SETTI, LA TRIADE E IL VERONA SPA

Giovanni Gardini, nuovo dg del Verona, ha la faccia affabile. Fossi un cineasta americano gli proporrei la parte del bravo yankee del Milwaukee, diviso tra lavoro (titolare di un ferramenta, o di un negozio di pesca) e barbecue la domenica. Mi sembra il papà di Ricky Cunningham in Happy Days, in realtà l’affabilità cela uno spietato modus operandi, com’è doveroso che sia se fai il direttore generale di una squadra di calcio.

Sean Sogliano “c’ha er fisico” direbbero a Roma. Capello brizzolato stile Richard Gere in Pretty Woman, sguardo da “bel tenebroso”, occhio lucente, mascella volitiva e collo leggermente taurino, personalità e portamento da manager in carriera. Pantaloni a sigaretta e giacche sempre un filino (e ricercatamente) troppo strette,  il suo è un fascino a passo coi tempi, più da “Centovetrine” che da Robert Redford. Poco vintage e molto anni ’010.

Massimiliano Dibrogni ha il passo da guardia del corpo, spedito e poco rilassato. Anche quando parla è un treno, senza amnesie, vuoti o confusioni. Un libro imparato a memoria. Dibrogni non stupisce, non è un artista e mai avrà la crisi della pagina bianca, ma si capisce che è uno sempre sul pezzo, operativo h 24, memonico. Uno stakanovista intelligente, che le carte le impara rigorosamente a memoria, ma le sa rielaborare. Lui è l’amico secchione che abbiamo sempre avuto. Setti e Sogliano non sono Don Vito Corleone, ma Dibrogni un po’ il Tom Hagen de Il Padrino lo ricorda. Bravo ragazzo, capace di stare in un mondo di lupi.

Gardini, Sogliano, Dibrogni sono gli uomini di fiducia del nuovo Verona di Setti-Ranzani. L’Hellas ha cambiato pelle, non siamo più la succursale del Castelnuovo Sandrà (ciononostante grazie Martinelli). Adesso siamo una vera SPA, intesa come centro benessere, claro. Proponiamo anche il servizio hospitality in tribuna VIP, per chi volesse pagare un sovraprezzo nell’abbonamento. Una “vocina” mi ha annunciato come sarà. Per i gentili ospiti al posto delle scomode e vetuste poltroncine, ci sarà un bel divano con poggiapiedi. Prima delle angustie della partita, si potrà accedere alla sala con annesse, a scelta, vasche idromassaggio, sauna e bagnoturco. Hostess strafighe serviranno brandy e vino d’annata. Ci sarà anche un dj set, o un piano bar, a seconda dell’età e dei gusti dei vip. I quali, pure loro, in un attacco di prosopopea plebea potranno cantare come un qualsiasi ultras: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”.

I “BIDONI” DELL’HELLAS

Semplicemente scarsi. Inutili? Peggio, dannosi. Ma a loro modo, e loro malgrado, personaggi. I “bidoni” del calcio sono una categoria a sé. Ogni squadra hai i suoi, il Verona anche. Propongo  la mia personale formazione “bidonara”. Attenzione per rientrare nella categoria non conta solo la scarsezza tecnica, perché allora basterebbe prendere molti degli “undici” del pessimo campionato nel 2007-08 che sfiorarono la C2. Incidono anche altri parametri, come le aspettative iniziali, il rapporto ingaggio-rendimento, e i pessimi ricordi lasciati.

Ecco la mia Flop 11. In porta Doardo, in difesa da destra a sinistra Zilic, Brajkovic, Furlanetto, Cvitanovic, a centrocampo il trio di medianacci Soligo, De Simone e Pizzinat, davanti Raducioiu, Morante e Spehar. Eccoli uno a uno:

Domenico Doardo (2000-02 2003-04). Dispiace perché è veronese, ma vince lui, intanto per scarsa concorrenza (il Verona da tradizione ha sempre avuto ottimi portieri), e poi perché nonostante (e fortunatamente) giocasse poco, faceva paura per quella sua eterna indecisione e quei modi sgraziati. Ogni passaggio all’indietro era un coccolone. Paolo Di Canio se l’è portato come allenatore dei portieri allo Swindon Town. Auguri. SGRAZIATO.

Tonci Zilic (1999-00). Lo sciagurato di San Siro. 29 agosto 1999, l’esordio in serie A del Verona di Prandelli. Quel pomeriggio ricordo che fecero acqua tutti, 3-0 per l’Inter di Lippi, ma vedere l’inadeguatezza di Zilic scontrarsi con la classe dei migliori Vieri e Ronaldo della carriera fu una disperazione. Tonci credo non vide più il campo, lasciò poche tracce anche in B con Fermana e Siena, poi tornò in patria. SCIAGURATO.

Mario Cvitanovic (2000-01), faccia un po’ da bagnino, un po’ da scagnozzo da night balcanico. Presentato in pompa magna come il motore della fascia sinistra, il terzino croato all’Hellas mise insieme una manciata di presenze anonime, riuscendo nell’impresa titanica di farsi soffiare il posto da Carlo Teodorani (2001-05, 2006-07), che non fosse per questo avrei proposto ex acqueo con Marione il Croato. ANONIMO.

Elvis Brajkovic (1997) e Alessandro Furlanetto (1993-94), la banda del buco. Il primo arrivò a Verona a gennaio per sistemare la disastrosa difesa di Gigi Cagni. Dopo un avvio promettente contro il Milan, riuscì a far rimpiangere l’onesto Fattori, che infatti si riprese il posto. Furlanetto invece preferisco ricordarlo mentre recita al cabaret nel villaggio pugliese dove lo incontrai in vacanza (proprio prima di approdare all’Hellas, nell’estate del ’93). In campo? Be’ faceva cabaret anche lì, ma a sua insaputa. Risultato? Comicità involontaria e disperata. Un aggettivo per i due? COMPASSATI.

Domenico De Simone, Evans Soligo e lo svizzero Lionel Pizzinat. Qui il dramma si moltiplica all’ennesima potenza, perché i tre giunsero insieme nel gennaio del 2005, col Verona di Ficcadenti in piena corsa per la serie A. Il trio rappresenta il “capolavoro” (sig) di Pastorello, che per loro cedette Vincenzo Italiano nel pieno della carriera. Fu la svolta: grazie a questa straordinaria (doppio sig) operazione di mercato mancammo una probabile (e inaspettata) promozione.  INADEGUATI.

Florin Raducioiu (1991-92) credo che sia il simbolo dei “bidoni” veronesi. Ma su “radecio” non vorrei infierire. Ci pensò già a suo tempo “Genio” Fascetti, che in quella deludente stagione non mancava mai di insultare pesantemente l’allora giovanissimo attaccante rumeno, che probabilmente soffrì la pressione della piazza e del suo allenatore. Per Raducioiu 30 presenze, quasi tutte da titolare, solo 2 reti fatte e decine sbagliate, alcune clamorose. Tanto da divenire il “re” della Gialappas e di “Mai dire gol”. Il Verona retrocesse e Fascetti, che quel fallimento mai l’ha digerito, spesso ha dichiarato, anche a distanza di anni: “Se Raducioiu avesse fatto un terzo dei gol sbagliati saremmo andati in Uefa”. Eppure il prosieguo della carriera dell’attaccante è stato ottimo. SFORTUNATO.

Robert Spehar (1999-00). Grande cannoniere in Belgio e in Croazia, avrebbe dovuto essere il  colpo da novanta del primo Verona pastorelliano in serie A. Qualcuno disse: anche Elkiaer aveva fatto faville in Belgio, dimentico probabilmente di quel senso del pudore che dovrebbe far riflettere prima di citare gli Dei. Spehar giocò solo tre partite, l’esordio contro il Torino in casa sotto una bufera di neve. Da lì la mia esclamazione quel pomeriggio: “Suga Spehar, nevega”. Prandelli ancora si domanda se è peggio lui o il Magallanes avuto a Venezia. SOPRAVVALUTATO.

Daniele Morante (2007-08). Arrivò in ritiro già da ex giocatore. Consapevole di aver strappato l’ingaggio della vita (250 mila euro annui, grazie a Cannella), si presentò sovrappeso e arrogante. Fu il simbolo di quella assurda stagione che precipitò il Verona a un passo dalla C2 (e quindi dalla scomparsa). Il gol alla Pro Patria nello spareggio d’andata, per quanto fondamentale, nulla aggiunge a un campionato fallimentare (23 presenze, 1 gol). INSOLENTE.

Ho lasciato fuori appositamente fuori Dragan Stojkovic, che nel rapporto aspettative-rendimento ci potrebbe stare. Ma la storia veronese di Piksi è stata condizionata dalle noie fisiche. Questa quindi è la mia personale lista. E la vostra?

Caro Vighini ma tu credi davvero alle “boiate” di Squinzi?

Caro Vighini,

ho letto con attenzione quello che hai scritto sulle dichiarazioni di Giorgio Squinzi, patron del Sassuolo e presidente di Confindustria, che minaccia di abbandonare il calcio per i torti subiti dal suo club nell’ultimo campionato. Tu lamenti, comprensibilmente, la mancata reazione dell’opinione pubblica e in particolare dei mass media, definendoli “pennivendoli” senza vergogna.

Giusta la tua riflessione, in effetti Squinzi è uno dei più importanti imprenditori italiani (direi europei), mica l’uomo della strada (che per la verità, se ci pensi bene, gli scandali del calcio li ha sempre profetizzati). E le affermazioni di un presidente di tale livello, dovrebbero far pensare. Vero, tutto vero.

Però… c’è un però. Anzi ce ne sono diversi. Innanzitutto Squinzi non è il primo che se ne esce con sortite del genere. Ricordo, senza andare troppo lontano, Gazzoni Frascara del Bologna, uomo tutto d’un pezzo, che non annunciò, ma si dimise davvero nel 2006 dopo calciopoli (Squinzi lo aspetto al varco). Perfino di Luca Campedelli, che al di là della facciata da impalpabile uomo di mezza età, è tutt’altro che ingenuo e nelle dinamiche del calcio ci sa navigare come pochi, ricordo una conferenza stampa fumantina e polemica nella sala stampa di Marassi qualche anno fa. Immagino si sentisse poco tutelato e sparò ad alzo zero. Poi tornò in letargo a insegnarci che “degli arbitri non parlo mai, è lo stile Chievo”. Chissà, forse come per magia le sue parole ammaliarono di profondo senso di giustizia la classe arbitrale, avvinta da un fremito di idealismo per la favoletta di quartiere, o forse scioltasi come neve al sole dinanzi al riconosciuto carisma campedelliano, il quale non ebbe più bisogno di parlare. Insomma niente di nuovo.

In secondo luogo Squinzi alza la voce, s’incazza, esclama, usa il termine “boiate” (aridaje ha definito così anche la riforma Fornero!). Eppure, siccome ventila una corruzione del sistema calcio, vorrei che anziché limitarsi a darci da intendere, parlasse chiaro, facesse i nomi, ci dicesse con trasparenza cosa e chi sospetta. Sennò è aria fritta.

Infine, ed è la sensazione che ho avuto fin dal principio, questa sparata di mezza estate di Squinzi, mi ricorda un po’ la storia della volpe e dell’uva: l’uva è buona, ma non riesco a prenderla in cima all’albero, ergo è cattiva. Una storiella in voga da sempre nel mondo del calcio, dove si è vergini o puttane a seconda delle convenienze. Vedremo Squinzi, se agli annunci farà seguire i fatti. O se con le “boiate” del calcio si comporterà come con la “boiata” della Fornero. “E’ una boiata ma l’approvo” ha detto pochi giorni fa da presidente di Confindustria. Un ragionamento filato, non c’è che dire.

NAPOLITANO E BUFFON: COME SI FA A TIFARE ITALIA?

Agognata speranza, ahimè vana. Speranza blandita, insistita, inseguita. Annosa speranza, lunga 18 anni,  ci ho provato a realizzarti, messo tutta la volontà. Inutilmente.

Sì, lo ammetto senza vergogna, volevo tifare Italia a questi Europei. Non mi riesce da USA 94. Ma vergognandomi un poco, ammetto, che non mi è riuscito neppure stavolta. Nonostante da anni identificarsi con la Nazionale sia la cosa più facile del mondo. Quasi un orgasmo naturale. Un amplesso ben riuscito. Una fusione in un corpo solo. Già nel 2006 non accettavo quel mio senso di inadeguatezza nel non gioire col popolo per la vittoria berlinese. Avrei dovuto godere per quel gentiluomo di Lippi, mister della Juventus-farmacia (come dimostrano le motivazioni di una sentenza) e papà di un procuratore socio di un associazione a delinquere (la GEA), o per quella personcina perbene di Fabio Cannavaro (quello della finta flebo, colui che con la villa abusiva non perde tempo per insultare Saviano). O per quel blocco juventino che vinceva scudetti grazie a Moggi. O ieri come oggi, per quell’esempio di integrità e di probità di Gigi Buffon, un uomo talmente generoso da finanziare per un milione e mezzo l’agenzia di scommesse-tabaccheria del suo amico. Che gesto nobile! Deve averlo intuito anche il Capo dello Stato, che con “viva e vibrante” emozione (scusa Crozza, cit) è corso (insomma, è sceso adagio dai…) negli spogliatoi dopo Italia-Spagna per abbracciare il portierone della Juventus. Non pago, Napolitano ha dato pure di gomito a  Gigi Nostro. Sembravano due vecchi amiconi. Napolitano: <<Buffon, il Principe Felipe dopo il gol di Fabregas mi ha detto “firmiamo per il pareggio”. A fine partita l’ho esortato “non lo dica che abbiamo firmato”>>. E Buffon di rimando, incredulo dell’assist: “Eh no… sennò ci mettono dentro”. Imbarazzante ironia, con un’inchiesta in corso.

Non l’ha colta al volo quel genio di Enrico Varriale, alias “nano” (cit. Cesare Maldini). E nemmeno Beppe Dossena, il commentatore più sgrammaticato che si ricordi, un uomo che è riuscito a contorcere la sintassi peggio di Salvatore Bagni. La coglierà Paola Ferrari? Be’ suo suocero (De Benedetti) è un grande “sostenitore” del partito di Napolitano, quindi ho seri dubbi. Ma non è malafede, è che la Ferrari non riesce a cogliere nemmeno più se stessa. Quella vera l’hanno smarrita dieci plastiche fa.

MR MANDORLINI

Gli occhi non sono lo specchio dell’anima. Non l’ho mai pensato e Andrea Mandorlini me l’ha confermato. Ha gli occhi di ghiaccio l’allenatore del Verona. Quegli occhi da spietato e cinico condottiero senza macchia e senza paura che nascondono in realtà tutt’altra persona: fumantina, sanguigna, poco fredda e molto emotiva. A tratti leonina, a momenti timorosa. Anche fragile e romantica, per certi versi. Molto contradditoria e altrettanto affascinante.  Mandorlini è uno che non se ne frega, cova e poi sfoga. I detrattori lo accusano di essere un capopopolo un po’ ruffiano. Lo è, ma non per ipocrisia (che il tecnico non ha nel dna), direi piuttosto per narcisismo. Mandorlini necessita di essere amato, adorato, addirittura venerato dalla sua gente. Lui, in cambio, per la gente ci mette la faccia, gli piace ergersi a paladino del suo popolo, fino a prendersi insulti da mezza Italia e un deferimento per un coretto ironico, e a rischiare botte da orbi a Salerno per aver osato parlare male degli avversari meridionali nei giorni precedenti alla partita.

Mandorlini queste azioni non le compie per ingenuità, o per puro istinto. Mica è scemo, l’uomo. Agisce così semplicemente perché non ne può fare a meno. Determinati gesti lo fanno sentire vivo, se stesso, lo gratificano. Se fosse diplomatico magari avrebbe avuto ben altra carriera, ma non starebbe bene. Sfogare il proprio ego vale più di mille trofei. Mandorlini, quindi, ha preferito essere “re in Gallia che “servo a Roma”. Meglio numero 1 a Verona, che uno qualunque altrove.

Anche il popolo dell’Hellas lo ama perché ne ha bisogno. Ha bisogno di avere un rappresentante che ci metta voce e faccia. Ha bisogno che le frustrazioni, i torti, gli arbitraggi vessatori, le eventuali discriminazioni nazionali trovino sfogo e un contraltare pubblico e autorevole. Ha bisogno di sentirsi protetto da un leader e un referente ben definito.  Per questo Mandorlini non è solo un semplice allenatore qui a Verona. Per questo “non si tocca”, come tanti hanno scritto in questi giorni anche su questo sito. Al di là dei risultati. Al di sopra delle questioni tecniche. Prescindendo da eventuali nuovi equilibri societari.

Questo però, permettetemi, portato all’eccesso è pericoloso. Credo che l’Hellas venga prima di tutto: prima di presidenti, allenatori e giocatori, come da anni la Curva Sud canta convintamente. Mandorlini è stato un discreto giocatore che ha fatto una grande carriera (grazie al carattere) ed è un grande allenatore che ha fatto una discreta carriera (per colpa del carattere). Teniamocelo stretto, quindi, per le sue qualità (un lusso per la B) e anche per il suo feeling con la piazza e la città. Ricordandoci, altresì, che il solo totem è l’Hellas, l’unica cosa che “non si tocca” sono i colori gialloblù. Non Mandorlini, non Martinelli, non Setti. “Cambieranno i giocatori, il presidente, l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”, è un canto pieno di significato. Non sconfessiamolo.

 

STORIE DA SCOMMESSOPOLI

Piange il telefono, cantava Modugno. Solo il suo, pare. Quello di decine di giocatori di serie A e B bolliva da anni di proposte e affari indecenti. Partite truccate, a sentire tre procure della Repubblica e due (ex) calciatori pentiti (forse adesso tre con Gianello). Piangono in compenso gli indagati di tutta la vicenda. Che lamentano la “gogna” mediatica, non si sa a quale titolo, dacché sono personaggi pubblici e si tratta di notizie già pubbliche, ricordo, agli atti giudiziari (quindi nessuna fuga di notizie). Ma non si difendono nel merito.

Il più “piangini” di tutti è un allenatore di bianconero strisciato, da poco scudettato, che lamenta di aver ricevuto l’avviso di garanzia (che è appunto un atto a garanzia dell’indagato, mica una pistola puntata) senza essere stato ascoltato dai pm (come se i magistrati fossero obbligati a farlo), mostrando un’ignoranza giuridica mica da scherzo. Ma questo signore un tempo stempiato e ora dal ciuffo rigoglioso, un po’ lo capisco. S’impegna allo spasimo per accampare scuse tirate per i capelli (capelli, sì insomma ci siamo capiti) e poi arriva il suo presidente, dal cognome importante, ma dall’intelligenza meno importante, che per difenderlo, in un attimo lo sotterra,asserendo grave: “Il ruolo del nostro allenatore è marginale in tutta questa vicenda”. “Marginale”, avete capito bene. E’ come se uno vi beccasse a rubare e vi difendesse dicendo: “Ma ha rubato solo un po’”. Geniale, direi. Questo pover’uomo non fa tempo a ripigliarsi dal cosiddetto “fuoco amico”, che accorre in suo soccorso il radiato Luciano Moggi, il quale dichiara restando serio: “Per Conte garantisco io”. Una mazzata!

Poi c’è il portiere e capitano della nazionale, che in conferenza stampa, senza che nessun dirigente federale fermi in tempo il noto giurista, attacca confusamente la magistratura. Un tizio più importante di lui, non tanto alto, asfaltato in testa, con tanti “danè”, l’ha fatto per anni e chissà che anche Buffon non possa ambire a diventare premier. La stoffa c’è.

Tralasciando il giocatore simbolo del Chievo, che lacrima a nove colonne nell’intervista in ginocchio pubblicata dal quotidiano locale. Intervista senza una domanda vera, un concentrato di piaggeria e compiacenza. Salvo poi, il medesimo, rifiutare tracotante le interviste dagli altri media, che forse qualche semplice e legittima domanda volevano farla.

E i calciatori arrestati? In silenzio per mesi, chi per omertà, o connivenza, chi magari anche solo per paura, adesso tutti smaniosi di parlare coi magistrati. Già, la cantilena più in voga di questa tarda primavera è dei loro avvocati: “Il mio assistito non vede l’ora di chiarire la sua posizione con gli inquirenti”. Shakira ha materiale per il prossimo tormentone estivo.

E poi c’è il popolo. Che reagisce accalorato in base alle evenienze e alle convenienze di tifoso. Sarebbe divertente se non fosse in realtà tristissimo. Il tifoso si sveglia alla mattina ipergarantista perché vede indagato un suo beniamino, ma al pomeriggio ha improvvisamente un attacco di accalorato giustizialismo se legge che di mezzo c’è il giocatore della squadra odiata. Salvo poi, alla sera, trovarsi al bar e gattopardoscamente riuscire a essere, in base all’interlocutore, per cinque minuti un novello Torquemada, e per altri cinque un raffinato cultore dello stato di diritto. Una cosa da mal di testa, il rischio svenimento c’è.

Eppure è una cosa molto italiana. Una penna raffinata ed emarginata come Oliviero Beha lo sostiene da anni nei suoi libri: il vero scandalo in questo Paese è che siamo tutti molto tifosi e molto poco cittadini.

 

MA E’ SETTI O RANZANI?

Lo ammetto, la prima volta che ho sentito e visto Maurizio Setti, ho pensato al classico personaggio che a Milano definirebbero “bauscia”. Sì il classico tizio “splendido”, arricchito e un po’ sbruffone. Sarà stato per quella parlata, l’eloquio aggressivo, la logorrea incessante. E poi quella camicia bianca aperta, con la collanina d’ordinanza… E le foto con Danny Mendez ed Elena Santarelli. A vederlo, immaginavo divertito anche il resto. Chessò magari un pantalone colorato e acceso, stile casual-elegante, con la scarpa da ginnastica vistosa ma di tendenza. O l’incedere sicuro con tanto di “pacca sulla spalla” d’ordinanza all’interlocutore di turno, e il cellulare sempre all’orecchio. Poi quando ho saputo del suo Porsche Cayenne e dell’aereo personale, be’, ho pensato immediatamente al “Marco Ranzani di Cantù”, il personaggio inventato a Radio Deejay da dj Angelo e interpretato da Albertino a Zelig. Ranzani ricco imprenditore proprietario un po’ di tutto, dalla squadra di pallacanestro locale, all’aeroporto di Cantù. Non bastasse quando Vighini l’ha chiamato, il Nostro se l’è “tirata” immediatamente: “Eh scusi ma sono in riunione”. Salvo poi concedersi col consueto cipiglio per cinque minuti buoni.

Sia come sia, è un fatto che a Verona, a certi livelli, manchino personaggi così. Setti dice che gli emiliani sono più esuberanti dei veneti. Sarà, di sicuro a Verona i grandi imprenditori sono una sorta di fantasmi. Degli E.T non meglio identificati. Fuori dai loro circoli, dalle loro personali feste di beneficenza, dai loro congressi aziendali o confindustriali, non li vedi e non li senti. Spesso non sai manco dove abitano. Giocano ai loro affari a fari spenti, equidistanti, anzi “equivicini”, mai una presa di posizione, o un iniziativa davvero sociale. Al limite impegnano risorse per un evento di due giorni (Giro d’Italia, Mondiali di Ciclismo). In loro impera il basso profilo, declinato all’ennesima potenza dal proverbiale “laora e tasi”. Figuriamoci se entrano nel calcio. Non esistono visionari, da noi. Comunicatori ancor meno.

Setti lo è? Non so. Però dopo anni di deserto attorno all’Hellas, di “Inferno” calcistico, di depressione da Lega Pro, mi piacerebbe un presidente un po’ smargiasso. Fatta salva la competenza, perché di “Ranzani”  qui a Verona non ne abbiamo bisogno. Per quello basta accendere Zelig.

OSCAR WILDE E IL PESSIMISMO ATTORNO ALL’HELLAS!

Vorrei dimenticare, per un attimo, Oscar Wilde. “L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero”, recita uno dei suoi geniali paradossi. Vorrei dimenticarlo perché non mi piace il clima che gravita da settimane attorno all’Hellas.

I pessimisti sono perennemente all’opera, open door, 0-24. “Ai play-off non andiamo in A, bisogna salire diretti”, sentivo dire da tempo. E lunedì sera, quando (probabilmente) il sogno della promozione diretta è svanito, ecco che i “vedo nero” sono tornati a guaire di gran carriera: “Basta, è finita. Abbiamo dato tutto, dobbiamo pensare all’anno prossimo”. “Ai play-off fanno passare la Sampdoria che ha peso politico”. “Arriviamo ai play-off scarichi”.

Dimentichiamo Wilde, per cortesia. “Il migliore dei mondi possibili” non è andare ai play-off per partecipare da vittime designate. Smettiamola di fissare afflitti le suole delle scarpe e guardiamoci negli occhi: l’Hellas ha tutto per giocarsela. Il buon Mandorlini rimedierà ai recenti errori, Halfredsson tornerà a ruggire e D’Alessandro sarà l’arma in più. E non è vero che arriviamo agli spareggi psicologicamente scarichi: i giocatori sapevano che era nel ventaglio delle possibilità e, aggiungo, non siamo mai stati a lungo nelle prime due da poter dare per scontata, o acqusita, la promozione diretta.

Non pensiamo al “palazzo”, agli arbitri e agli equilibri geopolitici. Pensiamo a tornare a essere l’Hellas. Io ho deciso, da qua a giugno dimentico Wilde e mi fido solo di Victor Hugo. Non lo scrittore, ma il nostro sgraziato difensore, Mareco, che in tempi non sospetti me l’ha garantito: “Se arriviamo tra le prime quattro, saliamo sicuri”.  Alla faccia della scaramanzia (non siamo napoletani!),  inoculiamoci una scarica di ottimismo. Fa bene.

COM’E’ TRISTE DIRSI ADDIO

Mark Van Bommel piange: “Il Milan è come una famiglia, mi spiace lasciarlo, ma devo”. Pippo Inzaghi sospira: “Milan nel cuore, avrei voluto non finisse mai”. Marco Di Vaio singhiozza affranto: “Lascio Bologna, ma è un arrivederci”.

Com’è struggente dirsi addio. Per gli interessati e anche per noi, cui tocca sorbirci queste lacrimanti pantomime. Molto retoriche e sempre televisive. Lo confesso, ci mancava poco e  veniva da piangere anche a me. Era dai tempi di “Stranamore” e del “dottor Castagna” che non mi commuovevo così. Neppure il Barbareschi d’antan e il suo “C’eravamo tanto amati” avrebbero saputo far meglio.

Ero già con un kleneex in mano, disperato e inconsolabile, che poi è arrivato quel cinico barbaro  di Rino Gattuso, che ha ringhiato fino alla fine: “Milan non sono un gagliardetto, me ne vado”. Ci sono rimasto male e ho buttato via il fazzoletto, non serviva più. Non bastasse, l’ha seguito a ruota quel maleducato irriconoscente di Alessandro Del Piero, che non ha voluto nessuna festa d’addio ufficiale per  il suo epilogo con la Juventus. E la delusione è diventata shock.

Ho dovuto riprendere il kleneex, ché stavano diventando lacrime di rabbia per tale ingratitudine. Ma probabilmente non era destino che dovessi usarlo. Infatti dalla Spagna mi ha tranquillizzato Pep Guardiola: “Lascio il Barcellona perché sono stanco”. Poi da Roma ci ha pensato il suo amico asturiano, Luis Enrique a fargli eco: “Anch’io lascio perché stanco”. Ho sorriso sollevato, pensando: “Che bello, almeno loro possono riposare dalla tirannia del lavoro quotidiano, ribelli bolscevichi contro la schiavitù padronale”. Poi ho letto del loro contratto: certo milionario, ma saranno di sicuro “indennità per lavoro usurante” ho riflettuto, tuttavia a tempo determinato. Pure precari sono, poverini! ho esclamato allibito. Trattati peggio dei metalmeccanici sindacalizzati, o alla stregua di insignificanti insegnanti fancazzisti! Un pacchetto di kleneex mi ci sarebbe voluto, altroché.

Perlomeno, ora, percepisco l’essenza del ruolo di Damiano Tommasi e Renzo Ulivieri, sindacalisti rispettivamente dei calciatori e allenatori, nuove classe sottoproletaria degli anni Duemila.

Non ho ancora  capito, invece, se il mondo è assurdo, o solo relativo.

 

 

 

 

 

MA E’ OSVALDO BAGNOLI O WOODY ALLEN?

Geniale, Osvaldo Bagnoli. Gianni Brera lo ribattezzò “Shopenhauer”, ma la corrosiva freddura dell’altro giorno è degna del miglior Woody Allen o di un Groucho Marx.

Il tanto bravo quanto furbo tecnico della Juventus Antonio Conte l’ha buttata lì: “Se dovessimo vincere lo scudetto sarebbe un impresa come quella del Verona di Bagnoli”. Paragone assurdo – sebbene creato ad arte da Conte per ingigantire oltremisura i suoi (indubbi) meriti – e che pertanto ha fatto scalpore. Le reazioni della piazza veronese sono state di ovvia indignazione, per la acclarata bestemmia calcistica di mettere sullo stesso piano due imprese diversissime per evidenti motivi. Ma purtroppo anche di malcelato orgoglio. Dico purtroppo, perché sembra quasi che alcuni di noi si siano sentiti in dovere di essere pure lusingati da simile azzardo. Segno di sudditanza psicologica molto provinciale, che mi ha fatto venire in mente, per larga scala, una bellissima frase di Indro Montanelli: “La servitù in molti casi non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”.

In mezzo a tutto questo can can, tra blog e banconi del bar, se n’è uscito l’Osvaldo, ancora in gran forma a 76 anni. “La Juventus come noi? No noi avevamo più classe, loro sono una squadra operaia”. Fantastica. Mi sono sentito per cinque minuti metropolitano, classe padrona, portatore sano di complesso di superiorità. Perché Bagnoli, per quanto sembra incredibile (noi siamo pur sempre il piccolo Hellas, loro la grande Juve), ha detto una grande verità. Quindi la sua involontaria irriverenza risulta ancora più irriverente.

Chapeau, grande e immenso Osvaldo.