MANDORLINI-DOC: RITORNO AL FUTURO

Ha ragione Mandorlini. “Le partite sono tutte uguali, avremmo dovuto gestire meglio il vantaggio”, la sua secca e un po’ scorbutica risposta al solito stupido cliché autoconsolatorio “non sono queste le partite in cui fare punti” (genere “quella non me la dà perciò non mi merita” e intanto vai di pratiche onanistiche).

Ha torto Mandorlini quando, indirettamente, accusa i suoi difensori per i gol presi. E’ vero, Bianchetti e Moras si fanno gabbare ingenuamente da Tevez e Llorente, tuttavia se tu dal primo minuto ti arrocchi in un catenaccio alla Rocco, è probabile che prima o poi i tuoi difensori, che non sono Nesta e Baresi, sottopressione sbaglino.

Ieri è stato un “Ritorno al futuro” con Mandorlini in veste di Doc e la mitica DeLorean a riportarci alle marcature a uomo. Sono tornato bambino, agli anni ’80. Romantico ed epico. Del resto sono tempi da “nostalgia canaglia”. Berlusconi rifonda Forza Italia e Storace dice che bisogna rifare AN. Da un po’ si son perse le tracce di Pizza, quello della nuova DC, ma aspetto fiducioso. Quindi il Mandorlini retrò ha tutto il diritto di esistere. Tuttavia mi chiedo se il Verona abbia le caratteristiche per giocare in trincea. Gonzaléz a parte, non vedo in rosa grandi marcatori (lo avevo già ribadito dopo la sofferta vittoria col Sassuolo, quindi il mio ragionamento prescinde dal risultato e dall’avversario). Non sarebbe forse il caso di essere più propositivi per alleggerire le responsabilità della terza linea?

Perché un problema difesa c’è, inutile negarlo. Ieri appena la Juve ha cominciato a fare la Juve è stato un tiro al bersaglio. Non inganni quindi il 2 a 1. Qualcuno mi dirà, ma quello di Moras per il resto è stato un partitone. Risposta: a certI livelli per il resto non conta. Moras una sbavatura ogni partita la fa. Bianchetti? Ancora acerbo. Per carità di patria non infierisco sulla sua intervista polemica alla Gazzetta, dico solo: l’Under 21 non c’entra nulla con la serie A. Anche Maietta, pur non sfigurando, nelle prime due partite, qua e là, qualche incertezza l’ha avuta. Bene invece Gonzaléz: el Patron sa il fatto suo. Aspetto Marques.  

Note a margine: perché insistere su Hallfredsson? Questo Hallfredsson soffre. Il centrocampo è il reparto più fornito, chiedo modestamente al mister: certe gerarchie sono eterne? Idem l’attacco, Longo è stato voluto a Verona da Mandorlini, che si è pure prodigato di persona per portarlo all’Hellas. Davvero l’ex Inter vale meno di Cacia e soprattutto Gomez? Iturbe è utile schierato, in pratica, da terzino?

Domande in serenità, perché rispetto a un mese fa, vigilia del campionato, sono più tranquillo. Ci sono squadre più scarse della nostra e la salvezza è alla portata.  

 

p.s. I 3 mila veronesi allo Juventus Stadium dopo il nostro 1-0: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”. Strafottenti, incuranti, corrosivi. Fantastici. Verona style.    

 

   

 

 

TUTTI GLI UOMINI…DI MANDORLINI

Gene Gnocchi, giocando su un francesismo, ironizzava sulla fortuna di Sacchi chiamandola cul-de-Sac. Mandorlini è un uomo fortunato? Si è detto e scritto che il 2-0 di ieri è ingeneroso nei confronti del Sassuolo, padrone del campo per tutto il secondo tempo. Analisi da fattucchieri, con tutto il rispetto. Fortuna e sfortuna li lascerei agli scaramantici devoti di San Gennaro. Io più marxianamente adotto il profilo materialista.

Sassuolo sfortunato? No scarso, cioè impreciso in rifinitura e sotto porta. Al resto ci ha pensato il (questa volta) bravo Rafael. Contro un avversario un attimo decente sarebbe andata diversamente, questo è chiaro. Ammetterlo serve a crescere e a non cullarsi sugli allori di sei punti che comunque ci teniamo ben stretti.

Mandorlini fortunato? Vecchia questione, risolta da lui stesso con una delle sue battute più riuscite: “Meglio fortunati che sfigati”. Come dargli torto. Premesso che la “sindrome da trincea” (leggi arretrare a difendere il vantaggio) è un vizio storico del suo Verona, ho ragione di credere che negli scontri diretti spesso avremo questo atteggiamento. Questo è il calcio del mister, non ci si scappa, magari poco elegante ma sinora piuttosto redditizio. Quindi il problema non è tanto il “ci difendiamo” (embè?), semmai il “come ci difendiamo”. Ergo bene o male? Qualche sbavatura c’è e va limata, onde evitare guai con Torino, Livorno, Bologna e Parma, le prossime pari fascia, di ben altro spessore rispetto ai neroverdi del bilioso Di Francesco. Ecco perché continuo a rimanere perplesso sulla difesa e i suoi interpreti (se vuoi giocare in trincea servono marcatori più bravi). Maietta, Moras e Bianchetti, per motivi diversi, a questi livelli ci possono stare, ma non assieme. Manca un leader. Forse lo è Gonzales che da pedigree è il migliore che abbiamo. Presto sarà pronto. L’altra perplessità è su Cacciatore, benché al momento non veda alternative al “tronista”. Sala è più offensivo e Romulo (anche ieri straordinario) per ora è meglio lasciarlo dov’è.   

Mandorlini comunque un messaggio in queste prime tre giornate l’ha lanciato: lui preferisce (ancora) la vecchia guardia. Col Sassuolo, a parte Romulo, ha schierato la squadra dell’anno scorso. Ok mancava Toni, ma col campione del mondo sarebbero stati pur sempre nove i superstiti. Tanti in rapporto al movimentato mercato di Sogliano.

La situazione però è in evoluzione. Il tecnico di Ravenna ha fatto capire che qualche posto è ancora in ballottaggio e qualche altro lo potrebbe presto essere. In difesa i titolari sono ancora quelli della B, ma Gonzales appunto, Bianchetti, l’impiego di Albertazzi a sinistra e di Romulo a destra sono soluzioni che Mandorlini ha in testa. Assodato che a centrocampo i titolari sono Romulo, Jorginho e Halfredsson, con Donati primo cambio, al momento è il terzo tassello del tridente offensivo a non avere ancora un padrone. Martinho e Toni non si discutono. Cacia ieri ha deluso (quanto varranno ancora le gerarchie tirate in ballo dallo stesso allenatore?). Gomez è troppo timido. Jankovic discontinuo. In attesa di Longo, il pensiero di tutti corre a Iturbe. Che sia lui il giocatore con cui spiccare il volo? Chissà, per adesso godiamoci questo brillante avvio.           

 

   

 

   

CAVALLO PAZZO

C’è sempre un inizio. Una prima immagine che poi è per tutta la vita. Gli amori nascono così. Pioveva in quel pomeriggio dell’11 ottobre del 1987 e io a San Siro bagnai (è proprio il caso di dirlo) la mia prima trasferta. Un regalo anticipato del mio settimo compleanno. Inter-Verona, viaggio in treno con famiglia. All’epoca con l’Inter si era gemellati e l’unico “fuori programma” da bollino rosso accadde durante il viaggio di ritorno, passando da Brescia, quando i tifosi intonarono un famoso coro in rima sulla facilità amatoria – diciamo così – delle bresciane.

Ma io ricordo soprattutto lui: Preben Larsen Elkjaer, dall’altro ieri splendido 56enne, il più grande giocatore che abbia mai vestito la maglia del Verona. Il colpo di fulmine  si riverberò presto in amore ed esplose tutto in un’azione: contropiede, Pacione all’ala sinistra che appoggia per il nostro “Cavallo Pazzo”, controllo di coscia-ginocchio e destro al volo in corsa da fuori area. Zenga trafitto, San Siro ammutolito. Gol. Uno dei suoi più belli di sempre, quasi che l’avesse segnato apposta per me, piccolo esordiente nell’atto d’iniziazione di una passione che si sarebbe rivelata poi infinita, anonimo spettatore tra i tanti di così nobili gesta.

Era un Preben già al tramonto, in quella che sarebbe stata la sua ultima stagione in gialloblù (traumatico per me l’abbandono, in coda in autostrada sulla Uno45 Super blu-azzurra verso San Benedetto del Tronto, mio padre alla guida, mia madre con in mano L’Arena che titolava l’addio).

Preben era classe e potenza, ma anche molto altro. In una parola, passione. Voglio dire, zero calcolo in campo, gioia, rabbia, esaltazione, ira. Istinto. Guasconeria nordica, raffinata, intelligente, maliziosa. Sguardo solare e tagliente allo stesso tempo. Originalità. Già dal nome. Avrebbe potuto farsi chiamare Larsen, ma in Danimarca è come chiamarsi Rossi. Sarebbe stato uno dei tanti. Ve lo immaginate lui tra i tanti? No, lui scelse Elkjaer, il cognome della madre.

Elkjaer era uno stato d’animo in moto perpetuo in tutte le sue sfumature. Come la natura, che non riposa mai, si evolve e ritorna. E qui scivolo nel secondo aneddoto. Verona-Pescara, 22 novembre dello stesso anno, un 2-0 (quasi) comodo. Passiamo in vantaggio già nel primo tempo con Pacione, ma nella ripresa mentre attacchiamo sotto la curva nord, dove sedevo io (all’epoca era aperta ai veronesi e con la curva esaurita era il settore popolare per eccellenza), sotto di me vedo Elkjaer incazzato nero che smadonna per conto suo a gioco fermo. Nel primo tempo aveva preso una traversa, fallito un rigore e sbagliato un gol facile, e lui era ancora lì a smoccolare, con una visceralità tale che avrei voluto scendere in campo a imprecare con lui, solidale. Bambino sì, ma mica scemo: mi rendevo conto già allora che Preben avrebbe considerato patetico qualsivoglia supporto morale, specie se di un babbeo ingenuo come me. Lui preferiva risolversela alla sua maniera. Da solo. Come quegli eroi dei film, che salvano il mondo dai criminali mentre la polizia arriva sempre dopo, a cose fatte. Siglò il raddoppio, Preben: lancio dalla mediana, scatto sul filo del fuorigioco e stop d’interno collo a seguire, fuga verso l’area e pallonetto a Zinetti (come si dice adesso cucchiaio? scavino?). Ed esultanza alla sua maniera, con le braccia tese verso il bacino e i pugni serrati. Gioia focosa, spontanea, essenziale. Ergo non televisiva. Ma Elkjaer era questo, fuoriclasse di un calcio nel quale la tv era il mezzo, non il fine. Ed è da questo (terribile) trapasso che il football ha cominciato a imbruttirsi.   

Auguri (in ritardo) Vichingo. E come scrissero i tifosi danesi il giorno del tuo addio alla Nazionale: “Tak Elkjaer”.

 

P.S. Un omaggio al mio campione. Un omaggio a tutti i “cavalli pazzi”. Mai omologarsi.   

PULIERO, SETTI E L’IDENTITA’ SCALIGERA

Ci sono assenze che fanno rumore.  “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?”, si domandava Nanni Moretti in Ecce Bombo. Roberto Puliero è di quelli che si sentono quando non ci sono. Le sue mancate radiocronache in questo avvio di campionato hanno scatenato un caso. E’ nato un gruppo su facebook (“Roberto Puliero per le radiocronache e le formazioni dell’Hellas”) che in poco tempo ha raccolto 7 mila “likes”. Lo stesso attore veronese, due settimane fa, ha rilasciato un’intervista al vetriolo accusando, in sostanza, la società di Setti di averlo emarginato. A stretto giro di posta la replica del responsabile comunicazione del Verona Fabrizio Cometti, che ha invece ribadito che per Puliero le porte rimangono aperte anche a Radio Hellas – il nuovo network del club di via Belgio che trasmette in esclusiva le partite dei gialloblù – e che non c’è nessun caso, ma solo dei tempi da rispettare dal momento che Puliero è sotto contratto con un altro network e la radio del club, appena nata, non è ancora pienamente strutturata. Un controcanto un po’ politichese e (ad oggi) smentito.

Infatti le porte Puliero sono rimaste chiuse e, anzi, la situazione pare sia volta al peggio per i migliaia di fan dell’attore veronese, per decenni voce narrante dell’Hellas Verona, dall’epoca pioneristica delle radio libere (gli anni ’70) a quella ipermediatica e bulimica del calcio televisivo di oggi. Giusto? Sbagliato?

Non è questo il punto. La scelta della società, che ha deciso di cedere i diritti a una “sua” radio e di avvalersi di nuovi collaboratori, è legittima. Com’è legittima la voglia del club di sperimentare nuovi format e linguaggi. E ben venga Radio Hellas, coi suoi giovani giornalisti, alcuni davvero bravi.  Si può financo discutere fino a notte, senza cavarne nulla peraltro, se Puliero fosse superato o meno (di sicuro è due spanne sopra a chi l’ha sostituito, ma tant’è…). Tuttavia la faccenda avrebbe potuto essere gestita meglio. Con più signorilità e anche, perché no (per i cinici), malizia. L’impressione che emerge dall’esterno, infatti, è che la società fin dall’inizio non credesse più in Puliero, ma che non si sia curata troppo (prima che la cosa diventasse un caso) di giustificare la sua “rimozione” all’opinione pubblica. Quasi che Roberto fosse uno qualunque e non un’icona di Verona e provincia. Un po’ come non si è preoccupata, a suo tempo, di spiegare l’accordo Nike e il motivo delle nuove maglie “infedeli” nelle tonalità del gialloblù. Simile noncuranza nell’affidare a un’agenzia di marketing non veronese la campagna abbonamenti degli opliti greci, con buona pace dei simboli cittadini (e di tutta la polemica degli anni scorsi sui simboli e colori).

L’impressione è che la società, bravissima sul piano manageriale e sportivo, pecchi ancora nel rapporto con la “piazza”. Per scarsa conoscenza della stessa, in primis. Aggiungici che Setti, da tipico self made man, è uomo risoluto che per indole non ama troppo le mediazioni. Tuttavia una squadra di calcio non è una normale azienda. Nel calcio devi rendere conto anche a un popolo di tifosi che, a differenza del normale consumatore di qualsiasi altro mercato, porta con sé un carico di passioni. E Verona è particolare, più iconoclasta e conservatrice (e non  sempre è un difetto) che fighetta e modernista. Non è Milano, insomma, dove il “kit del tifoso” può confondersi facilmente col fu kit di Forza Italia di berlusconiana memoria. Provinciale? Sì, fieramente e nel senso nobile della parola (quindi localista e identitaria).

Setti affermò a suo tempo di volere “sprovincializzarci”. Tifo per lui se questo significa modernizzare la struttura del club, il rapporto coi media e le istituzioni locali (battaglia coraggiosa nella città dove qualsiasi potere, anche giornalistico, soffre delle sindrome da “Montecchi e Capuleti” tra invidie, prebende e primedonne). Lo appoggio se l’obiettivo è legittimarci a livello nazionale, dove tuttora siamo poco considerati se non, peggio, discriminati. Se questo vuol dire, al contrario, sottovalutare (anche in buonafede ed è il caso di Setti) l’importanza di certi “simboli” della nostra provincialità, be’ permettetemi garbatamente di dissentire.  Il Verona è l’unica provinciale a essersi fregiata di uno scudetto ed è quella che ha tuttora il maggior numero di abbonati. Ergo è la provinciale più importante d’Italia. Ed è su questo orgoglio da primato e sentimento di unicità che va costruita l’immagine del club. Anche nei simboli. Altrimenti il rischio è di annacquare asetticamente nel mare magnum dell’”uno tra i tanti”. Invece “meglio re in Gallia che schiavi a Roma” (cit). Se Setti lo capisce è seduto su una miniera d’oro.

L’AZZARDO DI SOGLIANO

A Sean Sogliano deve piacere l’azzardo. Un mercato di scommesse, anche coraggiose, il suo. Forse troppe. Il ds si è seduto al tavolo da poker seguendo un metodo preciso: puntare poco e vincere tanto. Il budget non permetteva la splendida arroganza dei “rilanci” in stile Sergio Leone di “C’era una volta il West”. E la sua trasparenza nemmeno i memorabili bluff di Asso-Celentano, o dei fascinosi Redford e Newman in “Butch Cassidy”. 

“Preferisco avere un giocatore in più, che uno in meno”, il motto del ds figlio d’arte. E l’abbondanza non manca nella rosa del Verona. Forse non è perfettamente distribuita – tanti centrocampisti (otto per tre posti) e solo un terzino destro (anche Romulo lo è, lo so, ma io non lo toglierei mai dal centrocampo) – ma Sogliano ha puntato più sull’occasione che sul ruolo.

E’ stato il mercato delle apparenti contraddizioni. Ottimi colpi (Romulo appunto, Toni e le conferme di Jorginho e Martinho) e scelte discutibili (Donadel, che ha lo stesso procuratore di Rubin). Giocatori dall’ottimo passato ma dati per finiti, come Donati e Rubin, e giovani di talento tutti da scoprire (Longo, il riscatto di Bianchetti, Iturbe e Cirigliano).

E tanti (troppi?) sudamericani, con i pro e contro del caso. Si ambienteranno? Come sarà il loro impatto col nostro calcio? La storia del campionato italiano è ricca di giocatori venuti da Oltreoceano. Fuoriclasse (specie negli ani ’80 e ’90), discreti giocatori, mestieranti e ciofeche. Categoria, questa, sempre affascinante: il mio cuore continua a battere per il brasiliano sciupafemmine Renato Portaluppi, più bravo nei club notturni e nelle riviste patinate che in campo. E’ solo invidia, lo so.

Di Sogliano mi fido. L’uomo ha intuito e “odora” i calciatori. E Iturbe e Cirigliano sono prospetti interessanti. Cirigliano era titolare del River Plate, ma il campionato argentino non è quello italiano. A Buenos Aires lo definiscono un giovane Mascherano: interditore dalla gamba tosta, ma anche dal discreto palleggio. Iturbe, paraguaiano-argentino, invece é un ventenne con un futuro già alle spalle. Talento sopraffino, scoppiettante a sedici anni al Cerro Porteno (Paraguay) di Pedro Troglio. E’ finito a prendere polvere al Porto, con un furtivo passaggio addirittura al Gallipoli. Verona è la sua rampa di lancio. E’ un trequartista che può fare anche la punta esterna. Se sboccia abbiamo in casa un patrimonio. 

L’uruguaiano Gonzales, a differenza dei due compagni, è nel pieno della maturità ed è stato un investimento economico non da poco in rapporto al ruolo che ricopre (2,5 milioni di euro). E’ un difensore rapido, grintoso, di temperamento: più un Maietta che un Moras per intenderci. Nei piani di Sogliano (e di Mandorlini?) deve diventare il leader della difesa. Marques, carioca di esperienza, ha vinto ed è rispettato in Brasile. Lui è un simil Moras (o Bianchetti): pulito, tecnico, gioca più sulla posizione che sulla corsa.  

E’ stata costruita una rosa con molti giocatori universali (i vecchi jolly), che permette molte variabili tattiche. E su questo Mandorlini dovrà lavorare e smentire coloro (tra cui io) che lo annoverano tra gli “integralisti”.   

La salvezza è possibile. Mandorlini ha storici difetti (testone e poco flessibile tatticamente appunto), ma due grandi qualità: il suo calcio lo sa fare egregiamente e ama i giocatori “cazzuti”. Molta sciabola e poco fioretto, insomma. Questo vale anche per i talenti e Jorginho ne è l’esempio. Il centrocampista di Inbituba, classe cristallina, è apparentemente leggerino, in realtà ha personalità, corsa e interdizione. Ne fosse stato privo, Mandorlini mai l’avrebbe lanciato. E’ lui l’esempio da seguire per i Cirigliano, Iturbe, Bianchetti e Longo. Il campionato, e anche il futuro del Verona, dipenderà molto dalla loro maturazione.

Il resto starà nella capacità di riscatto di quei giocatori considerati – prima che arrivasse Sean – “vecchi arnesi” da buttare; nell’entusiasmo della vecchia guardia e nel rendimento dei gioiellini.

Buon viaggio vecchio Hellas.  

SCONFITTA SALUTARE

Orgoglio scaligero in un pub di Bruxelles. Siamo in sei veronesi e a pochi metri di distanza un gruppo di romanisti, che passano il primo tempo a smoccolare contro alcuni loro giocatori. Gli stessi verranno portati in gloria nella ripresa. Nessuna sorpresa: Roma e i romanisti sono questi, vivono la partita come se fosse un perenne ping pong  pre e post coito. Vogliamo diventare come loro? Direi di no. Non eravamo fenomeni dopo il Milan (ma come dice Mandorlini, quei tre punti li abbiamo e ce li teniamo), non siamo da buttare ora.  Piuttosto pregi e difetti sono gli stessi, è solo cambiato l’avversario. Un Milan svogliato e distratto una settimana fa, una Roma organizzata e talentuosa ieri.

E’ stato un buon Verona nel primo tempo. Ordinato e di personalità. A parte qualche tiro dalla distanza (ma in A non puoi concedere spazio ai tiratori nei tuoi 25 metri) e l’occasione di Florenzi in avvio, granché non ha subìto. Troppo rinunciatario? Sì, ma se la tua coperta è corta non puoi far miracoli. Un conto è avere Romulo a metà campo, un conto (con tutto il rispetto che merita) questo Hallfredsson.  Il brasiliano è talmente bravo che può giocare dappertutto (anche terzino), ma è chiaro che per lui vale il discorso che si faceva la scorsa stagione per Martinho: uno così dietro è sprecato. Romulo, schierato da mezz’ala destra, col Milan è stato l’uomo delle ripartenze. Da terzino quel lavoro non lo può fare.

Nel secondo tempo ci siamo “abbassati” (vizio storico del Verona mandorliniano). Poi il primo gol è stato un corollario di errori. Palla persa di Hallfredsson, Totti lasciato libero in rifinitura e Cacciatore in ritardo sul cross di Maicon (gli autogol non sono sempre sfortuna). Sul secondo, al di là del numero in pallonetto di Pjanic (ma sull’ennesimo tiro dalla distanza), Rafael è fuori posizione. Errori che, sommati fra loro, hanno incanalato una partita di brillante tenuta in una pesante sconfitta. Un KO, tuttavia, salutare, perché paradossalmente consegna a Mandorlini e alla società (in vista delle ultime ore di mercato) più certezze che dubbi. Certezze positive e negative, ma pur sempre certezze.

Cosa non va? La difesa, così com’è, è debole. Moras e Maietta, pur dignitosi, assieme non danno garanzie. Gonzales (più che Marques) è da provare e c’è sempre Bianchetti. Cacciatore è un onesto pedatore, ma l’impressione è che giochi costantemente in affanno. Eppure credo abbia margini di crescita. Davanti, manca una spalla di Toni da inserire a partita in corso (in attesa di Longo, Cacia non convince, su Gomez invece sospenderei il giudizio). Jankovic è (ancora) il classico giocatore nel limbo: eterna incompiuta, o talento pronto a esplodere? Hallfredsson (a cui concediamo l’alibi di una condizione approssimativa) a questi livelli è meno esplosivo. Poco convincente anche Rafael: tante buone parate, ma in tilt nel momento determinante. Va rivisto. Cosa funziona invece? Il centrocampo (Hallfredsson a parte) e non è poco. Donati (su cui mi devo ricredere) è fondamentale nel gioco di Mandorlini. Jorginho ha classe superiore. Martinho è da grande squadra. Riproponendo Romulo e tenendo in considerazione Sala, in mediana teniamo il passo. Bene a metà il modulo: questo 4-5-1 è una buona base di partenza (a patto ci siano Romulo o Sala, che sanno ripartire), mentre latitano le variabili in corsa, sia in termini di uomini (compito di Sogliano) che di tattica (lavoro di Mandorlini).

Queste considerazioni incidono anche sul mercato. Sogliano ha in colpo l’attaccante Iturbe e si sta muovendo per un terzino sinistro, ma con un paio di colpi extra per rimpolpare la panchina mi sentirei più tranquillo. La chiusura del mercato e la sosta arrivano con tempismo perfetto. E anche il Sassuolo. C’è il tempo di sistemarsi, in attesa del primo banco di prova con una diretta concorrente. Fiducia, ma antenne dritte.

P.S. Grave aggressione di un gruppetto di ultras romanisti contro il pullman della squadra. Ricordo anche l’aggressione subita dai tifosi a Palermo. Dove sono e cosa dicono i “moralizzatori” del Palazzo?  Attendo seriosi dibattiti Malagò-Casarin; aspetto solenni interviste ad Abete; confido in lenzuolate della Gazzetta. Lo so, è più facile vedere Galeazzi magro e Mazzari e Conte vincere “Mister Simpatia”.

 

LA GENIALITA’ DI UNA TIFOSERIA

Istantanea di un indimenticabile sabato pomeriggio: la faccia di Galliani già a fine primo tempo. Nera come la pece, più che accigliata direi funerea. Avreste dovuto vederla, nemmeno il Teo Teocoli dei giorni belli sarebbe riuscito a far di meglio. Lì ho avuto la sensazione che avremmo vinto. Il Milan era già col fiato corto e la testa altrove. Il Verona, seppur non al meglio e con ancora delle falle da sistemare sul mercato (e questo, sia chiaro, è un rafforzativo dell’impresa), padrone del campo.

Suspense finale di un memorabile 24 agosto: Mandorlini negli ultimi dieci minuti. Un leone in gabbia, credo sarebbe voluto entrare in campo anche lui a contrastare gli (sterili) assalti finali del Milan. Un doppio applauso al mister: per come ha disposto la squadra (un 4-1-4-1 “inglese”, fisico, corsaro e verticalizzante che ricordava il suo Verona più bello, quello del girone di andata di due campionati fa) e per il look. In tuta come un vero allenatore e non in abito com’è (quasi) d’obbligo, purtroppo, in una serie A che ha trasformato i tecnici in anonimi manager Pubblitalia, tra conferenze stampa più pallose di un meeting aziendale e banali completi tutti uguali (rimanga in tuta mister!).

Emozioni di un letterario ritorno nel calcio che conta (perché Verona-Milan è un romanzo classico): il trio brasileiro. La completezza di Jorginho, classe e tempismo, geometrie e dinamismo. Ci credo che il Milan lo vuole, uno così ne fa (almeno) due di Montolivo (che è il meno peggio della mediana milanista). Spero resti.  La cifra tecnica di Romulo. Qualcuno aveva dubbi sull’ex Fiorentina, io no, l’unico dubbio è perché la Fiorentina non se lo sia tenuto. La forza, la velocità e la sfacciataggine di Martinho, ancora al 70%, ma lui può far male a qualsiasi avversario già così.

Gesti eterni in un Bentegodi da brividi: quelli di Luca Toni. Il secondo gol è un gesto tecnico straordinario (preziosismo da rivedere anche l’assist di Jankovic). Toni è un campione, questo si sapeva. Va gestito e preservato, ovvio. Ieri Mandorlini l’ha fatto, togliendogli l’incombenza del pressing sul primo portatore di palla (cosa che era richiesta a Ferrari). Questo comporta qualche rischio, ma per un Toni del genere ne vale la pena. Giocherà così le altre 37 partite? No, ma Longo è più di una scommessa e credo che anche lì davanti (dietro lo do per scontato) qualcosa ancora si muoverà sul mercato (sia in entrata che in uscita).

Colpi di genio di una tifoseria: quella gialloblù. Molti (fuori Verona) l’avevano rimossa in questi anni di purghe sportive del club. E sono tornati a parlarne (vedi Gazzetta con due pagine due) solo per il (a detta loro) razzismo. La risposta? Grandi numeri, tifo intenso (è stata un bolgia, il Bentegodi sembrava l’Anfield, chi canta così in Italia?) e corrosiva ironia (unica nel suo genere). Come m’ha scritto un amico e tifoso storico: “Abbiamo preso per il culo il Sistema”. Già e la sensazione è la stessa dell’aver visto la faccia di Galliani. Perché hanno voglia le anime belle a insegnarci che non si deve godere delle disgrazie altrui. Invece io godo del Palazzo e del suo plotone d’esecuzione di cortigiani gufi zittiti. La realtà è che farsi beffe di chi ti sta orgogliosamente sulle palle è incommensurabilmente bello. Bugiardo e triste chi lo nega. Chapeau.

P.S. E’ stato bello esserci. Da due mesi sono all’estero per lavoro, e farsi in un giorno Bruxelles-Charleroi-Orio al Serio-Stadio-Orio al Serio-Charleroi-Bruxelles per il Verona è stato un piacere, non una fatica. Lo sarebbe stato anche se avessimo perso, perché chi, come noi, undici anni fa era a Piacenza, sa cosa voleva dire esserci ieri. Il significato andava oltre alla partita. Come ho scritto sul mio profilo Facebook alla vigilia: “Non è la partita, è il senso di essa”. La vittoria è la chiusura del cerchio perfetta. Ce lo meritiamo.

P.P.S. E dopo l’indimenticato “Mario su”, sbandieratore del mito gialloblù, ieri è toccato a “Mario giù”. Del resto il Bentegodi ha spento Rivera e zittito Van Basten. Figurarsi se non poteva atterrire un Balotelli.

 

BALOTELLI E… IL PLOTONE D’ESECUZIONE

Eccoli lì, pronti. Fucili spianati e pallottole cariche. Ci osservano a distanza, sadicamente speranzosi. Monitorano i nostri gesti, battiti di ciglia e lievi contrazioni del labbro comprese, come condor spietati. Ricordano quei giornalisti che preparano i “coccodrilli” prima che il morto muoia.

“Dai ululate, abbiamo già pronto il titolo”, sembrano dirci di sottecchi, giornalisti nazionali e compagnia di giro. “Su forza, abbiamo già studiato le sanzioni”, vorrebbero implorarci con infinita ebrezza, dirigenti di palazzo e cortigiani vari.  Gemono già pronti all’orgasmo, dopo lunghe settimane di petting e un amplesso che sperano breve (l’inchiostro è caldo). Avvoltoi pronti a radunarsi copiosi sul cadavere. Balotelli – e poi chissà chi altro – sono solo le loro esche (complici o involontarie poco importa) nella battaglia più ipocrita che esista al mondo: il razzismo negli stadi. Battaglia redditizia, specie in termini di voti (c’è chi in FIFA grazie alle federazioni africane ci ha costruito una carriera).

Perché il razzismo (quello vero) è una piaga troppo grande e complessa, frutto di fattori antropologici, sociologici e (anche) psicologici, per ergere a testimonial i Boateng, i Thuram e lo stesso Balotelli. Che si prestano volentieri, ci mancherebbe, un po’ per sensibilità e un po’ (forse) per marketing, perché adesso il carro tira da quella parte, ma che non credo abbiano molto in comune coi Martin Luther King, o Mandela, in termini di ideali, passioni e fervore civile.

C’è Verona-Milan sabato, occasione troppo ghiotta per lor signori. Sono già pronti i “coccodrilli”. Ha cominciato quel giornalista brizzolato e capellone, un mese fa (lo stesso che spaccò il capello in quattro per difendere Cellino ai domiciliari), col pretesto di un suo follower su twitter, poi cancellato. Ha continuato, a pochi giorni dal match, una rivista americana, domandando lumi a Balotelli sui “tifosi del Verona che notoriamente sono i più razzisti d’Italia”. Una provocazione bella e buona, risaputi i rapporti non facili (per vecchie dichiarazioni dell’attaccante, all’epoca all’Inter, sulla città di Verona) tra i tifosi dell’Hellas e il centravanti del Milan, il quale, di grazia, non ci è cascato e morta lì.

Lo stesso devono fare tutti i tifosi del Verona, sabato. Non cedere alle eventuali smargiassate di Balotelli, che per indole tende a provocare e ad attirarsi antipatie. Fa parte del personaggio, te lo aspetti. E’ come vedere Paperon de’ Paperoni tuffarsi nel deposito di monete. Fa parte della narrazione. Ragion per cui è ininfluente quello che Balotelli combinerà fuori dalla sfera agonistica.

Nessuna reazione. Il plotone d’esecuzione è lì: non aspetta altro; e anche Balotelli sotto sotto ci spera, per assurgersi a simbolo dei diritti civili (“spero non dicano nulla, in caso contrario dirò qualcosa io” ha già anticipato). Balotelli come Mandela: sarebbe grottesco (e insopportabile). Lo volete? Io no.      

  

 

CHE VERONA SARA’?

Tra Pirandello e Beckett. Aspettando il Verona in cerca d’autore. Mi perdoneranno dall’oltretomba i due autori, che mescolo e profano con disinvoltura incurante, ma questa è la realtà a pochi giorni dall’esordio col Milan.

Che Verona è? Una squadra ancora in cerca di una sua fisionomia precisa. E non solo per il modulo variabile (4-5-1 o 3-5-2). Oltre a discutere sul come giocare (e per questo su tggialloblu.it c’è Marco Gaburro), infatti, è opportuno capire con chi farlo. Perché, calcio moderno o meno, i calciatori vengono prima dei moduli. Questa la filosofia di Sogliano, che ha portato a Verona interpreti duttili, un po’ per scelta e un po’ per necessità (con un budget limitato, il ds si è concentrato, per sua stessa ammissione, soprattutto sul valore tecnico dei giocatori e non sulle loro caratteristiche rispetto a un modulo designato, filosofia invece cara al Chievo e a Sartori). In attesa di Longo e degli ultimi innesti (“un centrale difensivo e un terzino sinistro che possa giocare a quattro e a cinque”, mi ha confermato ieri pomeriggio Sogliano), questa duttilità della rosa permette a Mandorlini di poter variare l’assetto tattico, fatto salvo l’unico suo mantra inviolabile: il centrocampo a tre.

Il tecnico di Ravenna, senza dimenticare il vecchio e caro 4-5-1, ha proposto con insistenza il 3-5-2. Motivo? Mantenere il tridente in mediana, appunto, e salvaguardare un patrimonio tecnico come Toni, affiancandogli una punta. In serie A, infatti, il Verona difficilmente potrà giocare stabilmente nella metà campo avversaria, al contrario, spesso si ritroverà nella propria e dovrà saper ripartire. E nel 4-5-1 Toni rischierebbe di ritrovarsi isolato e inefficace, a sbattersi in un vano e faticoso lavoro. Un desolante e controproducente canto del cigno a 36 anni. Con due punte fisse, invece, il Verona può risalire il campo con più facilità. Almeno questa è la speranza dell’allenatore. La scelta sinora ha pagato solo in parte: Toni fa gol, ma il Verona di Palermo ha sofferto gli avversari non poco.

Ma, detto dell’ex campione del mondo, su chi altri punterà Mandorlini? Il tecnico del Verona sembra considerare intoccabili Maietta e Moras (e qui ho qualche perplessità, per usare un eufemismo). Il terzo centrale potrebbe essere Gonzales (adesso infortunato), o il mister X che sta inseguendo Sogliano. Non sembra esserci spazio, almeno in partenza, per il giovane e promettente Bianchetti, sul quale la società, al contrario, punta tantissimo. E questo è il primo nodo della stagione. L’esterno destro sarà Sala (o Romulo), quello sinistro Martinho (alternativa il terzino che arriverà). Agostini, adesso pure infortunato, con questo assetto è tagliato fuori (non ha il passo per coprire tutta la fascia), mentre rientrerebbe in corsa con la difesa a quattro. Idem Cacciatore, che tuttavia potrebbe riciclarsi come centrale dietro.

A centrocampo Mandorlini può sbizzarrirsi. La mediana è il settore che eccelle per abbondanza e duttilità dei giocatori. Jorginho se dovesse restare (probabile, ma non scontato, aspettiamoci di tutto) è giustamente intoccabile. L’allenatore lo vede come interno destro, con Donati davanti alla difesa e Halfredsson mezz’ala sinistra. Certo, preferire Donati al sopraffino Jorginho sembra un azzardo. Talento alla mano, la soluzione più ovvia sarebbe riportare in regia il brasiliano, con l’inserimento di Romulo (o Laner) alla sua destra e Halfredsson (o ancora Laner) alla sua sinistra. Già Laner: l’altoatesino, con caparbio cipiglio, col Palermo ha lanciato un messaggio: lui è riserva solo per i giornali estivi  Non dimentichiamo infine Cirigliano, al momento nelle retrovie, alternativa a Donati e Jorginho davanti alla difesa, e che gli esterni Sala e Martinho possono giocare anche interni. Difficile invece, in questo contesto, collocare Jankovic, più utile in un 4-3-3 come esterno offensivo. In qualunque caso e con qualunque modulo, Martinho gli parte davanti.

In attacco Toni non si discute (specie questo Toni), Cacia e Gomez se la giocano, mentre Longo (voluto fortissimamente da Mandorlini) rappresenta più di un’alternativa all’ex nazionale. Sogliano dice che con il giovane di scuola Inter il reparto è a posto, ma non sono da escludere colpi dell’ultima ora, sia in entrata che in uscita.

Questo è il Verona oggi. Una squadra costruita con pochi soldi, tra prestiti (con opzioni sul riscatto) e parametri zero. E lo diciamo senza storcere il naso. Per una neopromossa è (quasi) normale. Fa eccezione il Sassuolo, ma lì c’è il magnate Squinzi. Sogliano, dunque, ha fatto le classiche nozze coi fichi secchi e ci ha messo fantasia. Anche competenza? Lo scopriremo solo vivendo, come scrisse Mogol e cantò Battisti. Ma senza “il nastro rosa”. Sarà battaglia, è d’obbligo un Verona maschio.

 

 

 

HELLAS O VERONA?

Alambiccamenti filologici. Siamo il Verona, o l’Hellas? Ricordo lo spot di quel marchio di maglieria intima degli anni ’80: “Si dice liàbel o liabél?”. Alla fine la voce fuoricampo risolveva la querelle: era liabél e basta. Ma lì era solo una questione fonetica, di accenti. Scusate la disgressione profana.

Torniamo alle cose serie: è Hellas o Verona? Ok tutte e due, ovvio. Ma c’è di più a ben guardarla. Nei cori in curva sud la scelta non si è mai posta. Alcuni di essi inneggiano al Verona, altri all’Hellas. Ed è giusto, per il tifoso sempre della stessa squadra si tratta. Infatti. Ma non è questo il punto: la vertenza, infatti, riguarda la rappresentazione esterna (fuori da Verona) del club e il legame tra il medesimo e la città. Per questo è rilevante decidere se ci piace di più Hellas o Verona.

Tuffiamoci nella storia. Nel 1903 gli studenti del Maffei fondarono l’Hellas. Tuttavia nel corso dei 110 anni abbiamo cambiato più volte denominazione. Ricordate l’AC Verona del 1957, che ottenne la prima promozione in A, e la mitica canzone dei nostri vecchi: “Forza l’AC Verona la squadra del cuore…”? Divenne Hellas Verona AC solo l’anno seguente, fino al 1991, data del fallimento, allorché il nome Hellas malinconicamente sparì e mutò in Verona FC. Nel 1995  il “marchio” Hellas venne riacquisito dai Mazzi e si passò alla denominazione attuale Hellas Verona FC.

Fu proprio il 1995 l’anno della svolta. Fino ad allora per tutti (dentro e fuori le mura) eravamo (innanzitutto) il Verona, al massimo l’Hellas Verona, o il Verona Hellas. Dal ‘95 la vox populi – in un sussulto di comprensibile fierezza per la riacquisizione del nome Hellas – ha (via via sempre più spesso, sino alla degenerazione attuale) cominciato a chiamare la squadra con la denominazione greca, spargendo i semi, inconsapevolmente, di un sottile, ma non trascurabile equivoco.    

E qui entra in gioco, incolpevolmente, anche il Chievo. Nel 1990 Luigi Campedelli decise di cambiare la denominazione del suo club in ChievoVerona per identificarlo maggiormente con la città. Legittimo, perché Chievo è una frazione di Verona. Era il periodo in cui il Verona, da poco retrocesso, contestualmente navigava in cattive acque finanziare e Campedelli senior, l’anno dopo, avrebbe tentato di rilevarlo dal fallimento (diversi giornalisti hanno scritto e affermato più volte che l’idea di unire i due club balenava già all’epoca).  

In realtà il Verona fu acquisito nel 1991 dai Mazzi (come Verona Fc, appunto) e tornò in A, mentre il ChievoVerona continuò a navigare in serie C ancora per qualche stagione. Il discorso lì per lì sembrò chiuso e nessuno diede troppo bado a quel nome “ChievoVerona”. In fin dei conti era la denominazione di un piccolo club ancora lontano dalla ribalta.

Adesso è il 2013 e molto è cambiato. Il ChievoVerona è ormai una realtà consolidata in serie A, conosciuta e rispettata in tutta Italia, mentre l’Hellas Verona si riaffaccia nel calcio che conta dopo undici anni.

E qui si palesa l`equivoco, dunque ripasso dal via e torno all’incipit. Siamo il Verona o l’Hellas? Pur amando (da tifoso) il nome Hellas e conscio che nel 1903 nacque l’Hellas, nella vulgata mediatica preferisco Verona, perché il club è ancora LA squadra della città che la rappresenta in giro per l’Italia, e non “solo” UNA delle squadre della città. Riconoscendosi soprattutto come Hellas, il rischio è relegare il nome Verona a semplice corollario, in comune, appunto, ad altre illustri concittadine, rinunciando alla riaffermazione del proprio primato sin dal nome.  

Sottigliezze? Cazzeggio estivo del sottoscritto? Io rimango della mia: la differenza spesso la fanno i dettagli. Si tratti di nome, maglie, colori sociali da rispettare, o simboli.