L’ATTO D’AMORE DI MARTINELLI

La storia di Giovanni Martinelli al Verona nasce il 30 gennaio del 2009 da un atto d’amore. Quello per suo figlio Diego, morto dieci anni prima in un incidente stradale e tifoso dell’Hellas. Giovanni Martinelli comprò il Verona, dopo una lunga rincorsa (ci provò già ai tempi di Pastorello), proprio in omaggio al figlio scomparso. Parto da qui, perché questo spiega molte cose avvenute poi. Spiega la tenacia e la costanza con cui Martinelli tirò fuori dalle secche (finanziarie e sportive) il club. L’irrazionalità per cui un imprenditore così oculato potesse sborsare fior di quattrini per una società di calcio dissestata e di cui, sino ad allora, non era stato neppure granché tifoso. La ribellione alla fusione col Chievo, che in un primo momento avallò, salvo poi far saltare il tavolo a cose (praticamente) fatte.

C’è un emozionante contrasto nella storia di Martinelli al Verona. L’amore per il club che di giorno in giorno cresceva man mano che la malattia debilitava e rimpiccioliva il suo corpo. Una storia di presenza e di coraggio. Il coraggio di mostrarsi in pubblico nonostante il visibile male: un gesto non banale per uno come lui, abituato a comandare e non certo a farsi compatire. Un gesto che nella sua essenza spiega tutto del personaggio: la missione, lo scopo erano più importanti di qualsiasi narcistica vanità.

Martinelli (forse) è stato il presidente più importante della storia del Verona. (Forse) più di Giorgio Mondadori, il patron della prima serie A. (Forse) più del mitico Saverio Garonzi, l’uomo che lanciò il Verona stabilmente ai massimi livelli. (Forse) addirittura più di Tino Guidotti, il presidente dello scudetto (ma il proprietario era Nando Chiampan). Certo, l’uomo di Sandrà – tanto minuto nel fisico e bonario nei modi, quanto deciso e determinato nella tempra – il Verona non l’ha portato al tricolore e neppure in serie A, ha “solo” (si fa per dire) compiuto un miracolo che non risulterà mai in nessun albo d’oro: l’ha salvato da morte certa.

Quando nel gennaio del 2009 Martinelli acquistò il Verona dal povero Arvedi, infatti, il club era praticamente in bancarotta, privo di liquidità in cassa, spogliato nel patrimonio (i giocatori erano quasi tutti in prestito) e sommerso dai debiti. Martinelli tentato inizialmente dalle sirene della fusione (un desiderio più subìto che voluto a onor del vero), si fece perdonare cogli interessi: azzerò i debiti e spese fior di quattrini per farci uscire dall’inferno della serie C. Ci riuscì al secondo tentativo (dopo che il fallimento del primo avrebbe ammazzato un toro), coadiuvato dalla bravura di Mauro Gibellini (subentrato al borioso Bonato) e soprattutto dal carisma e dalla “follia” incazzata di un Andrea Mandorlini all’epoca con le stimmate del Savonarola.

Martinelli stabilizzò il Verona in cadetteria, gettando le basi societarie e tecniche (blindò Rafael, Maietta, Jorginho, Gomez, Hallfredsson e lo stesso Mandorlini) per il salto in A, poi avvenuto grazie a Setti e Sogliano. Come tutti i grandi, quelli autentici (Lucio Battisti, Mina, Edberg, Platini, Prost), Martinelli ha saputo fermarsi al momento giusto, ne prima ne dopo. Un po’ la malattia che già avanzava, un po’ l’orizzonte di nuovi investimenti per lui insostenibili, capì che non poteva dare di più a una piazza che agognava la serie A. L’ultimo suo capolavoro è stato il congedo, cioè scegliere a chi cedere (Setti) e come (tenendosi il 10% delle quote per qualche mese, come garanzia morale).   

Si è guadagnato la posterità in eterno, Martinelli. Riposi in pace e felice, ha vissuto per lasciare il segno. Non lo dimenticheremo.

SETTI “BLINDI” SOGLIANO

L’intuizione più importante di Maurizio Setti, da presidente del Verona, è stata la prima. Ingaggiare Sean Sogliano. Il ds è l’uomo forte del Verona, probabilmente il principale artefice della promozione in serie A e del felice momento gialloblù. Lui non lo ammetterà mai, ovvio. Chi è bravo davvero non lo dice, eppoi Sogliano è un personaggio naif, anche fisicamente. Quello sguardo da bel tenebroso che piace tanto alle donne, infatti, è più da Centovetrine che da star hollywoodiana. Mentre le gambe vistosamente storte (stile ispettore Zenigata di Lupin), unite a una statura media e un fisico non troppo slanciato, lo allontanano in via definitiva dal rischio di sembrare un altero manager impettito.

Modesto, concreto e minimalista, Sogliano appare poco, ma è molto. Non ha l’ego smisurato di Mandorlini e nemmeno lo yuppismo rampante di Setti. Non ha neppure l’eleganza, il fine eloquio e l’espressione marmorea dell’altro direttore  gialloblù, il cardinalizio e cosmopolita Gardini. Le cravatte lui le soffre proprio (le porta di rado e sfilacciate), le interviste pure. Alcune sue conferenze stampa rimangono leggendarie, tra inglesismi declinati alla maccheronica (auzzaider), congiuntivi inesistenti, ma soprattutto la percepibile irrequietudine nel trovarsi lì, imprigionato a un rigido protocollo.

Sogliano – ex discreto difensore negli anni ‘90 e figlio di Riccardo, a sua volta ex giocatore (del grande Milan di Rocco e Rivera) e dirigente – è infatti un cavallo che ama galoppare libero. Senza briglie e altre imposizioni che non siano il budget (quello lo decide Setti). “Il presidente mi ha dato carta bianca, a differenza di altri” raccontò una volta. Gli “altri” sarebbero  Zamparini, che lo imbrigliò ai tempi di Palermo costringendolo a precoci dimissioni. “Ho stracciato tre anni di un ottimo contratto e rinunciato alla serie A, perché non potevo lavorare come volevo io. Non sono attaccato ai contratti e ai soldi, se non sento piena fiducia mi faccio da parte e tolgo il disturbo. Non si sta in paradiso a dispetto dei santi, questo principio lo applico anche a miei giocatori e allenatori” confessò a un Vighini Show. Un atto rivoluzionario nel Paese dove non si dimette mai nessuno.

Sogliano è un direttore sportivo anomalo nel calcio moderno. All’antica. Frequenta gli allenamenti e va in panchina, quando gli altri suoi colleghi girano l’Italia e il mondo tutto l’anno. I viaggi di lavoro lui li concentra in periodi circoscritti, soprattutto in estate. “Mi ispiro ai vecchi ds di una volta, quelli che stavano nello spogliatoio, vivevano la squadra, sedevano in panchina e supportavano quotidianamente l’allenatore. Quando mi hai definito badante mi hai fatto un complimento”, mi disse tempo fa. Nonostante sia uno degli uomini mercato più giovani, è già il “re” del Sudamerica (Iturbe e Cirigliano non li porti al Verona se non hai relazioni privilegiate). Il suo metodo di lavoro è tracciato. Non potendo il Verona  (come generalmente le piccole-medie società) contare su una fitta rete mondiale di osservatori, Sogliano ha la sua cerchia di intermediari e procuratori fidati, che gli segnalano i giocatori più interessanti secondo il budget indicato. Dopodiché va a vederli e, se gli piacciono, prova a ingaggiarli. Così sono arrivati Gonzalez, Marques, Cirigliano e Iturbe.

Le accuse che gli muovono i (pochi) detrattori sono essenzialmente due: l’anno scorso, nonostante la promozione, ha sbagliato diversi acquisti e ogni anno cambia troppo. La prima è in parte vera: Rivas, Carrozza, Grossi e Fatic (Bojinov e Crespo sono scelte presidenziali) hanno deluso, d’altro canto Cacciatore, Moras, Agostini, Laner, Martinho e Cacia (scusate se è poco) sono stati gli artefici del salto di qualità. “Cambiare tanto invece è stata sempre una necessità da quando sono a Verona”, mi ha detto la scorsa estate. “Il primo anno c’era da rimettere mano a una squadra che aveva fatto bene, ma aveva dato tutto, allora abbiamo portato giocatori forti per la B, pronti a vincere, così da andare sul sicuro. Per lo stesso motivo, appunto l’aver ingaggiato molti giocatori da B, quest’anno abbiamo dovuto cambiare ancora”.

L’importante è che non si sia costretti a cambiare lui. Sogliano può aprire un ciclo a Verona (va in scadenza nel 2015). Setti lo blindi.

P.S. Sogliano ovviamente va in scadenza nel 2015 avendo a giugno 2012 firmato un contratto triennale, come confermò lo stesso Setti al Vighini show del maggio scorso, a cui ero presente. Ho corretto lo sbaglio e me ne scuso coi lettori. E’ chiaro che la sostanza dell’articolo non cambia, dal momento che i contratti al giorno d’oggi non valgono in senso assoluto e che Sogliano è un ds emergente e già ambìto. “Blindarlo”, al di là di un eventuale prolungamento, significa continuare coi progetti ambiziosi che sembrano esserci.

 

MASSIMO FINI: “L’AGGRESSIVITA’ E’ PREZIOSA. ELIMINARLA E’ UN PERICOLO”

Copio e incollo un articolo di Massimo Fini uscito ieri sul Fatto Quotidiano. Non aggiungo altro

“Questa storia del Milan il cui campo è stato squalificato per un turno per ‘discriminazione territoriale’ perchè a Torino, durante la partita con la Juve, i tifosi rossoneri cantavano cori antinapoletani («Noi non siamo napoletani», embè?) non è solo grottesca, è pericolosa. Perchè in questa società che nella sua smania di ‘politically correct’ tende a reprimere tutti gli istinti e anche i sentimenti, come l’odio (vedi tutti i reati liberticidi previsti dalla legge Mancino cui adesso si è aggiunta anche l’omofobia per cui uno non puo’ più dare del ‘finocchio’ a un finocchio senza andare in galera) a favore di un’astratta razionalità, ci si è dimenticati che l’aggressività fa parte della vitalità e che volerla eliminare del tutto ha gravi conseguenze.

La prima è di svilirizzare un popolo. E questo è il motivo per cui noi ci troviamo tanto in difficoltà con gli immigrati soprattutto di origine slava che la violenza ce l’hanno, beati loro, nel sangue («Un po’ di violenza non fa mai mal/leggi un romanzo di Mickey Spillane» era uno slogan di anni un po’ meno codini dei nostri). La seconda è che a furia di reprimerla l’aggressività poi esplode in forme mostruose, molto meno innocue di un coro da stadio. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra lo sapevano e il loro sforzo è stato quello di canalizzare la violenza in modo da poterla controllare e tenerla entro la soglia di una ragionevole tollerabilità. I neri africani, maestri del genere prima che l’Occidente ne violentasse le culture, si erano inventati la guerra ‘finta’ (chiamata fra i Bambara rotana per distinguerla dalla diembi la guerra vera), levando le alette dalle frecce in modo da rendere il tiro impreciso e innocuo, la festa orgiastica. Fra gli Ashanti, tribù, un tempo, molto bellicosa, c’era una settimana in cui tutti potevano insultare a sangue chiunque, anche il re, senza conseguenze. Poi tutto rientrava nella normalità. In fondo anche il Carnevale europeo, finchè è stato tale, aveva questa funzione di sfogo. Fra i Greci il meteco, il ‘capro espiatorio’ che veniva sacrificato quando in città si creavano tensioni pericolose, aveva il significativo nome di pharmakos.

In tempi moderni lo stadio aveva fra le sue funzioni, non marginali, quella di canalizzare e rendere sostanzialmente innocue l’aggressività e la violenza che devono essere, entro certi limiti, tollerate, sugli spalti e in campo. Altrimenti si finisce con ‘i delitti delle villette a schiera’ come li chiama Ceronetti. In Sampdoria-Torino ho visto l’arbitro, Gervasoni, appioppare otto ammonizioni per contrasti che un tempo non sarebbero stati considerati nemmeno falli. Il campo di calcio è stato trasformato in una sorta di ‘tea party’. La Tv ha completato il tutto (sono stati quei morbosi segaioli di Sky a cogliere un coro che nessuno aveva sentito). Un calciatore che ha ricevuto un pestone tremendo non puo’ nemmeno urlare una sacrosanta bestemmia, che l’arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato, che, zac, la moviola la traduce sul labiale. La Tv ha invaso il sacrario. Basta, via, raus, foera de ball. Ridateci il calcio di una volta. «Un po’ di violenza non fa mai mal».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2013

VOLIAMO ALTO (SI PUO’)

“Quelli che fanno una vita da malati per morire da sani…”. Enzo Jannacci sbeffeggiava così i fanatici del salutismo, della purezza morale e della prudenza. La provocazione calza a pennello anche per gli adepti di quella che io chiamo “la retorica della salvezza” (tipico piatto calcistico in salsa italiana). Il Verona sbanca Bologna con una prestazione super per qualità, organizzazione e temperamento? Eccoli che arrivano puntuali i pompieri: “Pensiamo ad arrivare il prima possibile alla salvezza”. “Facciamo 40 punti e poi ne riparliamo”. L’Hellas è quinto in classifica? Getti e secchiate d’acqua dappertutto: “Il campionato è lungo”. Un disco rotto di ovvietà.

Attenzione, non addito dirigenti, giocatori e allenatore. Bagnoli vinse uno scudetto parlando di salvezza e dunque ben venga il Mandorlini saldo coi piedi per terra. Lo impone il suo ruolo. Il punto è che siamo noi tifosi – quasi  più saggi dei “saggi” di Napolitano – ormai a parlare come gli addetti ai lavori. Paura di sognare, o solo voglia di farlo in silenzio? Scaramanzia poco scaligera, o sano realismo questo sì molto veronese?  Chissà.

Eppure la realtà è lampante. Il Verona oggi al Dall’Ara ha confermato quanto già scrissi dopo il Livorno. La squadra è forte e Mandorlini la sente maledettamente sua (e si vede). Bologna derelitto? Forse, ma non lo fosse stato avremmo vinto comunque con uno scarto meno netto. E’ certamente presto per azzardare previsioni, ma forse non lo è per nutrire (facendo finta di niente, of course) qualche realistica e sana ambizione. Che non vuol dire presunzione (sia mai), ma consapevolezza del proprio valore. Voliamo alto, si può.

P.S. chi vuole discutere col sottoscritto sul Verona e il calcio in generale può intervenire anche cliccando “Mi piace” sulla mia pagina facebook.

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PROVA DI FORZA

Mi tocca scomodare Lubrano (e chi se lo ricordava?). Vedi il Verona, questo Verona, e la domanda appunto nasce spontanea. Sicuri che siamo solo da salvezza? Col Livorno tutto è girato (quasi) alla perfezione. Partita convincente, contro un buon avversario. Il Verona ha sempre dato la sensazione di governare il match. Al di là degli episodi. Certo, sarebbe andato sotto se non fosse stato per lo strepitoso riflesso di Rafael. Ed è vero che l’ingenuità di Bianchetti (poveraccio,  quella stupida intervista alla Gazzetta lo sta condizionando) l’ha costretto a ricominciare daccapo. Ma è stata una partita giocata a viso aperto sin dall’inizio e, forse, la prima vera prova di forza della squadra di Mandorlini. Tecnica, tattica e morale. E scriverei le stesse cose anche se avessimo pareggiato.

Possiamo sognare? La butto lì: sì. Non abbiamo fatto 10 punti in sei partite per caso. Siamo a punteggio pieno in casa e negli scontri diretti non abbiamo mai fallito. Quindi, sfidando la retorica, aggiungo pure che non siamo arrivati lì “sulle ali dell’entusiasmo”, come si usa dire in questi casi (la fantasia dei giornalisti a volte è pari ai centrimetri di pelle naturale della Santanché, alla carica erotica della Binetti e al carisma di Livia Turco). Anzi l’istinto proibito mi suggerisce: non siamo ancora al massimo. Sogliano ha costruito una rosa, dal centrocampo in su, ricca di talento e alternative (non è da tutti permettersi Martinho in panchina). Rafael, lasciata da parte qualche incertezza, dice la sua anche in questa categoria. Mandorlini, come i giocatori, sta scoprendo la serie A, che in passato aveva solo assaggiato. Credo che col tempo, abbandonati gli eccessi di timidezza tipici del neofita, il Verona sarà ancora più autorevole e, perché no, a tratti spregiudicato, in modo da sfruttare la sua forza d’urto in avanti e coprire le falle dietro. Le fondamenta (leggi l’organizzazione che Mandorlini e staff hanno dato) ci sono già, si tratta ora di inserire appieno alcuni nuovi (Iturbe e Cirigliano in primis) per l’ulteriore salto di qualità.

Del resto, grandi a parte, chi può schierare un tridente come Toni-Iturbe-Martinho? Con Gomez, questo Gomez, un ragazzo dall’umiltà calcistica straordinaria, ottima alternativa? E Jorginho e Romulo in mediana quante altre li hanno? Resta il nodo Hallfredsson, come detto. Mandorlini spiega che ha bisogno di giocare per entrare in forma. Un déjà vu, non vorrei si ripetessero  gli errori del passato, specie se hai in batteria Donati e Cirigliano e un Sala tutto da scoprire. E la difesa? E’ l’anello debole e si sapeva. Aggiungici gli infortuni. Da che mondo e mondo, cambiare i centrali ogni partita non aiuta a perfezionare i meccanismi. Lì va trovata, più prima che poi, continuità. Gonzalez e Moras potrebbero essere la coppia del futuro, intanto Marques, con mezzo reparto in infermeria, scalpita per Bologna.

Ma non c’è solo il valore tecnico dell’organico. E’ che questa squadra, a differenza dell’anno scorso, piace da matti e in tutto per tutto al suo allenatore. Si può crescere, è possibile. Non è questione di essere incontentabili (è bello già così), ma di prendere convinzione dei propri mezzi. Parlavo nell’ultimo blog dell’attuale calcio contabile, fatto di liste bloccate nell’alta classifica e della corsa ragionieristica ai fatidici 40 punti nella bassa. E’ così e noi siamo solo una neopromossa. E conosciamo l’obiettivo (non vorrei che presto imparassimo a conoscere anche il sistema, leggi arbitri). Ma l’ho scritto l’altra volta e lo ripeto: a me piace sognare. Anni di vacche magre, un po’ di pancia piena non ci fa male.

MANDORLINI RICORDI DUE ANNI FA?

Si può definire un 2-2, scialbo? Sì, si può. Non ingannino infatti le apparenze. Ieri al vecchio Comunale, ora Olimpico di Torino è andata in scena la partita del “giochiamocela, ma senza farci troppo del male”. Squadre stanche, con la testa anche al prossimo impegno (il Toro ha il derby e il Verona ospita il Livorno) e una discreta classifica. Ritmi blandi, gol episodici. E la sensazione che nessuna delle due squadre volesse del tutto affondare i colpi. Il 2-2 di ieri è tutto qui. Ma, si sa, il calcio moderno ha trasformato sogni e ambizioni in ragionieristici calcoli contabili. Un calcio nel quale si gioca troppo e male (venti squadre, troppe) e le piccole-medie società a più di tanto non possono ambire. C’è il porcellum anche qui, le liste dei posti che contano infatti sono (quasi) bloccate e chi, per caso o per merito, una volta nella vita si è insediato nel gotha (Chievo e Samp in Champions) fatalità l’anno dopo è retrocesso. Quindi? Le energie meglio concentrarle per arrivare a 40 punti e salvarsi. E morta lì (ok ne puoi fare anche 50 ma cosa cambia?).

Comprensibile. Troppo importanti i diritti televisivi, ma non solo. La permanenza serie A ti garantisce, ad esempio, anche di non svendere i gioielli in rosa (a giugno se retrocedi Jorginho non vale gli stessi soldi). Tuttavia mortificante. I sogni sono sogni, il tifo è tifo e io vorrei vedere il Verona sempre vincere, o provarci perlomeno. Ma il calcio di oggi è questo e non è colpa dei Setti, dei Campedelli, dei Cairo o dei Garrone di turno. Loro si adattano. Eppoi, diciamocelo, noi stessi tifosi ormai ci siamo contabilizzati. Quante volte sento e leggo frasi tipo: “Dobbiamo solo arrivare a 40 e salvarci”? Il calcio nel senso di sport è morto tra il 1994 (esplosione pay tv) e il 1996 (sentenza Bosman), due terremoti.

Quindi che dire di ieri sera? Che Toni è indispensabile (il gol di Gomez è quasi tutto suo), che abbiamo le qualità tecniche per giocare più “alti” e propositivi e che Cirigliano, se è quello di ieri, deve giocare sempre (sottolineo anche le sue scarpette nere, old style). Se gli anni ’80 sono finiti e i sogni di gloria anche, mi piacerebbe perlomeno tornare a divertirmi. Marco Gaburro, provocatoriamente, ha scritto che il dna di Mandorlini è questo e non può cambiare. A pensarci bene, non sono d’accordo. Mandorlini è lo stesso che due stagioni fa nel girone di andata diede spettacolo. Era un Verona equilibrato e propositivo allo stesso tempo. Perché non riprovarci? La butto lì, con Cirigliano si potrebbe riproporre quel Verona. L’argentino davanti alla difesa e Jorginho qualche metro più avanti falso trequartista alla Falcao. Romulo e Martinho mezz’ali. E due punte: Toni ovviamente e uno a scelta tra Iturbe, Gomez, Longo e Cacia (sbizzarritevi) in base all’avversario. Mandorlini ricordi due anni fa?

MANDORLINI-DOC: RITORNO AL FUTURO

Ha ragione Mandorlini. “Le partite sono tutte uguali, avremmo dovuto gestire meglio il vantaggio”, la sua secca e un po’ scorbutica risposta al solito stupido cliché autoconsolatorio “non sono queste le partite in cui fare punti” (genere “quella non me la dà perciò non mi merita” e intanto vai di pratiche onanistiche).

Ha torto Mandorlini quando, indirettamente, accusa i suoi difensori per i gol presi. E’ vero, Bianchetti e Moras si fanno gabbare ingenuamente da Tevez e Llorente, tuttavia se tu dal primo minuto ti arrocchi in un catenaccio alla Rocco, è probabile che prima o poi i tuoi difensori, che non sono Nesta e Baresi, sottopressione sbaglino.

Ieri è stato un “Ritorno al futuro” con Mandorlini in veste di Doc e la mitica DeLorean a riportarci alle marcature a uomo. Sono tornato bambino, agli anni ’80. Romantico ed epico. Del resto sono tempi da “nostalgia canaglia”. Berlusconi rifonda Forza Italia e Storace dice che bisogna rifare AN. Da un po’ si son perse le tracce di Pizza, quello della nuova DC, ma aspetto fiducioso. Quindi il Mandorlini retrò ha tutto il diritto di esistere. Tuttavia mi chiedo se il Verona abbia le caratteristiche per giocare in trincea. Gonzaléz a parte, non vedo in rosa grandi marcatori (lo avevo già ribadito dopo la sofferta vittoria col Sassuolo, quindi il mio ragionamento prescinde dal risultato e dall’avversario). Non sarebbe forse il caso di essere più propositivi per alleggerire le responsabilità della terza linea?

Perché un problema difesa c’è, inutile negarlo. Ieri appena la Juve ha cominciato a fare la Juve è stato un tiro al bersaglio. Non inganni quindi il 2 a 1. Qualcuno mi dirà, ma quello di Moras per il resto è stato un partitone. Risposta: a certI livelli per il resto non conta. Moras una sbavatura ogni partita la fa. Bianchetti? Ancora acerbo. Per carità di patria non infierisco sulla sua intervista polemica alla Gazzetta, dico solo: l’Under 21 non c’entra nulla con la serie A. Anche Maietta, pur non sfigurando, nelle prime due partite, qua e là, qualche incertezza l’ha avuta. Bene invece Gonzaléz: el Patron sa il fatto suo. Aspetto Marques.  

Note a margine: perché insistere su Hallfredsson? Questo Hallfredsson soffre. Il centrocampo è il reparto più fornito, chiedo modestamente al mister: certe gerarchie sono eterne? Idem l’attacco, Longo è stato voluto a Verona da Mandorlini, che si è pure prodigato di persona per portarlo all’Hellas. Davvero l’ex Inter vale meno di Cacia e soprattutto Gomez? Iturbe è utile schierato, in pratica, da terzino?

Domande in serenità, perché rispetto a un mese fa, vigilia del campionato, sono più tranquillo. Ci sono squadre più scarse della nostra e la salvezza è alla portata.  

 

p.s. I 3 mila veronesi allo Juventus Stadium dopo il nostro 1-0: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”. Strafottenti, incuranti, corrosivi. Fantastici. Verona style.    

 

   

 

 

TUTTI GLI UOMINI…DI MANDORLINI

Gene Gnocchi, giocando su un francesismo, ironizzava sulla fortuna di Sacchi chiamandola cul-de-Sac. Mandorlini è un uomo fortunato? Si è detto e scritto che il 2-0 di ieri è ingeneroso nei confronti del Sassuolo, padrone del campo per tutto il secondo tempo. Analisi da fattucchieri, con tutto il rispetto. Fortuna e sfortuna li lascerei agli scaramantici devoti di San Gennaro. Io più marxianamente adotto il profilo materialista.

Sassuolo sfortunato? No scarso, cioè impreciso in rifinitura e sotto porta. Al resto ci ha pensato il (questa volta) bravo Rafael. Contro un avversario un attimo decente sarebbe andata diversamente, questo è chiaro. Ammetterlo serve a crescere e a non cullarsi sugli allori di sei punti che comunque ci teniamo ben stretti.

Mandorlini fortunato? Vecchia questione, risolta da lui stesso con una delle sue battute più riuscite: “Meglio fortunati che sfigati”. Come dargli torto. Premesso che la “sindrome da trincea” (leggi arretrare a difendere il vantaggio) è un vizio storico del suo Verona, ho ragione di credere che negli scontri diretti spesso avremo questo atteggiamento. Questo è il calcio del mister, non ci si scappa, magari poco elegante ma sinora piuttosto redditizio. Quindi il problema non è tanto il “ci difendiamo” (embè?), semmai il “come ci difendiamo”. Ergo bene o male? Qualche sbavatura c’è e va limata, onde evitare guai con Torino, Livorno, Bologna e Parma, le prossime pari fascia, di ben altro spessore rispetto ai neroverdi del bilioso Di Francesco. Ecco perché continuo a rimanere perplesso sulla difesa e i suoi interpreti (se vuoi giocare in trincea servono marcatori più bravi). Maietta, Moras e Bianchetti, per motivi diversi, a questi livelli ci possono stare, ma non assieme. Manca un leader. Forse lo è Gonzales che da pedigree è il migliore che abbiamo. Presto sarà pronto. L’altra perplessità è su Cacciatore, benché al momento non veda alternative al “tronista”. Sala è più offensivo e Romulo (anche ieri straordinario) per ora è meglio lasciarlo dov’è.   

Mandorlini comunque un messaggio in queste prime tre giornate l’ha lanciato: lui preferisce (ancora) la vecchia guardia. Col Sassuolo, a parte Romulo, ha schierato la squadra dell’anno scorso. Ok mancava Toni, ma col campione del mondo sarebbero stati pur sempre nove i superstiti. Tanti in rapporto al movimentato mercato di Sogliano.

La situazione però è in evoluzione. Il tecnico di Ravenna ha fatto capire che qualche posto è ancora in ballottaggio e qualche altro lo potrebbe presto essere. In difesa i titolari sono ancora quelli della B, ma Gonzales appunto, Bianchetti, l’impiego di Albertazzi a sinistra e di Romulo a destra sono soluzioni che Mandorlini ha in testa. Assodato che a centrocampo i titolari sono Romulo, Jorginho e Halfredsson, con Donati primo cambio, al momento è il terzo tassello del tridente offensivo a non avere ancora un padrone. Martinho e Toni non si discutono. Cacia ieri ha deluso (quanto varranno ancora le gerarchie tirate in ballo dallo stesso allenatore?). Gomez è troppo timido. Jankovic discontinuo. In attesa di Longo, il pensiero di tutti corre a Iturbe. Che sia lui il giocatore con cui spiccare il volo? Chissà, per adesso godiamoci questo brillante avvio.           

 

   

 

   

CAVALLO PAZZO

C’è sempre un inizio. Una prima immagine che poi è per tutta la vita. Gli amori nascono così. Pioveva in quel pomeriggio dell’11 ottobre del 1987 e io a San Siro bagnai (è proprio il caso di dirlo) la mia prima trasferta. Un regalo anticipato del mio settimo compleanno. Inter-Verona, viaggio in treno con famiglia. All’epoca con l’Inter si era gemellati e l’unico “fuori programma” da bollino rosso accadde durante il viaggio di ritorno, passando da Brescia, quando i tifosi intonarono un famoso coro in rima sulla facilità amatoria – diciamo così – delle bresciane.

Ma io ricordo soprattutto lui: Preben Larsen Elkjaer, dall’altro ieri splendido 56enne, il più grande giocatore che abbia mai vestito la maglia del Verona. Il colpo di fulmine  si riverberò presto in amore ed esplose tutto in un’azione: contropiede, Pacione all’ala sinistra che appoggia per il nostro “Cavallo Pazzo”, controllo di coscia-ginocchio e destro al volo in corsa da fuori area. Zenga trafitto, San Siro ammutolito. Gol. Uno dei suoi più belli di sempre, quasi che l’avesse segnato apposta per me, piccolo esordiente nell’atto d’iniziazione di una passione che si sarebbe rivelata poi infinita, anonimo spettatore tra i tanti di così nobili gesta.

Era un Preben già al tramonto, in quella che sarebbe stata la sua ultima stagione in gialloblù (traumatico per me l’abbandono, in coda in autostrada sulla Uno45 Super blu-azzurra verso San Benedetto del Tronto, mio padre alla guida, mia madre con in mano L’Arena che titolava l’addio).

Preben era classe e potenza, ma anche molto altro. In una parola, passione. Voglio dire, zero calcolo in campo, gioia, rabbia, esaltazione, ira. Istinto. Guasconeria nordica, raffinata, intelligente, maliziosa. Sguardo solare e tagliente allo stesso tempo. Originalità. Già dal nome. Avrebbe potuto farsi chiamare Larsen, ma in Danimarca è come chiamarsi Rossi. Sarebbe stato uno dei tanti. Ve lo immaginate lui tra i tanti? No, lui scelse Elkjaer, il cognome della madre.

Elkjaer era uno stato d’animo in moto perpetuo in tutte le sue sfumature. Come la natura, che non riposa mai, si evolve e ritorna. E qui scivolo nel secondo aneddoto. Verona-Pescara, 22 novembre dello stesso anno, un 2-0 (quasi) comodo. Passiamo in vantaggio già nel primo tempo con Pacione, ma nella ripresa mentre attacchiamo sotto la curva nord, dove sedevo io (all’epoca era aperta ai veronesi e con la curva esaurita era il settore popolare per eccellenza), sotto di me vedo Elkjaer incazzato nero che smadonna per conto suo a gioco fermo. Nel primo tempo aveva preso una traversa, fallito un rigore e sbagliato un gol facile, e lui era ancora lì a smoccolare, con una visceralità tale che avrei voluto scendere in campo a imprecare con lui, solidale. Bambino sì, ma mica scemo: mi rendevo conto già allora che Preben avrebbe considerato patetico qualsivoglia supporto morale, specie se di un babbeo ingenuo come me. Lui preferiva risolversela alla sua maniera. Da solo. Come quegli eroi dei film, che salvano il mondo dai criminali mentre la polizia arriva sempre dopo, a cose fatte. Siglò il raddoppio, Preben: lancio dalla mediana, scatto sul filo del fuorigioco e stop d’interno collo a seguire, fuga verso l’area e pallonetto a Zinetti (come si dice adesso cucchiaio? scavino?). Ed esultanza alla sua maniera, con le braccia tese verso il bacino e i pugni serrati. Gioia focosa, spontanea, essenziale. Ergo non televisiva. Ma Elkjaer era questo, fuoriclasse di un calcio nel quale la tv era il mezzo, non il fine. Ed è da questo (terribile) trapasso che il football ha cominciato a imbruttirsi.   

Auguri (in ritardo) Vichingo. E come scrissero i tifosi danesi il giorno del tuo addio alla Nazionale: “Tak Elkjaer”.

 

P.S. Un omaggio al mio campione. Un omaggio a tutti i “cavalli pazzi”. Mai omologarsi.   

PULIERO, SETTI E L’IDENTITA’ SCALIGERA

Ci sono assenze che fanno rumore.  “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?”, si domandava Nanni Moretti in Ecce Bombo. Roberto Puliero è di quelli che si sentono quando non ci sono. Le sue mancate radiocronache in questo avvio di campionato hanno scatenato un caso. E’ nato un gruppo su facebook (“Roberto Puliero per le radiocronache e le formazioni dell’Hellas”) che in poco tempo ha raccolto 7 mila “likes”. Lo stesso attore veronese, due settimane fa, ha rilasciato un’intervista al vetriolo accusando, in sostanza, la società di Setti di averlo emarginato. A stretto giro di posta la replica del responsabile comunicazione del Verona Fabrizio Cometti, che ha invece ribadito che per Puliero le porte rimangono aperte anche a Radio Hellas – il nuovo network del club di via Belgio che trasmette in esclusiva le partite dei gialloblù – e che non c’è nessun caso, ma solo dei tempi da rispettare dal momento che Puliero è sotto contratto con un altro network e la radio del club, appena nata, non è ancora pienamente strutturata. Un controcanto un po’ politichese e (ad oggi) smentito.

Infatti le porte Puliero sono rimaste chiuse e, anzi, la situazione pare sia volta al peggio per i migliaia di fan dell’attore veronese, per decenni voce narrante dell’Hellas Verona, dall’epoca pioneristica delle radio libere (gli anni ’70) a quella ipermediatica e bulimica del calcio televisivo di oggi. Giusto? Sbagliato?

Non è questo il punto. La scelta della società, che ha deciso di cedere i diritti a una “sua” radio e di avvalersi di nuovi collaboratori, è legittima. Com’è legittima la voglia del club di sperimentare nuovi format e linguaggi. E ben venga Radio Hellas, coi suoi giovani giornalisti, alcuni davvero bravi.  Si può financo discutere fino a notte, senza cavarne nulla peraltro, se Puliero fosse superato o meno (di sicuro è due spanne sopra a chi l’ha sostituito, ma tant’è…). Tuttavia la faccenda avrebbe potuto essere gestita meglio. Con più signorilità e anche, perché no (per i cinici), malizia. L’impressione che emerge dall’esterno, infatti, è che la società fin dall’inizio non credesse più in Puliero, ma che non si sia curata troppo (prima che la cosa diventasse un caso) di giustificare la sua “rimozione” all’opinione pubblica. Quasi che Roberto fosse uno qualunque e non un’icona di Verona e provincia. Un po’ come non si è preoccupata, a suo tempo, di spiegare l’accordo Nike e il motivo delle nuove maglie “infedeli” nelle tonalità del gialloblù. Simile noncuranza nell’affidare a un’agenzia di marketing non veronese la campagna abbonamenti degli opliti greci, con buona pace dei simboli cittadini (e di tutta la polemica degli anni scorsi sui simboli e colori).

L’impressione è che la società, bravissima sul piano manageriale e sportivo, pecchi ancora nel rapporto con la “piazza”. Per scarsa conoscenza della stessa, in primis. Aggiungici che Setti, da tipico self made man, è uomo risoluto che per indole non ama troppo le mediazioni. Tuttavia una squadra di calcio non è una normale azienda. Nel calcio devi rendere conto anche a un popolo di tifosi che, a differenza del normale consumatore di qualsiasi altro mercato, porta con sé un carico di passioni. E Verona è particolare, più iconoclasta e conservatrice (e non  sempre è un difetto) che fighetta e modernista. Non è Milano, insomma, dove il “kit del tifoso” può confondersi facilmente col fu kit di Forza Italia di berlusconiana memoria. Provinciale? Sì, fieramente e nel senso nobile della parola (quindi localista e identitaria).

Setti affermò a suo tempo di volere “sprovincializzarci”. Tifo per lui se questo significa modernizzare la struttura del club, il rapporto coi media e le istituzioni locali (battaglia coraggiosa nella città dove qualsiasi potere, anche giornalistico, soffre delle sindrome da “Montecchi e Capuleti” tra invidie, prebende e primedonne). Lo appoggio se l’obiettivo è legittimarci a livello nazionale, dove tuttora siamo poco considerati se non, peggio, discriminati. Se questo vuol dire, al contrario, sottovalutare (anche in buonafede ed è il caso di Setti) l’importanza di certi “simboli” della nostra provincialità, be’ permettetemi garbatamente di dissentire.  Il Verona è l’unica provinciale a essersi fregiata di uno scudetto ed è quella che ha tuttora il maggior numero di abbonati. Ergo è la provinciale più importante d’Italia. Ed è su questo orgoglio da primato e sentimento di unicità che va costruita l’immagine del club. Anche nei simboli. Altrimenti il rischio è di annacquare asetticamente nel mare magnum dell’”uno tra i tanti”. Invece “meglio re in Gallia che schiavi a Roma” (cit). Se Setti lo capisce è seduto su una miniera d’oro.