BERLUSCA RIFONDA LA DC, LEGA FERMA ALLA CDU

L’analisi più interessante (e più sconsolante) sui nuovi scenari politici che si delineano con la nascita del Pdl mi sembra l’abbia fatta Luca Ricolfi su La Stampa. Parto dalla conclusione del suo editoriale: “Chi vuole un vero cambiamento non sa chi votare, e chi vuole votare non può aspettarsi un vero cambiamento”.

Un cambiamento serio non arriverà mai perché – spiega Ricolfi – i due maggiori partiti, Pdl e Pd, sono entrambi due partiti conservatori di massa: “La sinistra non ha la minima intenzione di disturbare la sua base sociale fatta di pensionati e lavoratori garantiti, la destra non ha la minima intenzione di disturbare la propria fatta di partite Iva, ceti professionali, imprenditori. La sinistra non avrà mai il coraggio di riformare il mercato del lavoro, sfidare i sindacati, abbandonare le corporazioni dei magistrati, degli insegnanti, dei professori universitari. La destra non avrà mai il coraggio di combattere l’evasione fiscale, estirpare il lavoro nero, liberalizzare il commercio e le professioni, difendere i consumatori dagli abusi delle imprese piccole o grandi che siano”.

Il Partito democratico ha già dimostrato ampiamente di “non essere il partito riformista, coraggioso e liberale, che le sue migliori intelligenze hanno sognato per anni”. E adesso, spiega sempre Luca Ricolfi, anche Forza Italia ha abbandonato quella rivoluzione liberale che l’aveva caratterizzata alla nascita e per i primi dieci anni, da quando “ha capito che spingersi troppo in là nella strada delle riforme avrebbe compromesso le basi del proprio consenso elettorale”. Aggiungiamoci An che “non è mai stato un partito modernizzatore” e si capisce come il nuovo Pdl non possa che essere un partito conservatore di massa. Quindi al governo e all’opposizione troviamo oggi due partiti conservatori di massa che però – attenzione – non sono che lo specchio di un’opinione pubblica largamente conservatrice. Torniamo all’analisi di Ricolfi: ” Purtroppo le forze che puntano alla modernizzazione dell’Italia sono in minoranza sia nel Paese sia in Parlamento…La nostra cultura politica resta fondamentalmente figlia delle tre grandi ideologie del secolo scorso, il comunismo, il fascismo, il cattolicesimo. Oggi la patina ideologica si è ritirata, ma la scorza più dura – fatta di statalismo, dirigismo, paternalismo – è ben in vista e si sta anzi irrobustendo: la crisi economica aumenta la domanda di protezione e di tutela, mentre la libertà individuale sta diventando una sorta di bene di lusso, che viene dopo la sicurezza economica e personale”.

Abbandonata e “tradita” la rivoluzione liberale – perché sgradita alla larga maggioranza degli italiani – Berlusconi, che con la maggioranza degli italiani è in sintonia, ha coerentemente rifondato la Dc chiamandola Pdl. E la stessa Lega, al di là degli scontri per il potere che vedremo alle amministrative di giugno e alle regionali dell’anno prossimo, non è che una variante territoriale della Dc; una sorta di Cdu trapiantata dalla Baviera al Lombardo-Veneto. Giacché – sottolinea sempre Ricolfi – “Tutti i partiti, Lega compresa, sono impegnati anzitutto a tutelare il potere degli amministratori locali, e si oppongono tenacemente a qualsiasi norma che rischi di ridurre le risorse a loro disposizione, o di diminuire il loro potere di nomina: non per nulla né il centro-sinistra né il centro-destra hanno avuto il coraggio di varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali; non per nulla il federalismo fiscale è stato progressivamente annacquato per venire incontro al ceto politico dei territori più spreconi”.

Il quadro delineato da Luca Ricolfi è l’antitesi della visione liberale. Restiamo appunto l’Italia delle corporazioni, del paternalismo, del dirigismo tipici delle culture politiche fascista, democristiana, comunista (culture politiche concorrenziali tra loro, ma mai antitetiche…). Quindi la piccola minoranza che vorrebbe invece una modernizzazione del nostro Paese si trova nella condizione indicata dall’editorialista de La Stampa: non sa chi votare.

 

RIMBOCCARSI LE MANICHE, NON BUSSARE DAL SINDACO

 

"Si esce dalla crisi anche lavorando di più”.” I disoccupati devono darsi una mossa”. Due dichiarazioni di Berlusconi che hanno suscitato critiche e accuse al premier: come si fa a dire a chi non ha il lavoro che deve lavorare di più?! In questo modo si offendono i disoccupati, si irride al loro dramma! Critiche e accuse che non condivido. Semplicemente Berlusconi, da self made man, ha istintivamente un approccio liberale e non statalista. Se mai la critica che si può fargli è di non seguire l’istinto, di predicare bene e razzolare male: li avesse lasciati, a darsi una mossa da licenziati, tutti i dipendenti Alitalia invece che darsi da fare lui a costruire un carrozzone semipubblico (cioè risanato a carico della fiscalità generale) dove ricollocarli… Quanto ci sarebbe piaciuto vedere hostess e piloti andarsene via col loro scatolone in mano, come quelli della Lehman Brothers, a cercarsi un posto in altre compagnie aeree!

Tornando alle due frasi di Berlusconi, mi vien da dire che tentano di evitare la completa meridionalizzazione del nostro Paese. Meridionalizzazione intesa come abitudine, come pretesa, che sia il pubblico a risolvere ogni problema. Con il cittadino che resta a braccia conserte in attesa che la manna piova dal cielo statalista. Mi viene in mente, come paradigma, quella folla vociante di Pianura che protesta, che inveisce, che si aspetta, che elenca i propri diritti e, nel frattempo, non faceva nemmeno la fatica di gettare il sacchetto della ‘monnezza a qualche metro di distanza dalla scuola dei suoi figli…

Intendiamoci: di fronte ad una crisi economica così seria anche i liberali integrali come me capiscono che non si può prescindere da un intervento pubblico. E’ una necessità. Ma non dimentichiamoci nemmeno che questo intervento ha sempre corrotto: tanto gli imprenditori (che hanno sostituito il rischio d’impresa con il lobbismo) quanto i lavoratori (illusi di aver diritto al posto di lavoro a prescindere). Quindi va trovato un equilibrio. Insistendo, come ha fatto appunto Berlusconi, sull’impegno individuale, sulla necessità che il singolo si dia da fare, che esplori lui per primo tutte le opportunità, e non si sieda in attesa dell’aiutino di Stato.

Una lezione precisa ci arriva anche dagli immigrati che hanno fatto le valige per andare a cercare il lavoro dove c’è. Esattamente come facevamo noi veneti fino a cinquanta-sessanta anni fa. Certo nei loro Paesi nemmeno si sa cosa siano gli ammortizzatori sociali che da noi fortunatamente esistono; ma non illudiamoci che questi ammortizzatori possano essere rifinanziati all’infinito né risolvere ogni problema.

Bisogna rimboccarsi e maniche e non andare a bussare dal sindaco. Uno dei risvolti più inquietanti è appunto questo: tutti i sindaci veneti che partecipano alle nostre trasmissioni (e sono molti) segnalano la stessa cosa: mai prima di adesso – raccontano – si erano ritrovati con così tanti cittadini in Comune a domandare loro un posto di lavoro. Inquietante: la meridionalizzazione del Veneto arriva oggi andando a bussare dal sindaco. La ricchezza è arrivata ieri quando i veneti (tutti o quasi) si rimboccavano le maniche e creavano loro il lavoro; o andavano a cercarlo anche in Australia, non nel municipio sotto casa.


 

SE REGGIO SCAVALCA VERONA E PADOVA

 

Quelli con i capelli bianchi come me si ricordano ancora la battaglia per Reggio capoluogo, l’autentica guerriglia urbana scatenata dalla destra del comitato “boia chi molla” per ottenere che fosse Reggio, e non Cosenza, la capitale della Regione Calabria. Eravamo negli anni Settanta all’epoca della costituzione delle regioni. Adesso è bastato un blitz, un emendamento introdotto nella legge Calderoli per il federalismo da un gruppo di deputati reggini (di An e non solo), per far ottenere a Reggio la qualifica di città metropolitana. Qualifica ridicola perché, con i suoi 170 mila abitanti ed un hinterland modesto di altri 30 mila, non ha alcuna delle caratteristiche richieste. Caratteristiche che invece hanno città come Padova e Verona le quali però hanno il torto di… essere in Veneto e non in Calabria.

Ne è nata, qui in Veneto, una polemica violentissima tutta interna al centrodestra. Il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi ha parlato di “una marchetta, un autentica porcata di An” (a Reggio il sindaco, Stefano Scopelliti, è appunto di An). Gli ha replicato l’assessore regionale di An, Massimo Giorgetti, ricordando che quell’emendamento è stato votato anche da Calderoli e dai parlamentari leghisti. Giusto. E’ la solita solfa che si ripete negli ultimi mesi: la Lega ingoia rospi su rospi – i soldi a Catania, a Roma, a Palermo, adesso la qualifica metropolitana per Reggio – pur di ottenere il più ampio consenso possibile per quella riforma federalista che è fulcro del suo programma, motivo stesso della sua esistenza come forza politica.

Sulla carta la strategia leghista é giusta. La strada dello scontro, percorsa in precedenza, si è conclusa contro il muro del referendum bocciato. Bisogna però che questa strategia alla fine porti a casa risultati concreti: cioè un reale riequilibrio nella distribuzione delle risorse tra Nord e Sud. Non basta un brodino liofilizzato con sopra la scritta federalismo. Il dato inquietante è che, prima ancora che arrivi una qualunque ridistribuzione delle risorse, il Sud ha già fatto incetta preventiva di quattrini; ha già bisogno di essere rassicurato sia pure con un contenitore vuoto, com’é al momento questa qualifica metropolitana per Reggio, che però può diventare strumento per aggirare l’eventuale federalismo e far transitare stanziamenti “straordinari”…

D’altra parte la Lega alla fine della giostra non potrà restare con il piatto vuoto in mano. Anche perchè stiamo parlando di un’istanza federalista che qui al Nordest, in Lombardia, anche in Piemonte ed in Emilia, va oltre il pur ampio consenso elettorale della Lega. E’ l’istanza di quella parte degli italiani che produce gran parte della ricchezza del nostro Paese. Non puoi prenderli in giro in eterno. Non puoi far ingoiare loro rospi su rospi. Non accettano più Catania, Palermo, Roma, Reggio che adesso scavalca Verona e Padova. Per Reggio capoluogo ci fu la guerriglia urbana; adesso, se non arrivava un federalismo palpabile, si rischia la guerra di secessione.




IL PENSIERO UNICO DI FINI E’…SILVIO

 

Fa un po’ tenerezza Gianfranco Fini con questa sua affermazione che campeggia sui titoli dei quotidiani: “No al pensiero unico nel Pdl”. E’ infatti trasparente la sua aspirazione ad un pensiero chiamiamolo “binario”: dove cioè anche lui conti qualcosa e non solo Berlusconi. Aspirazione legittima ma drasticamente smentita dai fatti anche di questi giorni, con An che si scioglie per confluire, e Fi che invece non si scioglie perchè semplicemente annette gli alleati che ci stanno in quel Pdl che Berlusconi annunciò (senza alcuna consultazione) una sera sul predellino in piazza S. Babila…Naturale che il pensiero, o meglio l’ossessione unica, di Fini sia…Silvio; ma non è sufficiente a cambiare i rapporti di forza nel nuovo Pdl.

Prescindendo dalle aspirazioni personali, non si capisce poi che modello di partito abbia in mente Fini. Sogna forse un Pdl ad immagine e somiglianza della Dc? Sicuramente nel vecchio scudocrociato il pensiero unico era messo al bando; le correnti spuntavano come i funghi a settembre: De Mita, Andreotti, Moro, Bisaglia, Fanfani ognuno aveva il suo pensiero e la sua “parrocchia”. Ma aggiungerei anche che la Dc era l’eccezione. Al suo interno infatti i partiti erano almeno due o tre, tenuti assieme dal collante anticomunista, e pronti a dividersi com’è puntualmente avvenuto dopo il crollo del muro. Già allora però gli altri partiti erano diversi: il Psi era Craxi, il Pci Berlinguer, il Pri Ugo La Malfa. Tutti improntati al pensiero unico dell’unico leader da tutti i dirigenti e i militanti riconosciuto.

Esattamente come oggi. Ve lo immaginate Calderoli che si alza e dice che la Lega non deve avere il pensiero unico di Umberto Bossi? O l’ottimo Massimo Donadi che fa lo stesso con Antonio Di Pietro? Impossibile anche pensarlo. E non a caso Lega e Idv sono due partiti che, da una parte e dall’altra, funzionano egregiamente. Mentre i problemi nascono proprio quando i “pensieri”, cioè gli aspiranti leader, si moltiplicano: Rifondazione implosa dopo l’uscita di scena di Bertinotti; o il povero Veltroni che avrebbe tanto voluto essere il pensiero unico del Pd, ed è invece stato sepolto dai “mille fiori” della Margherita e dei Ds…

Fini, nel suo slancio antifascista, sembra fare un po’ di confusione tra pensiero unico e partito unico. Nelle dittature c’è appunto l’esecrabile partito unico. Mentre in democrazia la pluralità dei pensieri politici è garantita dalla pluralità dei partiti. Pensare che la pluralità debba esistere e persistere dentro lo stesso partito, significa solo condannare quel partito alla conflittualità interna permanente. Dico che la conflittualità non deve persistere; perchè può e deve esserci un confronto-scontro di posizioni, poi però non può mancare il leader che elabora una sintesi precisa da proporre al proprio elettorato.

I partiti che funzionano bene hanno sempre funzionato così. Sono considerazioni elementari che anche Gianfranco Fini condividerebbe; se non fosse offuscato da questo pensiero unico, da questa autentica (e comprensibile) ossessione, che per lui si chiama Silvio Berlusconi.


 

 

LA JENA CI RACCONTA L’AUSTRIA FELIX

 

Anche la Jena, alias Riccardo Barenghi, ha scoperto la civiltà asburgica. E con orgoglio (asburgico) racconto, a chi non avesse letto il suo editoriale su La Stampa, cosa ha scritto a proposito del processo al “mostro di Amstetten” Josef Fritzl.

Barenghi ha sottolineato anzitutto la rapidità: in quattro giorni di dibattimento si è arrivati alla sentenza di condanna del padre carnefice. Da restare basiti noi abituati alla lentezza esasperante della giustizia italiana. Su questo punto Barenghi si è preso lo sfizio di fare un po’…Barenghi, nel senso che si è domandato se un processo così breve non abbia leso le garanzie e i diritti che dovrebbero avere tutti gli imputai, anche se rei confessi di crimini orrendi.

Toltosi questo sfizio, la Jena si è inchinata alla “civiltà con cui i mass media austriaci hanno seguito il processo”: nessuno si è lasciato prendere dal gusto per il particolare macabro, “neanche un piccolo brano del video di accusa della vittima è uscito dalle aule giudiziarie per essere sbattuto su qualche schermo e magari sezionato e commentato dagli invitati d’occasione, psicologi, politici, giornalisti”. Esattamente il contrario di quanto accaduto da noi: “Da Erika e Omar – nota sempre Barenghi – a Annamaria Franzoni, da Andrea Stasi a Amanda Knox, non ci siamo persi neanche un particolare, una macchia di sangue, un urlo di dolore, un pigiama, un pezzo di cervello sul soffitto…Nulla è stato risparmiato alle vittime e ai carnefici di quei delitti, tutto è stato dato in pasto ad un’opinione pubblica (chiamiamola così) affamata di mostruosità”

Da sottolineare anche un’altra osservazione fondamentale fatta da la Jena. In Austria non si usa, come avviene da noi, l’alibi del diritto di cronaca per alimentare la morbosità “non solo grazie alla deontologia professionale dimostrata dai nostri colleghi austriaci, ma anche grazie al fatto che nessun giudice o cancelliere o avvocato abbia passato alla stampa le informazioni che dovevano restare riservate e che tali sono rimaste”.

Questo nella “Austria felix”. Nell’Italietta infelice invece ci sono giornali e televisioni pronti a marciare su qualunque schifezza e, cosa ancora più grave, sono gli stessi operatori della giustizia che passano loro il materiale “pornografico”.

 

DURI CON GLI EVASORI, MOLLI COI CLANDESTINI

 

Inflessibile e giustamente determinato il segretario della Cgil di Treviso, Paolino Barbiero, nei confronti degli evasori. Si tratta di personaggi che, oltre a non pagare le tasse, nemmeno pagavano il ticket sanitario come risultato dai controlli incrociati tra Guardia di finanza e Usl. Ovviamente verranno tutti perseguiti. Barbiero però chiede che vengano anche resi pubblici i loro nomi. I media, osserva, ogni giorno non esitano a fare i nomi di ladri di biciclette e spacciatori; e quindi che si conoscano anche chi sono questi personaggi sorpresi a giocare a golf, a condurre una vita da nababbi anche se, stando alla loro denuncia dei redditi, risultavano così poveri da non pagare né la retta per l’asilo dei figli né il ticket sanitario. Secondo il segretario della Cgil di Treviso pubblicare i loro nomi non è “un esercizio di giustizialismo populista” ma “un’esigenza di trasparenza, verità e giustizia”.

Perfetto, da condividere al cento per cento quanto scrive Paolino Barbiero: massimo rigore con gli evasori. E con i clandestini, invece, massima comprensione? Facciamo un passettino indietro: quei funzionari delle Usl che collaborano con la Guardia di finanza nell’individuare gli evasori del ticket sono forse delle spie? Non credo: credo che tutti, compreso Barbiero, li consideriamo cittadini che fanno il loro dovere nel contribuire a stanare i delinquenti. E i clandestini sono anche loro delinquenti o sono santi? Che l’evasione sia un reato odioso non c’è dubbio. Ma nemmeno la clandestinità è uno scherzo: a milioni sono entrati illegalmente nel nostro Paese e, una volta entrati, dato che non vivono d’aria, nella migliore delle ipotesi lavorano in nero (quindi sono evasori pure loro…), nella peggiore si procurano un reddito con le attività criminali.

Stranamente però la stessa Cgil, che chiede la pubblicazione dei nomi degli evasori, è schierata a fianco di quei medici che non vogliono “diventare spie” e che quindi si rifiutano di collaborare all’individuazione dei clandestini. Massima trasparenza di fronte agli evasori, omertà completa con i clandestini. Ho l’impressione che si passi dalla linea dura alla linea molla. O sbaglio?

RICCHI IN ESTINZIONE, STATO INADEMPIENTE

 L’Una tantum da destinare ai più poveri, proposta dal segretario del Pd Franceschini, è stata affossata dal parlamento. Adriano Sofri osserva che un risultato l’ha comunque raggiunto: far sapere a tutti che in Italia ci sono solo 200 mila persone che guadagnano più di 120 mila euro l’anno! Folgorante e sacrosanta la notazione di Sofri. E’ una barzelletta che i ricchi siano così pochi. Nascondere il reddito reale è la principale preoccupazione di troppi cittadini benestanti. D’altra parte non è banale nemmeno l’osservazione di un nostre telespettatore, Pierluigi di Legnago, il quale ricordava che l’evasore fiscale non è che metta i soldi sotto il materasso: li spende e li immette nel circuito dell’economia reale dei beni di consumo; chi paga le tasse invece – commentava sempre Pierluigi – va ad alimentare il baraccone improduttivo della pubblica amministrazione.

Ammettiamo pure che gli sperperi e gli sprechi dello Stato, che pure sono incontestabili, non siano una giustificazione per gli evasori. Ma possiamo almeno domandarci chi deve dare per primo il buon esempio? Il cittadino, pagando sempre e comunque qualunque aliquota fiscale gli venga richiesta, a prescindere da ciò che ottiene in cambio? O deve essere lo Stato che invoglia il cittadino a pagare dimostrandogli che ne vale la pena con la qualità dei servizi (sanitario, scolastico, giudiziario, etc.) che eroga? Normalmente si sostiene che l’esempio deve venire sempre dall’alto…

Non mi pare possa comunque valere nemmeno la giustificazione opposta: che gli evasori cioè facciano mancare allo Stato le risorse e gli impediscano quindi di erogare servizi decenti. Non mi sembra valido questo argomento quando a Palermo ci sono risorse per assumere in comune un cittadino ogni trenta, quando a Napoli ce ne sono per pagare lo stipendio a dieci volte gli spazzini di Milano con i risultati a tutti noti, quando possiamo permetterci di avere più insegnati, più poliziotti, più medici e più magistrati degli altri Paesi europei… E’ che nessuno si cura di controllare come sono impiegate le risorse; è che nessuno controlla cosa fanno realmente e quanto lavorano i milioni di pubblici dipendenti. Al punto che rimango convinto che le eventuali maggiori entrate, derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, non sarebbero finalizzate a migliorare i servizi erogati ma ad assumere in comune due palermitani su trenta al posto di uno…

Ma in ogni caso chi deve scovare questi evasori, a partire dai tanti benestanti che riescono ad occultare i loro redditi reali? Non ci aspetteremo mica che siano i cittadini che pagano le tasse? Spero sia chiaro che compete allo Stato e che lo Stato è inadempiente se non riesce a farlo. E, nel frattempo, questo Stato cosa racconta alle decine di milioni di dipendenti a reddito fisso che pagano fino all’ultima lira il dovuto ed anche ai 200 mila ricchi che fanno altrettanto? Può forse raccontargli che li spreme come limoni dando servizi scadenti in contropartita per colpa degli evasori? Sembrerebbe proprio di sì. Ed è una barzelletta che fa il paio con l’altra che Adriano Sofri ha ricordato.


 

CON LE BANCHE BERLUSCA SBANCA

 

Altro che le televisioni. E’ quando hai in mano le banche, quando hai in mano i danè, che controlli veramente tutto; che puoi fare il bello ed il cattivo tempo. E’ allora che sei in grado di instaurare un autentico regime. Ed oggi, grazie alla crisi, le banche stanno finendo dritte dritte in bocca al Cavaliere. Ma il colmo è che ci vanno a finire tra gli applausi e i gridolini di gioia di un’opposizione che capisce poco nulla. Un’opposizione, specie quella di estrema sinistra, che è accecata dal proprio schematismo ideologico; e quindi gioisce perchè il mercato sarebbe morto e il liberismo sepolto assieme al capitalismo. Gioisce perchè torna l’intervento pubblico in economia, perchè è convinta che i fatti dimostrino che aveva ragione lei: ad invocare la presenza dello Stato nei settori strategici; e cosa c’è di più strategico del credito? Ben venga – conclude questa opposizione – la statalizzazione delle banche. Dimentica un piccolo particolare: che oggi lo Stato non sono i soviet, oggi lo Stato è Silvio Berlusconi; e quindi statalizzare in qualunque forma le banche significa mettergliele in mano.

Quello che non capisce l’opposizione lo capiscono assai bene i banchieri i quali, pur ridotti alla canna del gas, tentano l’estrema resistenza e non hanno sottoscritto il Tremonti-bond (capito come si chiamano? Tremonti, non Lenin-bond…); non l’hanno fatto perchè sanno che sottoscriverli significa che non comandano più loro ma comanda chi è entrato attraverso i bond pubblici nel capitale delle loro (ex) banche private.

Domandiamoci come è potuto accadere due volte il “miracolo” della vittoria di Romano Prodi su Silvio Berlusconi. Forse perchè il buon Romano era un miglior comunicatore? Perchè sapeva far sognare gli italiani grazie al carisma e alla visione profetica del futuro del nostro Paese? O che abbia vinto due volte perchè era l’uomo di quei banchieri che – da Bazoli a Passera a Profumo – anche scopertamente erano schierati dalla sua parte e andavano a votarlo alle primarie. I banchieri sono sempre stati i poteri forti del nostro Paese. Se Licio Gelli era la P2, la P1 era Enrico Cuccia davanti al quale perfino Agnelli si prostava. Banchieri, poteri forti che hanno sempre considerato Berlusconi un pervenù, che hanno fatto il possibile per tenerlo fuori dal “salotto buono” della finanza. Dove adesso è entrata la figlia Marina. Mentre lui i banchieri ora se li mangia uno ad uno a colpi di Tremonti bond; e con la benedizione dell’opposizione che esulta perchè lo Stato torna a regolare l’economia contro il mercato “libero e selvaggio”…

Far rientrare lo Stato (a qualunque titolo) nelle banche, significa metterle in mano a chi esercita il potere politico: oggi Berlusconi, domani chiunque sarà il suo successore. Significa dargli in mano un potere enorme fuori da qualunque controllo; dargli mezzi economici illimitati per ottenere il consenso. Altro che le televisioni dove devi almeno fingere di fare un’informazione equilibrata: se hai in mano le banche puoi elargire a piacimento il credito più squilibrato. Tanto per capirci con il controllo statale sul sistema bancario di Banche del Sud puoi aprirne non una ma dieci (e a quel punto il Sud potrà tranquillamente trangugiare anche il “brodino” federalista). Può anche darsi (e ne dubito) che le banche statalizzate diano respiro all’economia, ma di certo ammazzano la democrazia.

ROMENI INNOCENTI, ITALIANI COLPEVOLI

 

 

Come sappiamo le indagini sullo stupro nel parco romano della Caffarella hanno avuto sviluppi sorprendenti: l’esame del dna esclude che siano stati i due romeni. I quali dunque risulterebbero innocenti, non ostante fossero stati riconosciuti dalla ragazzina violentata e dal suo fidanzato; e non ostante uno dei due avesse addirittura confessato il delitto. Diamo per scontato che siano innocenti. Ma non è scontata, anzi è aberrante, l’equazione che ne è scaturita: dal momento che sono risultati innocenti i romeni, sono colpevoli di razzismo gli italiani; lo sono i mezzi d’informazione che, per assecondare il furor di popolo xenofobo, hanno sbattuto il mostro romeno in prima pagina.

E’ la tesi sostenuta sia da Riccardo Barenghi su La Stampa che da Piero Sansonetti sul Riformista. Ma è una tesi aberrante. Come ha spiegato Michele Brambilla su Il Giornale, non possiamo infatti scambiare un errore giudiziario con il razzismo. Lo stesso errore giudiziario che inquirenti e magistrati hanno compiuto con Elvo Zornitta, per mesi e mesi indicato come Unabomber e anche lui sbattuto, innocente, in prima pagina; benché sia friulano e non romeno.

Se vogliamo è un malcostume dei mezzi d’informazione, questo di sbattere il mostro in prima pagina prima di avere la certezza assoluta che sia davvero un mostro. Ma è un malcostume che prescinde dalla nazionalità del mostro presunto, che vale appunto anche per quelli italiani. Ma, nei confronti, dei romeni c’è o no un pregiudizio? Lo chiamerei piuttosto un postgiudizio. Nel senso che è andato maturando a seguito di una serie di riscontri: quando le statistiche ufficiali ci dicono che il 20% dei reati è compiuto da romeni benché siano meno del 2% della popolazione residente nel nostro Paese, il giudizio negativo che monta nei loro confronti come lo chiamiamo? Un pregiudizio o un postgiudizio? Ripeto un osservazione già fatta: gli italiani in Europa spesso sono detti mafiosi, è un pregiudizio o un postgiudizio? Ripudiamo noi la mafia, ripudino loro il ricorso al crimine, e scompariranno i pre o i post giudizi.

Un autocritica però va sicuramente fatta. Ed è sulla tendenza che abbiamo ad equiparare e confondere romeni con rom. Non hanno lo stesso stile di vita, non generano lo stesso allarme sociale. Direi che l’ha spiegato in modo convincente il sindaco di Verona Flavio Tosi giovedì sera ad Annozero, ricordando che nella sua città c’è una grossa comunità di 8 mila romeni, i quali lavorano in edilizia o in altri settori, molte donne fanno le badante, tutti vivono in case civili, pagano l’affitto e vogliono inserirsi. Una situazione ben diversa – ha spiegato sempre Tosi – dagli zingari che bivaccano nei campi o nelle baraccopoli, che rifiutano le regole della convivenza civile e nulla fanno per inserirsi. La massima parte dei reati arrivano da queste aree di degrado.

Dopo di che non nascondiamoci che il razzismo può sempre scatenarsi. Non ci sono anime belle o colte che ne siano immuni. L’importante è evitare l’innesco: finché non veniamo toccati è abbastanza facile ragionare molto civilmente come Barenghi e Sansonetti, ma se ci stuprano la figlia è quasi impossibile non reagire alla Borghezio. Quindi il modo più efficace di combattere il razzismo non è predicare la fratellanza umana universale, ma prevenire lo stupro sotto casa.


SUSSIDIO PERENNE DI ASSISTENZIALISMO

 E’ così civile, è così europea questa proposta di Franceschini di introdurre anche qui da noi il sussidio unico di disoccupazione che, tra l’altro, avrebbe il pregio di eliminare le vergognose disuguaglianze tra categorie iperprotette (stile ex Alitalia) e precari lasciati allo sbando. Da introdurlo domani a furor di popolo e di schieramenti trasversali. A patto di riuscire a fare prima i conti con un altra misura che non è né civile né europea ma squisitamente italiana: il sussidio perenne di assistenzialismo, che da tempo immemorabile continuamo (senza risultati) ad elargire al Sud. Diventa molto più difficile garantire oggi l’assegno a chi perde il posto di lavoro quando, a prescindere dalla crisi, lo paghi da decenni ai finti occupati; cioè a chi ha un posto di lavoro pubblico, del tutto inutile ed improduttivo, che però assicura uno stipendio inteso come panacea sociale a tempo indeterminato.

Il sussidio perenne di assistenzialismo esiste solo in Italia. La Germania, quando ha dovuto affrontare l’impresa colossale di “rianimare” il suo cadavere dell’Est ex comunista, ha previsto finanziamenti pubblici colossali, ma finalizzati al raggiungimento di obiettivi precisi e con scadenze temporali non procastinabili. Noi, cinquant’anni dopo l’unitile Cassa del Mezzogiorno, permettiamo a Tremonti (senza mandarlo in esilio perpetuo) di proporre la nuova versione della voraggine chiamata Banca del Mezzogiorno. L’ultimo scandalo denunciato dal quotidiano La Stampa è quello dei “bidelli a metro quadro”: uno per classe assunti in provincia di Caserta, rispetto alla media nazionale di uno ogni tre classi, dieci volte più bidelli a Palermo rispetto a Trento. Ed è solo l’ultimo esempio di un elenco interminabile. Continamo ad assumere bidelli, spazzini, comunali, medici, postini, magistrati, insegnanti, tutori dell’ordine, etc., etc., non perchè servono al Paese ma perchè sono meridionali. Con l’unico risultato che il Sud, intossicato dall’assistenzialismo, ha perso ogni stimolo a creare un’economia che gli consenta di reggersi sulle proprie gambe. Contrariamente a quanto avvenuto nelle Marche, in Toscana, in Emilia, in Veneto…in tutto il Centro-Nord.

Chi è rimasto fermo al 1917 (anche Obama?) è convinto che basti togliere ai ricchi, tassarli in maniera adeguata, per risolvere tutti i problemi: per uscire dalla crisi e, nel caso italiano, per trovare le risorse che finanzino sia il nuovo sussidio unico di disoccupazione che il vecchio sussidio perenne di assistenzialismo. Ignora un dettaglio: che la Rivoluzione d’Ottobre tolse tutto ai ricchi, anzi li eliminò anche fisicamente. Ma con l’unico risultato di produrre (in Urss e in Cina) le più spaventose carestie della storia contemporanea; decine di milioni di persone morte di fame grazie allo Stato che programmava piani quinquennali e “grandi balzi in avanti”.

Chi ragiona e accetta la realtà si rende conto che, oggi più di ieri, le risorse a disposizione sono limitate. Non bastano a coprire tutte le esigenze. Non basta nemmeno reperirne di ulteriori mettendo mano al sistema pensionistico. Bisogna comunque scegliere: o il merito, di chi ha lavorato sul serio e oggi perde il posto, o il sussidio perenne d’assistenzialismo; cioè la droga da iniettare ancora a chi non ha mai lavorato.