGLIANO

A Sean Sogliano deve piacere l’azzardo. Un mercato di scommesse, anche coraggiose, il suo. Forse troppe. Il ds si è seduto al tavolo da poker seguendo un metodo preciso: puntare poco e vincere tanto. Il budget non permetteva la splendida arroganza dei “rilanci” in stile Sergio Leone di “C’era una volta il West”. E la sua trasparenza nemmeno i memorabili bluff di Asso-Celentano, o dei fascinosi Redford e Newman in “Butch Cassidy”. 

“Preferisco avere un giocatore in più, che uno in meno”, il motto del ds figlio d’arte. E l’abbondanza non manca nella rosa del Verona. Forse non è perfettamente distribuita – tanti centrocampisti (otto per tre posti) e solo un terzino destro (anche Romulo lo è, lo so, ma io non lo toglierei mai dal centrocampo) – ma Sogliano ha puntato più sull’occasione che sul ruolo.

E’ stato il mercato delle apparenti contraddizioni. Ottimi colpi (Romulo appunto, Toni e le conferme di Jorginho e Martinho) e scelte discutibili (Donadel, che ha lo stesso procuratore di Rubin). Giocatori dall’ottimo passato ma dati per finiti, come Donati e Rubin, e giovani di talento tutti da scoprire (Longo, il riscatto di Bianchetti, Iturbe e Cirigliano).

E tanti (troppi?) sudamericani, con i pro e contro del caso. Si ambienteranno? Come sarà il loro impatto col nostro calcio? La storia del campionato italiano è ricca di giocatori venuti da Oltreoceano. Fuoriclasse (specie negli ani ’80 e ’90), discreti giocatori, mestieranti e ciofeche. Categoria, questa, sempre affascinante: il mio cuore continua a battere per il brasiliano sciupafemmine Renato Portaluppi, più bravo nei club notturni e nelle riviste patinate che in campo. E’ solo invidia, lo so.

Di Sogliano mi fido. L’uomo ha intuito e “odora” i calciatori. E Iturbe e Cirigliano sono prospetti interessanti. Cirigliano era titolare del River Plate, ma il campionato argentino non è quello italiano. A Buenos Aires lo definiscono un giovane Mascherano: interditore dalla gamba tosta, ma anche dal discreto palleggio. Iturbe, paraguaiano-argentino, invece é un ventenne con un futuro già alle spalle. Talento sopraffino, scoppiettante a sedici anni al Cerro Porteno (Paraguay) di Pedro Troglio. E’ finito a prendere polvere al Porto, con un furtivo passaggio addirittura al Gallipoli. Verona è la sua rampa di lancio. E’ un trequartista che può fare anche la punta esterna. Se sboccia abbiamo in casa un patrimonio. 

L’uruguaiano Gonzales, a differenza dei due compagni, è nel pieno della maturità ed è stato un investimento economico non da poco in rapporto al ruolo che ricopre (2,5 milioni di euro). E’ un difensore rapido, grintoso, di temperamento: più un Maietta che un Moras per intenderci. Nei piani di Sogliano (e di Mandorlini?) deve diventare il leader della difesa. Marques, carioca di esperienza, ha vinto ed è rispettato in Brasile. Lui è un simil Moras (o Bianchetti): pulito, tecnico, gioca più sulla posizione che sulla corsa.  

E’ stata costruita una rosa con molti giocatori universali (i vecchi jolly), che permette molte variabili tattiche. E su questo Mandorlini dovrà lavorare e smentire coloro (tra cui io) che lo annoverano tra gli “integralisti”.   

La salvezza è possibile. Mandorlini ha storici difetti (testone e poco flessibile tatticamente appunto), ma due grandi qualità: il suo calcio lo sa fare egregiamente e ama i giocatori “cazzuti”. Molta sciabola e poco fioretto, insomma. Questo vale anche per i talenti e Jorginho ne è l’esempio. Il centrocampista di Inbituba, classe cristallina, è apparentemente leggerino, in realtà ha personalità, corsa e interdizione. Ne fosse stato privo, Mandorlini mai l’avrebbe lanciato. E’ lui l’esempio da seguire per i Cirigliano, Iturbe, Bianchetti e Longo. Il campionato, e anche il futuro del Verona, dipenderà molto dalla loro maturazione.

Il resto starà nella capacità di riscatto di quei giocatori considerati – prima che arrivasse Sean – “vecchi arnesi” da buttare; nell’entusiasmo della vecchia guardia e nel rendimento dei gioiellini.

Buon viaggio vecchio Hellas.  

SCONFITTA SALUTARE

Orgoglio scaligero in un pub di Bruxelles. Siamo in sei veronesi e a pochi metri di distanza un gruppo di romanisti, che passano il primo tempo a smoccolare contro alcuni loro giocatori. Gli stessi verranno portati in gloria nella ripresa. Nessuna sorpresa: Roma e i romanisti sono questi, vivono la partita come se fosse un perenne ping pong  pre e post coito. Vogliamo diventare come loro? Direi di no. Non eravamo fenomeni dopo il Milan (ma come dice Mandorlini, quei tre punti li abbiamo e ce li teniamo), non siamo da buttare ora.  Piuttosto pregi e difetti sono gli stessi, è solo cambiato l’avversario. Un Milan svogliato e distratto una settimana fa, una Roma organizzata e talentuosa ieri.

E’ stato un buon Verona nel primo tempo. Ordinato e di personalità. A parte qualche tiro dalla distanza (ma in A non puoi concedere spazio ai tiratori nei tuoi 25 metri) e l’occasione di Florenzi in avvio, granché non ha subìto. Troppo rinunciatario? Sì, ma se la tua coperta è corta non puoi far miracoli. Un conto è avere Romulo a metà campo, un conto (con tutto il rispetto che merita) questo Hallfredsson.  Il brasiliano è talmente bravo che può giocare dappertutto (anche terzino), ma è chiaro che per lui vale il discorso che si faceva la scorsa stagione per Martinho: uno così dietro è sprecato. Romulo, schierato da mezz’ala destra, col Milan è stato l’uomo delle ripartenze. Da terzino quel lavoro non lo può fare.

Nel secondo tempo ci siamo “abbassati” (vizio storico del Verona mandorliniano). Poi il primo gol è stato un corollario di errori. Palla persa di Hallfredsson, Totti lasciato libero in rifinitura e Cacciatore in ritardo sul cross di Maicon (gli autogol non sono sempre sfortuna). Sul secondo, al di là del numero in pallonetto di Pjanic (ma sull’ennesimo tiro dalla distanza), Rafael è fuori posizione. Errori che, sommati fra loro, hanno incanalato una partita di brillante tenuta in una pesante sconfitta. Un KO, tuttavia, salutare, perché paradossalmente consegna a Mandorlini e alla società (in vista delle ultime ore di mercato) più certezze che dubbi. Certezze positive e negative, ma pur sempre certezze.

Cosa non va? La difesa, così com’è, è debole. Moras e Maietta, pur dignitosi, assieme non danno garanzie. Gonzales (più che Marques) è da provare e c’è sempre Bianchetti. Cacciatore è un onesto pedatore, ma l’impressione è che giochi costantemente in affanno. Eppure credo abbia margini di crescita. Davanti, manca una spalla di Toni da inserire a partita in corso (in attesa di Longo, Cacia non convince, su Gomez invece sospenderei il giudizio). Jankovic è (ancora) il classico giocatore nel limbo: eterna incompiuta, o talento pronto a esplodere? Hallfredsson (a cui concediamo l’alibi di una condizione approssimativa) a questi livelli è meno esplosivo. Poco convincente anche Rafael: tante buone parate, ma in tilt nel momento determinante. Va rivisto. Cosa funziona invece? Il centrocampo (Hallfredsson a parte) e non è poco. Donati (su cui mi devo ricredere) è fondamentale nel gioco di Mandorlini. Jorginho ha classe superiore. Martinho è da grande squadra. Riproponendo Romulo e tenendo in considerazione Sala, in mediana teniamo il passo. Bene a metà il modulo: questo 4-5-1 è una buona base di partenza (a patto ci siano Romulo o Sala, che sanno ripartire), mentre latitano le variabili in corsa, sia in termini di uomini (compito di Sogliano) che di tattica (lavoro di Mandorlini).

Queste considerazioni incidono anche sul mercato. Sogliano ha in colpo l’attaccante Iturbe e si sta muovendo per un terzino sinistro, ma con un paio di colpi extra per rimpolpare la panchina mi sentirei più tranquillo. La chiusura del mercato e la sosta arrivano con tempismo perfetto. E anche il Sassuolo. C’è il tempo di sistemarsi, in attesa del primo banco di prova con una diretta concorrente. Fiducia, ma antenne dritte.

P.S. Grave aggressione di un gruppetto di ultras romanisti contro il pullman della squadra. Ricordo anche l’aggressione subita dai tifosi a Palermo. Dove sono e cosa dicono i “moralizzatori” del Palazzo?  Attendo seriosi dibattiti Malagò-Casarin; aspetto solenni interviste ad Abete; confido in lenzuolate della Gazzetta. Lo so, è più facile vedere Galeazzi magro e Mazzari e Conte vincere “Mister Simpatia”.

 

LA GENIALITA’ DI UNA TIFOSERIA

Istantanea di un indimenticabile sabato pomeriggio: la faccia di Galliani già a fine primo tempo. Nera come la pece, più che accigliata direi funerea. Avreste dovuto vederla, nemmeno il Teo Teocoli dei giorni belli sarebbe riuscito a far di meglio. Lì ho avuto la sensazione che avremmo vinto. Il Milan era già col fiato corto e la testa altrove. Il Verona, seppur non al meglio e con ancora delle falle da sistemare sul mercato (e questo, sia chiaro, è un rafforzativo dell’impresa), padrone del campo.

Suspense finale di un memorabile 24 agosto: Mandorlini negli ultimi dieci minuti. Un leone in gabbia, credo sarebbe voluto entrare in campo anche lui a contrastare gli (sterili) assalti finali del Milan. Un doppio applauso al mister: per come ha disposto la squadra (un 4-1-4-1 “inglese”, fisico, corsaro e verticalizzante che ricordava il suo Verona più bello, quello del girone di andata di due campionati fa) e per il look. In tuta come un vero allenatore e non in abito com’è (quasi) d’obbligo, purtroppo, in una serie A che ha trasformato i tecnici in anonimi manager Pubblitalia, tra conferenze stampa più pallose di un meeting aziendale e banali completi tutti uguali (rimanga in tuta mister!).

Emozioni di un letterario ritorno nel calcio che conta (perché Verona-Milan è un romanzo classico): il trio brasileiro. La completezza di Jorginho, classe e tempismo, geometrie e dinamismo. Ci credo che il Milan lo vuole, uno così ne fa (almeno) due di Montolivo (che è il meno peggio della mediana milanista). Spero resti.  La cifra tecnica di Romulo. Qualcuno aveva dubbi sull’ex Fiorentina, io no, l’unico dubbio è perché la Fiorentina non se lo sia tenuto. La forza, la velocità e la sfacciataggine di Martinho, ancora al 70%, ma lui può far male a qualsiasi avversario già così.

Gesti eterni in un Bentegodi da brividi: quelli di Luca Toni. Il secondo gol è un gesto tecnico straordinario (preziosismo da rivedere anche l’assist di Jankovic). Toni è un campione, questo si sapeva. Va gestito e preservato, ovvio. Ieri Mandorlini l’ha fatto, togliendogli l’incombenza del pressing sul primo portatore di palla (cosa che era richiesta a Ferrari). Questo comporta qualche rischio, ma per un Toni del genere ne vale la pena. Giocherà così le altre 37 partite? No, ma Longo è più di una scommessa e credo che anche lì davanti (dietro lo do per scontato) qualcosa ancora si muoverà sul mercato (sia in entrata che in uscita).

Colpi di genio di una tifoseria: quella gialloblù. Molti (fuori Verona) l’avevano rimossa in questi anni di purghe sportive del club. E sono tornati a parlarne (vedi Gazzetta con due pagine due) solo per il (a detta loro) razzismo. La risposta? Grandi numeri, tifo intenso (è stata un bolgia, il Bentegodi sembrava l’Anfield, chi canta così in Italia?) e corrosiva ironia (unica nel suo genere). Come m’ha scritto un amico e tifoso storico: “Abbiamo preso per il culo il Sistema”. Già e la sensazione è la stessa dell’aver visto la faccia di Galliani. Perché hanno voglia le anime belle a insegnarci che non si deve godere delle disgrazie altrui. Invece io godo del Palazzo e del suo plotone d’esecuzione di cortigiani gufi zittiti. La realtà è che farsi beffe di chi ti sta orgogliosamente sulle palle è incommensurabilmente bello. Bugiardo e triste chi lo nega. Chapeau.

P.S. E’ stato bello esserci. Da due mesi sono all’estero per lavoro, e farsi in un giorno Bruxelles-Charleroi-Orio al Serio-Stadio-Orio al Serio-Charleroi-Bruxelles per il Verona è stato un piacere, non una fatica. Lo sarebbe stato anche se avessimo perso, perché chi, come noi, undici anni fa era a Piacenza, sa cosa voleva dire esserci ieri. Il significato andava oltre alla partita. Come ho scritto sul mio profilo Facebook alla vigilia: “Non è la partita, è il senso di essa”. La vittoria è la chiusura del cerchio perfetta. Ce lo meritiamo.

P.P.S. E dopo l’indimenticato “Mario su”, sbandieratore del mito gialloblù, ieri è toccato a “Mario giù”. Del resto il Bentegodi ha spento Rivera e zittito Van Basten. Figurarsi se non poteva atterrire un Balotelli.