C’È PRESSIONE PERCHÉ C’È AMORE

Lo stadio era deserto. La stampa non esisteva. Quello era un “non luogo”, alienato dal resto, dove regnava il silenzio. Non c’erano giornalisti, lecchini o rompicoglioni che fossero, non erano ammessi i tifosi, troppo rischiosa e ingestibile la loro passionalità. Non un coro, dunque, non un articolo, non un’intervista, niente di niente, il nulla, solo echi di vuoto e sorda indifferenza. I giocatori giocavano per se stessi, circolo autoreferenziale, onanismo imperituro, baci e abbracci, silenzio. Il poeta John Donne nel 1600 aveva toppato, lui che scrisse che “nessun uomo è un’isola appartenente interamente a se stesso”. E pensate l’ottusità del buon vecchio Hemingway, così ingenuo nel riprendere il concetto di Donne nel suo “Per chi suona la campana”. Quella città invece era un’isola, altroché, in quella squadra la campana suonava sempre per gli “altri”, distinti da sé, e le responsabilità erano sempre “altrove”, guai a cercarle in se stessi. In quel “non luogo” anche quel giocatore con il cognome da cantautore era contento, perché sapeva che non avrebbe mai dovuto pronunciare frasi tipo “troppe pressioni inutili su di noi, la piazza non ci sta aiutando”.

La stadio anche quella sera contava migliaia di tifosi appassionati, fedeli e sempre presenti. C’erano anche i giornalisti, rompicoglioni o lecchini che fossero, presenti anche loro per vedere, raccontare, rispondere a un seguito di pubblico interessato alle vicende di quella squadra. C’era pressione sì, ma perché c’era amore. “La tragedia dell’amore è l’indifferenza” scriveva Maugham. Quella sera lo avrebbe spiegato, in modo più prosaico ma altrettanto efficace, un grande ex di quella squadra: “Per giocare qui ci vuole responsabilità, bisogna essere pronti a livello psicologico”. Quel club era l’Hellas Verona, che non era un’isola, ma espressione di una città e di una comunità di tifosi appassionati, a cui rendere conto. Quell’ex era Daniele Cacia. Per questo quella stessa sera suonarono stonate e fuori luogo le parole di quel giocatore con il cognome da cantautore: “Troppe pressioni inutili su di noi, la piazza non ci sta aiutando”. Non aveva mai letto Donne probabilmente e non sapeva nulla di Hemingway o Maugham, ma ne siamo certi di lì a poco si sarebbe fatto perdonare…in campo.

P.S. Marco Fossati è un giocatore forte, fondamentale per il Verona. Per colpa di un infortunio non è ancora al top. Voglio pensare che certe dichiarazioni le abbia fatte per questo umanissimo e comprensibile senso di frustrazione. Gli auguro di tornare presto il giocatore che è perché ne abbiamo bisogno.

ADELANTE CON JUICIO

“Pedro, adelante con juicio”. Prendo in prestito il Ferrer del Manzoni per descrivere lo stato d’animo del giorno dopo. Il Verona di una settimana fa boccheggiava, ora – dopo Ternana e soprattutto Brescia – respira, ma aspetterei a parlare di guarigione. Il bollettino medico però parla di una squadra che al Rigamonti ha dato incoraggianti segnali di ripresa, vincendo con il gioco e la supremazia e riagguantando la zona serie A. Finalmente, aggiungo, dacché sembrava una lunga crisi senza fine. Certo l’avversario era quello che era, una squadra in palese difficoltà tattica e anche ambientale. Va detto, a costo di sembrare petulanti come la signorina Rottermaier; va detto per riportare tutto alla realtà di un Verona in crescita, ma non ancora al livello che gli compete e sufficiente per agguantare la promozione diretta.

Tuttavia se è vero che una crisi lascia sempre macerie, d’altro canto Pecchia (forse con eccessiva lentezza, ma tant’è, è pur sempre un allenatore work in progress alla sua prima vera esperienza, e comunque c’è chi il bandolo della matassa non lo trova mai) ne ha approfittato per fare un po’ di pulizia interna, cambiare le gerarchie, ridisegnare il suo gruppo. Morte e sepolte le vecchie certezze, l’allenatore ne sta cercando (e forse trovando) di nuove, pur mantenendo intatta la sua filosofia di calcio. E’ un cambiamento di metodo, di operatività, non ideologico.

Con la Ternana è cominciato un mini-ciclo (relativamente) facile che si concluderà a Trapani (in mezzo Ascoli e Pisa al Bentegodi e il viaggio a Vercelli), è adesso che l’allenatore può consolidare questo suo nuovo disegno per poi farlo davvero fruttare in un rush finale che comincerà con lo Spezia al Bentegodi e si annuncia per certi versi sanguinario agonisticamente, con sette partite delle ultime nove contro squadre in lotta per i play off (4 in trasferta). A Trapani bisogna chiudere almeno a 60 punti per arrivare forti e maturi alle partite vere.

LA SERIE A STA SCAPPANDO

Da una parte lo stucchevole ottimismo di facciata. Romulo il campione della specialità, brasiliano in versione Modugno: “Meraviglioso” (il Verona di oggi). E poi giù di riff per un minuto buono: “Una delle più belle prestazioni del campionato. Meritavamo di vincere”. E si vola avrebbe aggiunto con un acuto dei suoi il cantante pugliese nell’altro suo capolavoro. Non manca poi la sensibilità botanica, ancora Romulo, ora in modalità pollice verde: “Con la Ternana mangeremo l’erba, rinasceremo” (vincere in casa con la Ternana, con tutto il rispetto, sarebbe il minimo sindacale non un’impresa solenne). Dall’altra la fiera dei luoghi comuni: “E’ un problema mentale, manca il carattere” dicono coloro che non distinguono un campo da calcio dai baffi di Crepet e mischiano il tutto con mirabile disinvoltura. Che poi, a ben vedere, la (confusa) reazione del secondo tempo è stata tutto (e solo) istinto e temperamento, ergo carattere, dunque di che parliamo?

La verità è che al Verona da oltre tre mesi manca un’altra componente: il gioco corale. Nessun cambio di passo, ritmo blando, compassato e monocorde, passaggi perlopiù orizzontali, prevedibili come un’intervista di Marzullo, improbabili come la giovane Fenech vestita. Improvvisazione jazzistica, ma qui è calcio. C’è un mare di talento in questa squadra in rapporto alla categoria, un talento che solitamente permette al Verona, per inerzia, di vincere in casa con le medio-basse, ma che non è sufficiente in trasferta, o quando il gioco di fa duro e la posta si alza. Dopo Spezia il rendimento (tattico e fisico) delle avversarie è cresciuto, noi siamo rimasti tristemente ai box, fermi come stoccafissi, aggrappati solo a quello che era già trapassato (l’inizio torneo) e alla nostra presunzione.

Dopo il Benevento dicevo che l’allenatore andava messo in discussione e lo ribadisco a maggior ragione oggi. Pecchia ha finito gli alibi, mi auguro non le idee dato che è ancora in sella ed è chiamato a risollevare le sorti di questa squadra. Ma anche Fusco, a cui Setti ha delegato l’intera gestione tecnica del club, deve dimostrare di essere all’altezza, perché un vero ds non incide solo in estate o a gennaio con il mercato, la differenza la fa nella quotidianità e soprattutto nel mare in tempesta. Fusco ha scommesso su Pecchia, sul tecnico e sull’uomo che conosce da vent’anni, bene, ma non vorrei che la fiducia incondizionata fosse un boomerang, non vorrei che la componente umana fosse troppo condizionante.

Perché, sebbene qualcuno spesso tenda a minimizzare, Pazzini nella significativa e per nulla banale conferenza stampa della settimana scorsa ci ha ricordato testualmente che quest’anno “abbiamo l’obbligo di vincere”. Tradotto in prosa: va riagguantato almeno il secondo posto. La serie A sta scappando, rendiamocene conto.

SETTI, FUSCO E PECCHIA. RIFLESSIONI.

La benedizione del Partenio. La benedizione di aver perso la testa della classifica e di conseguenza l’ultimo (flebile) alibi rimasto agli ottimisti in servizio permanente. “Siamo primi” ci raccontavano gli struzzi che nascondevano la testa (e il pensiero) sotto la sabbia, non volendo affrontare la cruda realtà: l’Hellas da tre mesi a questa parte è una squadra in recessione di idee, gioco, corsa, amalgama. “Ma ci sta nell’arco di un campionato un calo” puntualizzavano insolentiti quelli che da anni vedono gufi dappertutto. La verità è che il giocattolo di Pecchia e Fusco si è inceppato. Rimango della mia: questa squadra è sufficientemente competitiva per raggiungere la promozione diretta. Aggiungo: è una baggianata dire (e pensare) che Setti non voglia andare in serie A, è sacrosanto invece discutere sul suo metodo (leggi gli investimenti) per riuscirci. Ribadisco: Fusco da un punto di vista tecnico e con il budget disponibile ha fatto un lavoro egregio. Confermo: Pecchia sa di calcio e ha portato a Verona idee innovative e una cultura calcistica lodevole (vincere attraverso il gioco). Però… In mezzo di sono un mare di però, dubbi che avevo espresso anche nei tempi migliori e che purtroppo anziché dissiparsi sono diventati (quasi) certezze.

PECCHIA. A inizio campionato parlavo di allenatore in evoluzione, ancora inesperto e con eccessi di talebanismo nel voler affermare il suo calcio di palleggio, tecnica e offensivismo. Le sue mancanze nella fase difensiva si erano già manifestate nei primi cinque minuti di Benevento (ma i più parlarono di grande prestazione condizionata dall’espulsione). Via via sono emersi altri difetti nella gestione tecnica della rosa e in particolare di alcuni giocatori, leggi una certa confusione e incoerenza nelle scelte di formazione. Pecchia ha il merito di aver dato un’impronta alla squadra, ma non si è evoluto, semmai involuto. Sabato Vighini a 91° minuto mi ha chiesto se sia giusto esonerarlo: io spero che non debba succedere e che, anzi, sarà lui a risollevare le sorti di questa squadra e a portarla in serie A. Tuttavia è anche giusto rompere il tabù: Pecchia da sabato è un tecnico che deve essere messo in discussione.

FUSCO. Il ds è uomo intelligente e conoscitore di calcio e giocatori. Ha mescolato sbagli clamorosi (Maresca, Cherubin, Troianiello e Franco Zuculini, aggiungerei le valutazioni estive su Gomez e Siligardi), a intuizioni ragguardevoli (Bessa e Fossati, il rinnovo di Romulo e il recupero psicologico di Pazzini). Nel complesso ha messo insieme una squadra da primi due posti, dunque il suo da questo punto di vista l’ha fatto. Semmai sinora è mancato il suo carisma, dote necessaria a gestire le criticità di una stagione, la vanità e caratterialità dei giocatori, a sostenere l’allenatore di fronte agli stessi. A raddrizzare la barca insomma. Era la dote migliore di Sogliano, ora tocca a Fusco tirarla fuori.

SETTI. Lo conosciamo, la sua gestione del club è diversa (per dire) da quella del dirimpettaio Campedelli. Delegante e spesso assente (fisicamente) il primo, totalitario e presente da mane a sera il secondo. Questa scelta può piacere o meno (ed è sacrosanto discuterne) ma è legittima. Il punto è un altro: con un presidente delegante come Setti è fondamentale che i delegati siano figure di grande personalità (e torniamo al discorso del carisma di Fusco. ma anche di Pecchia).  C’è poi la parte finanziaria: “Setti non vuole tornare in A per il prossimo paracadute da 15 milioni” scrivono in molti sui social. Questo è un tormentone che viaggiava di bocca in bocca anche quando il Verona correva, ma espresso così è una sciocchezza. Setti vuole tornare in A, ma lo vuole fare alle sue condizioni, cioè con il budget fissato, male che vada i prossimi 15 milioni gli permetteranno di riprovarci, questo sì, ma da qui a dire che lui non vuole la promozione ce ne passa, questo è gossip da quattro soldi.
La questione semmai è diversa e ne avevo già discusso in passato: il Verona e Verona possono ambire ad altri presidenti ed altri investimenti? Per me sì, per altri questa è la nostra dimensione.

P.S. Solidarietà umana a Maurizio Setti, Luca Toni e Francesco Barresi per il vile agguato subìto. Qualcuno poteva rimetterci la vita. E’ possibile che succedano ancora queste follie per una partita di calcio? Le norme anti-violenza in vigore hanno (discutibilmente) ristretto la libertà individuale della stragrande maggioranza dei tifosi perbene,  ma poi accadono fatti del genere. E allora quelle norme non hanno più senso, ne avrebbe invece finalmente cominciare a colpire individualmente e severamente chi delinque e non discriminare chi non lo merita. Questo si converrebbe in uno Stato di diritto, ma invece pare molto più comodo scrivere leggi inutili e illiberali, anziché applicare quelle esistenti da decenni.

 

NON COSTRUIAMOCI ALIBI PERICOLOSI

“E’ ora di diventare grandi” scrivevo lunedì su queste pagine. Il riferimento era, in particolare, al ciclo di fuoco Benevento-Avellino-Spal-Frosinone. Il riferimento era, anche, a un Verona – scrivevo – fin lì “con un senso di incompiutezza, leader del torneo, ma senza (ancora) un vero carisma; primo da mesi, ma sempre sul filo di un’inerzia volubile”. La partita di ieri è l’emblema di queste mie parole, le attesta e le afferma. Un Verona per 50-60 minuti con un gioco relegato perlopiù a qualche ripartenza (in particolare del generoso Luppi e dell’ottimo Bessa) e a flebili e pigri lanci lunghi, nell’attesa della solita giocata risolutiva e solitaria di Pazzini. Poi la reazione – più di pancia che di testa, più di orgoglio che di forza – e un pareggio meritato, ma non convincente, non risolutore dei problemi. Contro, ricordiamolo, un Benevento ottimo e organizzato, che lotterà per la promozione diretta, ma che in trasferta ha raccolto appena 11 punti dei suoi 40 (mentre il Verona in casa 30 dei suoi 45). Un dato, questo, di cui tenere conto per fotografare una realtà che permane critica.

Gira che ti rigira dopo Spezia siamo regrediti e non ci siamo più ripresi compiutamente. Regrediti sul piano dei risultati (15 punti in 11 partite contro i 30 delle prime 13), regrediti in quello del gioco, fino ad arrivare ieri sera a giocare per alcuni tratti modalità difesa-contropiede, un no sense per una squadra costruita per offendere e senza una qualità difensiva tale da potersi permettere di abbassare il baricentro. Concluso con un nulla di fatto il calciomercato, va presa coscienza di questo, la devono prendere Fusco e Pecchia, che non vorrei regredissero a loro volta a causa di una mancanza di reale autocritica (vedi dichiarazioni come quelle di ieri sui “24 tiri in porta” del ds o del “creiamo tanto” dell’allenatore).

Siamo ancora primi, certo, ma non si vive di rendita. Serve cambiare passo, a partire da Avellino. Mancherà Pazzini (presumibilmente anche con la Spal), ieri vergognosamente espulso. Capisco le dichiarazioni al vetriolo di Fusco contro Abisso (nomen omen), che non ha tanto condizionato la partita di ieri, ma rischia di condizionare le prossime. Credo che la rabbia del ds fosse dovuta a questo, ma l’ultima cosa che serve al Verona di adesso è una bolla dove costruirsi alibi. Senza un fuoriclasse come il Pazzo è ora che torni a emergere il collettivo.

UN RISCHIO CALCOLATO È PUR SEMPRE UN RISCHIO

La montagna ha partorito il topolino. “Ma che ti aspettavi da Setti…”, mi scrive qualche lettore con l’aria disincantata di chi la sa lunga. Il tema è posto male e anche pericolosamente (quasi a liquidarlo): il punto non è “cosa aspettarsi da Setti” (che è presidente del Verona, non un passante), ma analizzare un mercato di gennaio che avrebbe dovuto essere più movimentato, per il ruolo – anche economico – che ricopre il Verona in serie B (paracadute, sponsor e incassi) e per le lacune finora mostrate rispetto agli obiettivi stagionali. Positivi gli ingaggi di Zuculini e Ferrari (e pazienza per la formula del prestito secco, con tanti saluti alle conclamate frasi sulla programmazione tecnica), ma come è ormai arcinoto a chi mi legge abitualmente serviva un giocatore in attacco sugli esterni. A prescindere dall’operazione Wszolek, ma soprattutto dopo l’operazione Wszolek, che ha portato alle casse di via Belgio altri 2,5 milioni. Invece nulla.

“Ma siamo primi” mi obietta qualcun altro amante delle solenni ovvietà. Certo e meritatamente, aggiungo. Dirò di più: probabilmente l’attuale organico basta per raggiungere la serie A e questa è la valutazione che devono aver fatto anche Setti e Fusco: massimo risultato con uno sforzo relativo. Legittimo, per carità. Ma se leggiamo le cifre emerge anche altro. Come scrive Vighini, Pazzini ha retto sostanzialmente da solo il peso dell’attacco e con i suoi gol ha portato in dote la metà dei punti; mentre il rendimento di Gomez e Siligardi dopo più di metà campionato è nettamente inferiore alle aspettative in termini di gol e assist. Ancora: il Verona nelle prime 13 partite ha totalizzato 30 punti, nelle ultime 10 appena 14 e solo 1 in trasferta (tre sconfitte e un pari), dove generalmente il rendimento è meno legato al gioco corale e più ai break individuali.

Numeri che quantomeno avrebbero dovuto smuovere qualcosa, invece si è optato per un minimalismo rischioso. Un rischio ovviamente calcolato, ponderato e ragionato (e presumibilmente vincente, a rigor di logica), ma sempre di rischio si tratta. Ne valeva la pena?

È ORA DI DIVENTARE GRANDI

Il Verona ha due qualità. Sa vincere, e solitamente vince, le partite ‘senza domani’, quelle spartiacque, che possono cambiare la classifica e il senso di una stagione (era così con Entella e Cesena, era così ieri con la Salernitana). Sa vincere, e solitamente vince, in casa.

Tutto questo ci rasserena e potrebbe pure bastare per raggiungere la serie A. Eppure rimane un senso di incompiutezza in questa squadra, leader del torneo, ma senza (ancora) un vero carisma; prima da mesi, ma sempre sul filo di un’inerzia volubile. Manca ancora autorevolezza a questo Verona, manca quel bastone del comando che non è solo punti e graduatorie, ma anche il riconoscimento morale della leadership.

E’ ora dunque di cambiare marcia, serve una sterzata. Vanno innanzitutto risistemate le cose in trasferta – dove il rendimento da due mesi a questa parte è disastroso – perché in questo girone di ritorno passeranno dal Bentegodi Benevento, Spal, Spezia, Cittadella, Carpi ed è impensabile non tornare a fare punti lontano da casa. Va poi ritrovata continuità e le prossime quattro partite (Benevento, la trasferta di Avellino, la Spal e il big match a Frosinone), in tal senso, sono l’esame di maturità assoluto. Il Verona deve scendere dall’altalena e diventare finalmente grande.

LA PUNTA ESTERNA SI COMPRA AL MERCATO (IL CARATTERE NO)

Alla fiera dell’est…il carattere non si comprò. Scusate se parafraso il capolavoro di quel genio barocco di Branduardi, ma in questi tempi di calciomercato in cui (quasi) tutti – chi giustamente, chi confusamente – tirano per la giacchetta Setti e Fusco vorrei suggerire un’altra prospettiva, che l’ex portiere Luca Marchegiani, ora commentatore Sky, ha ottimamente riassunto sabato commentando dalla pay-tv la sconfitta del Verona: “Questo è un momento del campionato dove la superiorità tecnica non basta, servono anche altre doti che il Verona oggi non ha dimostrato di avere”. Questo in sostanza il ‘telegramma’ di Marchegiani, che parlava ovviamente di attributi, carattere, animus pugnandi.

Severo ma giusto l’ex laziale. Sia chiaro, intervenire sul mercato è doveroso, Setti deve rivedere al rialzo il budget di Fusco, e sebbene i più si concentrino sulla difesa, ho già ribadito che al Verona serve soprattutto una punta esterna in grado di saltare l’uomo, dare fantasia, assist e gol, e di supportare Pazzini. Si è visto anche a Latina, dove c’era tutto il tempo per ribaltare il risultato, ma è mancata imprevedibilità dalla trequarti in su. Siligardi e Gomez sinora hanno fallito, così tutto il peso offensivo se lo sobbarca Pazzini.

Non è un problema per una squadra come il Verona costruita a trazione anteriore. E’ il problema. Se sei stato progettato per far gol e hai un solo uomo (Pazzini) che li fa e non hai nessuno (nessuno!) capace di saltare l’uomo sempre e con continuità, allora significa che convivi con una lacuna tecnica grave. Che non è in difesa, come si affrettano a dire in tanti senza approfondire, dove il Verona per come gioca è legittimato a concedere (poi con Cherubin fuori uso è ovvio che va ingaggiato anche un centrale), ma in attacco. Questo handicap va risolto in sede di mercato, investendo dei soldi, perché le punte esterne, anche se in prestito, qualcosa ti portano via economicamente.

Eppure il mercato da solo non basterà con la mentalità vista a Latina e altre troppe volte da metà novembre in poi (a Cittadella, con il Novara, a Vicenza…). Una mentalità da deboli, un impasto di estremi contraddittori: svogliata supponenza e improvvida ansietà, narcisistica presunzione e inconcludente paura. Pecchia ha saputo dare in tempi brevi una forte identità tattica alla squadra, ma a metà gennaio non è stato ancora capace di trasmettere un equilibrio caratteriale ai suoi. E questo non si vende in nessun mercato, va trovato e presto.

IL COLPO IN CANNA DI FUSCO

La linea ufficiale del calciomercato di Fusco è:  un terzino destro che sappia giocare anche a sinistra (oppure due terzini, destro e sinistro) e un mediano (Bruno Zuculini). Il terzino (o i terzini) sarà (saranno) under 21, lo Zuculini più giovane invece occuperà il posto lasciato libero da Maresca nella famosa lista dei 18. Stop.

Tutto giusto, pure il cambio di marcia sull’alter-ego di Zuculini, che fino a qualche settimana fa Fusco diceva di non cercare; probabilmente il ds ha cambiato idea con il mutare della valutazione sulle condizioni dell’ex Bologna e ha ripiegato sul fratello minore, che è vero che nelle precedenti esperienze europee ha fallito, ma che approda a Verona in prestito e come alternativa a un blocco titolare già consolidato. Tutto giusto, pure il congedo da Maresca, ex grande giocatore, ma pure ex giocatore, l’ultimo ad arrivare in estate e il primo ad andarsene, come se la maledizione di un Matuzalem a Verona fosse per sempre. Tutto giusto, pure i comprensibili tormenti su Fares, giocatore dal potenziale immenso (quello scatto e quella progressione palla al piede non si imparano, si hanno) ma che si è avvitato su se stesso, sulla sua emotività e sulla sua anarchia tattica. Tutto giusto, pure il principio maestro che il direttore sportivo ha sviscerato all’opinione pubblica: “Questa squadra è da puntellare, integrare, non da rivoluzionare”. Sottinteso: siamo primi, questo organico basta e avanza per risalire in A, a giugno si vedrà.  Del resto, e il sottoscritto lo ha sempre detto,  la parola “progetto” nel calcio italiano di oggi lascia il tempo che trova, perché un anno o una stagione in questa epoca equivalgono spesso a un’era geologica. Troppi chiari di luna, procuratori troppo potenti, giocatori-azienda, contratti pluriennali solo come garanzia (per i club) anti-Bosman, piccole-medie società che vivono di cessioni e plusvalenze anche a stretto giro di posta. Tradotto: l’Hellas penserà soprattutto a tornare in A, sebbene Setti abbia pubblicamente lasciato la porta aperta a qualche acquisto in prospettiva futura.

In quest’ottica dell’immediatezza e al di fuori della linea ufficiale credo che Fusco, per non rischiare niente e non lasciare nulla di intentato, proverà fino all’ultimo a ingaggiare un esterno d’attacco forte, titolare, senior o anche under purché sia di grande qualità e in grado di sostenere Pazzini nel 4-3-3, dato che Siligardi e Gomez ad oggi non ci sono riusciti.  La mia sensazione è che sia questo il vero colpo di mercato che stanno meditando in via Belgio. Dovesse arrivare un top player per la categoria il sacrificato sarebbe Siligardi, che ha mercato e che a differenza di Troianiello difficilmente accetterebbe la panchina fissa e qualche scampolo di partita. Non è detto che si riuscirà a piazzare un colpo del genere, anzi ad oggi è più probabile che là davanti il Verona rimanga così com’è, ma è lampante che le cifre (il carico di gol se l’è sobbarcato quasi esclusivamente Pazzini), le scelte di Pecchia (quella di alzare Bessa in alcune partite) e il 4-3-3 a trazione anteriore del tecnico suggeriscano che il Verona il salto di qualità lo debba fare sulle ali. Aspettando ovviamente Gomez, tormentato da noie fisiche e forse da un rilassamento mentale, e di cui si parla troppo poco, ma che se al 100 per cento è per il Verona secondo solo a Pazzini e Romulo.

 

LA VITTORIA DI PECCHIA IL FUTURISTA

“Tutto è futurismo, tutto oggi ha il ritmo del futurismo; ritmo incalzante, rapido, deciso, antisentimentale. Noi viviamo nell’era del poco sonno, del poco riposo, del poco risparmio; viviamo in maniera verticale, tesi e sospesi”.

Filippo Tommaso Marinetti proferì queste parole nel 1929. Pecchia, senza volerlo, le ha fatte sue ieri sera: “E’ da 6 mesi che vivo in un sommergibile”, cioè in apnea, marinettianamente e futuristicamente “verticale, teso e sospeso”. Pecchia è un futurista, la tensione, l’ansia del futuro (la promozione in A), l’irrequietezza lo stanno pervadendo. E’ invecchiato più lui in pochi mesi che Obama in otto anni alla Casa Bianca.

Ma ne è valsa la pena perché l’allenatore del Verona è emerso nel momento più difficile. Perché, non giriamoci intorno, dopo Vicenza – sconfitta simbolo della crisi – il famoso cerino ce l’aveva in mano lui. In quel momento tanti, più o meno velatamente, di soppiatto o di sottecchi e sussurranti, temevano che l’allenatore, vuoi per inesperienza, vuoi per un carattere (apparentemente) bonario, non avesse più in mano la situazione. Scrivevo in quei giorni: “Ci sono tre partite da giocare, sono tante perché non stai bene, sono tante perché la classifica si è fatta tremendamente corta. Tocca a Pecchia e solo a lui adesso risolvere i problemi, lo deve fare e presto”. Pecchia lo ha fatto raccogliendo 7 punti in un crescendo rossiniano (di rendimento).

L’Entella è stata il risveglio, vigilia da diluvio universale, primo tempo da timorati da Dio, vittoria determinante in un secondo tempo tutto temperamento. Carpi la svolta, nella situazione tecnica e psicologica più difficile per una squadra ancora in prognosi: in svantaggio per un errore individuale (Nicolas) contro un avversario tosto, falloso e irritante; ma in Emilia si son ritrovati gioco e cifra tecnica. Ma solo tre indizi fanno una prova e mancava la conferma, ieri sera si è avuta vincendo e convincendo: il Verona è guarito. Certo, dovrà essere rafforzato a gennaio (specie nelle seconde linee) e Setti ha detto che la società interverrà, ma quello che più conta è che il Pecchia ferito e discusso ha ritrovato la sua squadra e si è rilegittimato. Certo, vivrà ancora nel “sommergibile” come dice lui, tra i “tesi e sospesi” come diceva Marinetti, ma più fiero, forte e consapevole, ben felice di scambiare altre rughe e capelli grigi per nuove vittorie.