È ORA DI DIVENTARE GRANDI

Il Verona ha due qualità. Sa vincere, e solitamente vince, le partite ‘senza domani’, quelle spartiacque, che possono cambiare la classifica e il senso di una stagione (era così con Entella e Cesena, era così ieri con la Salernitana). Sa vincere, e solitamente vince, in casa.

Tutto questo ci rasserena e potrebbe pure bastare per raggiungere la serie A. Eppure rimane un senso di incompiutezza in questa squadra, leader del torneo, ma senza (ancora) un vero carisma; prima da mesi, ma sempre sul filo di un’inerzia volubile. Manca ancora autorevolezza a questo Verona, manca quel bastone del comando che non è solo punti e graduatorie, ma anche il riconoscimento morale della leadership.

E’ ora dunque di cambiare marcia, serve una sterzata. Vanno innanzitutto risistemate le cose in trasferta – dove il rendimento da due mesi a questa parte è disastroso – perché in questo girone di ritorno passeranno dal Bentegodi Benevento, Spal, Spezia, Cittadella, Carpi ed è impensabile non tornare a fare punti lontano da casa. Va poi ritrovata continuità e le prossime quattro partite (Benevento, la trasferta di Avellino, la Spal e il big match a Frosinone), in tal senso, sono l’esame di maturità assoluto. Il Verona deve scendere dall’altalena e diventare finalmente grande.

LA PUNTA ESTERNA SI COMPRA AL MERCATO (IL CARATTERE NO)

Alla fiera dell’est…il carattere non si comprò. Scusate se parafraso il capolavoro di quel genio barocco di Branduardi, ma in questi tempi di calciomercato in cui (quasi) tutti – chi giustamente, chi confusamente – tirano per la giacchetta Setti e Fusco vorrei suggerire un’altra prospettiva, che l’ex portiere Luca Marchegiani, ora commentatore Sky, ha ottimamente riassunto sabato commentando dalla pay-tv la sconfitta del Verona: “Questo è un momento del campionato dove la superiorità tecnica non basta, servono anche altre doti che il Verona oggi non ha dimostrato di avere”. Questo in sostanza il ‘telegramma’ di Marchegiani, che parlava ovviamente di attributi, carattere, animus pugnandi.

Severo ma giusto l’ex laziale. Sia chiaro, intervenire sul mercato è doveroso, Setti deve rivedere al rialzo il budget di Fusco, e sebbene i più si concentrino sulla difesa, ho già ribadito che al Verona serve soprattutto una punta esterna in grado di saltare l’uomo, dare fantasia, assist e gol, e di supportare Pazzini. Si è visto anche a Latina, dove c’era tutto il tempo per ribaltare il risultato, ma è mancata imprevedibilità dalla trequarti in su. Siligardi e Gomez sinora hanno fallito, così tutto il peso offensivo se lo sobbarca Pazzini.

Non è un problema per una squadra come il Verona costruita a trazione anteriore. E’ il problema. Se sei stato progettato per far gol e hai un solo uomo (Pazzini) che li fa e non hai nessuno (nessuno!) capace di saltare l’uomo sempre e con continuità, allora significa che convivi con una lacuna tecnica grave. Che non è in difesa, come si affrettano a dire in tanti senza approfondire, dove il Verona per come gioca è legittimato a concedere (poi con Cherubin fuori uso è ovvio che va ingaggiato anche un centrale), ma in attacco. Questo handicap va risolto in sede di mercato, investendo dei soldi, perché le punte esterne, anche se in prestito, qualcosa ti portano via economicamente.

Eppure il mercato da solo non basterà con la mentalità vista a Latina e altre troppe volte da metà novembre in poi (a Cittadella, con il Novara, a Vicenza…). Una mentalità da deboli, un impasto di estremi contraddittori: svogliata supponenza e improvvida ansietà, narcisistica presunzione e inconcludente paura. Pecchia ha saputo dare in tempi brevi una forte identità tattica alla squadra, ma a metà gennaio non è stato ancora capace di trasmettere un equilibrio caratteriale ai suoi. E questo non si vende in nessun mercato, va trovato e presto.

IL COLPO IN CANNA DI FUSCO

La linea ufficiale del calciomercato di Fusco è:  un terzino destro che sappia giocare anche a sinistra (oppure due terzini, destro e sinistro) e un mediano (Bruno Zuculini). Il terzino (o i terzini) sarà (saranno) under 21, lo Zuculini più giovane invece occuperà il posto lasciato libero da Maresca nella famosa lista dei 18. Stop.

Tutto giusto, pure il cambio di marcia sull’alter-ego di Zuculini, che fino a qualche settimana fa Fusco diceva di non cercare; probabilmente il ds ha cambiato idea con il mutare della valutazione sulle condizioni dell’ex Bologna e ha ripiegato sul fratello minore, che è vero che nelle precedenti esperienze europee ha fallito, ma che approda a Verona in prestito e come alternativa a un blocco titolare già consolidato. Tutto giusto, pure il congedo da Maresca, ex grande giocatore, ma pure ex giocatore, l’ultimo ad arrivare in estate e il primo ad andarsene, come se la maledizione di un Matuzalem a Verona fosse per sempre. Tutto giusto, pure i comprensibili tormenti su Fares, giocatore dal potenziale immenso (quello scatto e quella progressione palla al piede non si imparano, si hanno) ma che si è avvitato su se stesso, sulla sua emotività e sulla sua anarchia tattica. Tutto giusto, pure il principio maestro che il direttore sportivo ha sviscerato all’opinione pubblica: “Questa squadra è da puntellare, integrare, non da rivoluzionare”. Sottinteso: siamo primi, questo organico basta e avanza per risalire in A, a giugno si vedrà.  Del resto, e il sottoscritto lo ha sempre detto,  la parola “progetto” nel calcio italiano di oggi lascia il tempo che trova, perché un anno o una stagione in questa epoca equivalgono spesso a un’era geologica. Troppi chiari di luna, procuratori troppo potenti, giocatori-azienda, contratti pluriennali solo come garanzia (per i club) anti-Bosman, piccole-medie società che vivono di cessioni e plusvalenze anche a stretto giro di posta. Tradotto: l’Hellas penserà soprattutto a tornare in A, sebbene Setti abbia pubblicamente lasciato la porta aperta a qualche acquisto in prospettiva futura.

In quest’ottica dell’immediatezza e al di fuori della linea ufficiale credo che Fusco, per non rischiare niente e non lasciare nulla di intentato, proverà fino all’ultimo a ingaggiare un esterno d’attacco forte, titolare, senior o anche under purché sia di grande qualità e in grado di sostenere Pazzini nel 4-3-3, dato che Siligardi e Gomez ad oggi non ci sono riusciti.  La mia sensazione è che sia questo il vero colpo di mercato che stanno meditando in via Belgio. Dovesse arrivare un top player per la categoria il sacrificato sarebbe Siligardi, che ha mercato e che a differenza di Troianiello difficilmente accetterebbe la panchina fissa e qualche scampolo di partita. Non è detto che si riuscirà a piazzare un colpo del genere, anzi ad oggi è più probabile che là davanti il Verona rimanga così com’è, ma è lampante che le cifre (il carico di gol se l’è sobbarcato quasi esclusivamente Pazzini), le scelte di Pecchia (quella di alzare Bessa in alcune partite) e il 4-3-3 a trazione anteriore del tecnico suggeriscano che il Verona il salto di qualità lo debba fare sulle ali. Aspettando ovviamente Gomez, tormentato da noie fisiche e forse da un rilassamento mentale, e di cui si parla troppo poco, ma che se al 100 per cento è per il Verona secondo solo a Pazzini e Romulo.

 

LA VITTORIA DI PECCHIA IL FUTURISTA

“Tutto è futurismo, tutto oggi ha il ritmo del futurismo; ritmo incalzante, rapido, deciso, antisentimentale. Noi viviamo nell’era del poco sonno, del poco riposo, del poco risparmio; viviamo in maniera verticale, tesi e sospesi”.

Filippo Tommaso Marinetti proferì queste parole nel 1929. Pecchia, senza volerlo, le ha fatte sue ieri sera: “E’ da 6 mesi che vivo in un sommergibile”, cioè in apnea, marinettianamente e futuristicamente “verticale, teso e sospeso”. Pecchia è un futurista, la tensione, l’ansia del futuro (la promozione in A), l’irrequietezza lo stanno pervadendo. E’ invecchiato più lui in pochi mesi che Obama in otto anni alla Casa Bianca.

Ma ne è valsa la pena perché l’allenatore del Verona è emerso nel momento più difficile. Perché, non giriamoci intorno, dopo Vicenza – sconfitta simbolo della crisi – il famoso cerino ce l’aveva in mano lui. In quel momento tanti, più o meno velatamente, di soppiatto o di sottecchi e sussurranti, temevano che l’allenatore, vuoi per inesperienza, vuoi per un carattere (apparentemente) bonario, non avesse più in mano la situazione. Scrivevo in quei giorni: “Ci sono tre partite da giocare, sono tante perché non stai bene, sono tante perché la classifica si è fatta tremendamente corta. Tocca a Pecchia e solo a lui adesso risolvere i problemi, lo deve fare e presto”. Pecchia lo ha fatto raccogliendo 7 punti in un crescendo rossiniano (di rendimento).

L’Entella è stata il risveglio, vigilia da diluvio universale, primo tempo da timorati da Dio, vittoria determinante in un secondo tempo tutto temperamento. Carpi la svolta, nella situazione tecnica e psicologica più difficile per una squadra ancora in prognosi: in svantaggio per un errore individuale (Nicolas) contro un avversario tosto, falloso e irritante; ma in Emilia si son ritrovati gioco e cifra tecnica. Ma solo tre indizi fanno una prova e mancava la conferma, ieri sera si è avuta vincendo e convincendo: il Verona è guarito. Certo, dovrà essere rafforzato a gennaio (specie nelle seconde linee) e Setti ha detto che la società interverrà, ma quello che più conta è che il Pecchia ferito e discusso ha ritrovato la sua squadra e si è rilegittimato. Certo, vivrà ancora nel “sommergibile” come dice lui, tra i “tesi e sospesi” come diceva Marinetti, ma più fiero, forte e consapevole, ben felice di scambiare altre rughe e capelli grigi per nuove vittorie.

ORA TOCCA A PECCHIA

Anarchy in the… Hellas Verona. Ma qui è tutto meno punk, ribelle, lieve ed epico rispetto ai tempi dei Sex Pistols e della loro ‘Anarchy In The UK’. Qui è solo tutto più drammatico, cupo e preoccupante.

Il Verona di Pecchia si è smarrito: tatticamente senza più ordine, senza più armonia, senza più regole. Ognuno in campo sembra andare per conto suo, sfilacciato, solitario, disorganico. Un corpo senz’anima.

Lo sport è tremendo, specie se corri una maratona lunga 42 chilometri (partite). Il momento no, anche casuale o sfortunato, è sempre in agguato, può capitare, ma la discriminante è se lo sai gestire. L’Hellas ce l’ha avuto con il Novara, sconfitta probabilmente più pesante, sfortunata e casuale di quanto si sia detto o scritto. Il problema, e qui il caso non c’entra più, è che quella debacle non è stata gestita sapientemente. Credo che siano emersi anche i limiti di esperienza e di carattere di Fabio Pecchia, del quale torno a ribadire quanto dico o scrivo da inizio campionato (quando si vinceva): uomo perbene, grande tattico della fase offensiva, ispirato da una filosofia affascinante e positivistica (vincere passando dal gioco), ma difettante e inesperto in quegli aspetti che possono risultare determinanti.

Innanzitutto il suo Verona intende il calcio in una sola maniera e non sa mutare e giocare più partite in una: usiamo solo il fioretto e non la spada, concepiamo solo il dominio e non la rimessa, vogliamo vincere e convincere con la cultura e l’onestà e dimentichiamo furbizia, malizia e “ignoranza”, conosciamo solo il palleggio e disconosciamo corsa e ripartenze, curiamo solo la fase di possesso e ci dimostriamo fragili e disuniti in fase di non possesso (e hai voglia di dare colpa ai difensori, a Verona nel mirino già ai tempi di Mandorlini, il problema ancora oggi è tattico e non sono i singoli, Bianchetti ad esempio con Delneri non sfigurò in serie A). Questo manicheismo conduce Pecchia anche a degli errori di lettura delle stesse partite e alla gestione discutibile di alcuni giocatori, sinora messi in condizione di non rendere al meglio.

L’allenatore però ha un alibi: una rosa che si è rivelata clamorosamente corta in difesa (sia nei centrali che nei terzini) e anche sugli esterni d’attacco, e con almeno quattro giocatori dei 18 over imposti dal regolamento non pervenuti (Maresca, Troianiello, Cherubin e Zuculini). Un lusso questo che non possiamo permetterci e di cui deve fare severa autocritica il ds Fusco, che nel complesso ha lavorato bene per il budget a disposizione (leggi nozze con i fichi secchi, e qui torniamo al discorso dei 25 milioni di paracadute e di un Setti che ciononostante ha messo il suo ds nelle condizioni di dover lavorare perlopiù con svincolati e prestiti con riscatto), ma che a gennaio deve rimediare a questi suoi errori.

Ma da qui ad allora ci sono tre partite da giocare. Sono tante perché non stai bene; sono tante perché, con tre squadre a soli due punti che minacciano la leadership e i primi due posti della promozione diretta, la classifica si è fatta tremendamente corta. Tradotto: il mercato ora resti solo un retropensiero. Tocca a Pecchia e solo a lui adesso risolvere i problemi, lo deve fare e presto. “Non vado contro i muri” ha detto ieri in sala stampa. Glielo auguro di cuore, perché sarebbe la sconfitta più grande per il Verona.

RESILIENZA

Resilienza: capacità di un materiale di sostenere gli urti senza spezzarsi.

In principio il termine fu coniato e utilizzato nella meccanica e nel tessile, da qualche anno è in voga nel settore della psicologia, anche sportiva.

Oggi “resilienza” è l’imperativo del Verona, che da un mese a questa parte ha perso brillantezza e fluidità e dunque non è più in grado di proporre con efficacia il suo gioco, ma che deve trovare il modo di resistere da qui a gennaio, mese della (beata) sosta e del mercato.

C’è un problema di fondo: il Verona, che non sa più giocare di dominio, forse non ha le caratteristiche (tecniche, tattiche, fisiche e mentali) per vincere di rimessa, cioè con l’attenzione al dettaglio e la dedizione all’episodio (vedi i gol subiti allo scadere dei tempi ieri), manchevole com’è di furbizia sparagnina, muscolare praticità, capacità difensiva e costanza mentale. Il Verona vince spesso quando è bello, di rado quando non lo è. Insomma è condannato a piacere. E’ un limite, che  ha una spiegazione.

Come ho già avuto modo di scrivere e dire in tempi non sospetti, Pecchia sa proporre solo un tipo di calcio (e se quello non riesce non ne emergono altri) e i giocatori determinanti della squadra sono ottimi specialisti (intendono il gioco in un solo modo), ma pessimi universali (non sanno adattarsi ai mutamenti). Gianluca Vighini dunque ha centrato il bersaglio: la coperta è corta e Setti a gennaio deve mettere mano al portafoglio, perché Fusco solo con l’inventiva e gli scambi poco può. Occorrono un leader in difesa, un giocatore fisico e di corsa a centrocampo e un’ala che faccia la differenza. Ma è necessario anche che Pecchia allarghi le vedute e gestisca meglio la rosa a disposizione.

Nel frattempo resilienza, perché prima del mercato e della sosta ci sono 4 partite da giocare: Vicenza, Entella, Carpi e Cesena. Il Verona, pur nella sua opacità, ha le possibilità di mettere in cascina almeno altri 7-8 punti e girare a 41-42. Firmerei.

IL RAGAZZO CHE DIVENTA UOMO

Il ragazzo, forse, sta diventando uomo. Questa è l’allegoria della domenica calcistica. Aver scoperto la propria fragilità può aver dato nuova consapevolezza al Verona, che sarà definitivamente grande solo quando saprà abbracciare il talento dimenticando la vanità.

Contro il Bari serviva spogliarsi da tutto e di tutto: dagli incubi delle due umiliazioni, dalla paura fottuta di veder vacillare le proprie certezze, dall’inquietudine di aver imboccato un vicolo cieco. La grande incognita della vigilia era proprio questa: la tenuta mentale. Il Verona era al primo vero snodo della stagione, davanti a sé due strade: quella di un declino forse ineluttabile e quella di una nuova grandezza. In mezzo la domanda delle domande per Pecchia e giocatori: chi e cosa siamo? In questo contesto il Bari rispolverato da Colantuono (4 punti in due partite) era l’avversario peggiore che potesse capitare.

L’Hellas, pur tra fatica, nervosismo tecnico e tratti di sofferenza, ha superato la prova e saputo resistere, ritrovarsi e ricompattarsi a due metri dal burrone. Al resto ci hanno pensato Romulo, un treno in corsa che nel secondo tempo ha letteralmente trascinato i compagni, e Pazzini che ha risolto tutto con un gol da consumato bomber. La sintesi è: non abbiamo perso grazie alla forza morale e psicologica del collettivo, che anziché disgregarsi e lasciarsi andare ha dato una superba prova di solidità (un applauso a Pecchia, festeggiato dai giocatori dopo il gol); abbiamo vinto grazie alla puntualità di due campioni fuori concorso, determinanti e sanamente egoisti nel momento del bisogno.

Lo ammetto, con nove gol sul groppone in due partite non avrei disdegnato un pareggio. Ci sono momenti in cui devi solo resistere e aspettare che passi. Ma vincere è un toccasana. La ritrovata serenità spero aiuti a recuperare anche quella fluidità di gioco smarrita da un po’. In parte è fisiologico certo, mica puoi essere frizzi e lazzi per 42 partite, un po’ dipende dal calo del nostro centrocampo, cuore e cervello di tutto, ma credo che Pecchia debba anche studiare soluzioni tecniche e tattiche nuove, fatta salva ovviamente l’identità della squadra. Per dire, il Verona da centrocampo in su dispone di giocatori che possono offrire nuovi spunti: Zaccagni e Valoti l’imprevedibilità, la verticalità, l’inserimento e la stoccata; Ganz e Gomez (che possono giocare con Pazzini) un gioco più centrale e concreto. Tutti loro vanno sfruttati di più e meglio. Anche da qui passa la crescita del nostro allenatore. Il resto va affrontato a gennaio, leggi mercato, quando Setti e Fusco dovranno rinforzare la rosa.

ECCO 5 BUONE RAGIONI…(DELL’UMILIAZIONE)

Pietrificati. Credo sia l’aggettivo che renda maggiormente l’idea dello stato d’animo generale dopo l’inopinata e terribile sconfitta casalinga di ieri. Eppure, a freddo, invito a un sano realismo: no a (ridicoli) allarmismi, sì a (sacrosante) riflessioni. Non si campa sul passato, nemmeno se recente, ma stiamo pur sempre parlando di una squadra che dopo un terzo di campionato ha quasi sempre vinto, spesso convinto, sovente dominato e soprattutto totalizzato 30 punti (con questa media si arriverebbe a 90 e non è mai successo nella storia del Verona). Insomma voglio pensare si sia trattato di un episodio, drammatico, brutale e umiliante, ma pur sempre un episodio. Ovviamente non casuale, ma motivato da cinque ragioni.

PSICOLOGIA. Credo che il Verona abbia vissuto la nemesi psicologica dell’exploit di La Spezia. Una vittoria, quella, per certi versi inaspettata (almeno nelle proporzioni) e ottenuta grazie a una prestazione scientificamente perfetta (che non significa per forza di cose esteticamente bella), ma anche mentalmente faticosa. Con il Novara il Verona è apparso scarico, inconsciamente rilassato, abulico. Da questo punto di vista lo 0-4 può essere la sveglia migliore, ideale a riprendere il cammino.

CALO DEGLI UOMINI CHIAVE. Fossati a La Spezia (ma anche nelle precedenti partite) è stato il migliore in campo, ieri era avulso dalla partita, si nascondeva e non ha mai impostato il gioco. Episodio? Per lui può essere. Bessa invece appare un po’ stanco già da tre partite. Per Romulo il discorso è diverso: a mio avviso viene sballottato in troppi ruoli (anche a partita in corso) e rischia di snaturarsi e di non incidere in nessuno (neanche nel suo di mezz’ala destra). Così capita che non riesca più a giocare 90 minuti ai suoi livelli, nemmeno quando è protagonista (come al Picco), figuriamoci se in ombra come è successo ieri ma anche in altri recenti match. Ho citato apposta questi tre giocatori perché con Pazzini sono il cuore e il cervello della squadra. Pazzini che, per inciso, non segna da quattro partite: ma se non gira il centrocampo la vita è dura anche per lui e di conseguenza lo è per il Verona, che delle invenzioni in zona gol di un campione come il Pazzo ha particolare necessità in partite “bastarde” come quella di ieri. Come rimediare? Da un lato questi sono cali fisiologici da mettere in conto nell’arco di una “maratona” di 42 partite, dunque potremmo liquidare la questione alla Eduardo De Filippo (addà passà ‘a nuttata); dall’altro Pecchia deve ridefinire una nuova gestione della rosa, specie a centrocampo, che è la zona più dispendiosa del gioco del calcio, ma che è anche il reparto dove il Verona ha diverse alternative (Valoti e Zaccagni possono dare più cambi a Bessa, Romulo e Fossati, fatto salvo il valore assoluto dei tre titolari).

PECCHIA E I DETTAGLI MANCANTI. Scrivevo il 30 ottobre sulla mia pagina facebook dopo la vittoria con il Trapani: “Pecchia ha talento, conoscenza e personalità ma pecca ancora nei dettagli”. Un concetto che in altri termini ho espresso più volte anche in questo spazio. Ieri l’allenatore del Verona (che ricordiamolo sempre ha portato cultura del lavoro, metodo, sagacia tattica, gioco) si è fatto sorprendere da Boscaglia che ha schierato per la prima volta il Novara con la difesa a 5. Pazzini così si è ritrovato a battagliare per 60 minuti abbondanti tutto solo contro tre marcantoni in una giornata già difficile di suo (per i motivi spiegati sopra). Proprio per questo avrei evitato di inserire un altro esterno (Luppi) e di sconvolgere la squadra togliendole il regista (Fossati) e avrei provato a inserire già al riposo una punta (Ganz o Gomez al posto di Valoti) da affiancare a Pazzini per giocare meno di manovra e più sulle seconde palle (come è successo nel secondo tempo con il Brescia). Certo Ganz poi è entrato e ha giocato male, ma qui io difendo il concetto tattico di inserire un centravanti in più, indipendentemente dalla prestazione del singolo, e comunque Ganz è entrato con un Verona che aveva già perso i suoi equilibri (l’uscita di Fossati), mentre sarebbe stato preferibile vederlo con Pazzini sostenuti entrambi da un centrocampo classico. Ecco, a mio avviso Pecchia a volte va in difficoltà nella lettura delle partite (altre invece è stato bravo e l’ho sottolineato) e quelle volte sempre per lo stesso motivo: il manicheismo con cui tende a vedere il calcio. Indipendentemente dai moduli (che invece cambia spesso) la “tara” è la stessa: gioco manovrato e palla a terra, ma in contesti come quelli di ieri io non disdegnerei un gioco più sporco (due punte, seconde palle e spizzicate). Tuttavia ribadisco quanto detto altre volte: Pecchia è un allenatore in evoluzione, già preparato ma non ancora “fatto e finito”, va difeso in questo suo percorso perché il suo potenziale è notevole. E anche la sua onestà intellettuale, basta rivedere le sue dichiarazioni post partita.

LA PARTITA DELLA VITA. Il Novara ha ragione: “Riconoscete anche i nostri meriti” sottolineavano ieri i suoi giocatori. La squadra di Boscaglia ha fatto la partita della vita per intensità atletica, ordine tattico, cattiveria agonistica e malizia. Il Verona ha combinato quel che ha combinato (e lo abbiamo detto nei punti precedenti) e la perfezione occasionale degli avversari ha fatto il resto. E’ il calcio bellezza: lo sport, tra tutti, nel quale accade più frequentemente che il più debole batta il più forte.

L’ARBITRO. Chi mi legge abitualmente sa che in questi anni non ho mai parlato della classe arbitrale. Non mi piace e non appartiene alla mia cultura. Ma ieri la partita è stata evidentemente condizionata da una terna pessima sia negli episodi (primo gol viziato da un fuorigioco di due metri e un rigore non concesso al Verona) che nella gestione della partita, che ha assecondato la furbizia dei giocatori del Novara. Il Verona, per caratteristiche tecniche e fisiche, è una squadra che non riesce a metterla in bagarre, ma basterebbe un arbitro che tutelasse il corso naturale della partita, cioè il gioco.

QUELLA SFIDA ESISTENZIALE DI PECCHIA E GIOCATORI…

La bellezza dell’epicità si può cogliere anche in un campionato – quello del Verona – che appare viziato dall’ovvio di un dominio sinora assoluto (leggasi al riguardo il mio articolo del 30 ottobre “L’ovvio non ucciderà il godimento”). Si coglie ad esempio nel sabato di La Spezia, che assume contorni gloriosi perché l’Hellas ha giocato più partite in una nel catino bagnato eppure bollente del Picco – uno di quegli stadi affascinanti nel suo passatismo vintage, con un pubblico vero nei suoi smoccoli e con le sue imprecazioni, ben lontano da certi contesti preteschi, asettici e dai vuoti echi che pure questo calcio del nuovo millennio ci ha consegnato. Il resto forse l’avranno fatto la pioggia, i ritmi vertiginosi della partita, il suo andamento più contorto e vissuto di quanto dica il risultato.

A me è piaciuta molto la gestione della sofferenza iniziale. Il Verona è stato intelligente, cioè sornione e ordinato in consapevole attesa del colpo vincente. A Benevento, per dire, non era accaduto e in quella circostanza l’atteggiamento ottusamente spregiudicato fu la causa dell’espulsione di Caracciolo e della sconfitta. Il prosieguo è stato un crescendo rossiniano, con il Verona che ha sprigionato tutto il suo talento e la sua personalità. Mi direte, e qui dove sta la novità? Risposta: nella forza quasi imbarazzante con cui questo è avvenuto, una forza ancora più significativa delle altre volte, per il valore dell’avversario e per il contesto ambientale (stadio, e pioggia e campo pesante), una forza da cecchini freddi e risoluti, senza concessione ad alcuno spreco di energia. In altre circostanze avevamo ammirato un Verona bello e vincente, ma anche civettuolo, narcisista e accademico. A La Spezia registro un salto di qualità: all’estetica si è accompagnata una concretezza totalitaria e una capacità di lettura della partita (anzi delle tante partite in una) chirurgica.

Il dominio assoluto rischia di nascondere una finezza, meglio, un dettaglio che tuttavia i più acuti osservatori avranno certamente colto: l’Hellas, i suoi giocatori e il suo allenatore stanno ancora studiando, crescendo e migliorando. Stanno giocando su loro stessi e i loro limiti, sfidandoli. All’obiettivo agonistico – cioè vincere il campionato, o quantomeno risalire in serie A – accompagnano un obiettivo più esistenziale: costruirsi e costruire per loro stessi un futuro ai più alti livelli. Dovessero riuscirvi, Setti avrebbe l’obbligo di ripartire da lì per non disperdere e consegnare ad altri il frutto di questo percorso.

L’OVVIO NON UCCIDERÀ IL GODIMENTO

Appare tutto così scontato. Predestinato. Ovvio. Pure fastidioso: perché dover aspettare tutti questi mesi per conseguire quello che a molti pare già scritto? Perché non sbrigarsela in fretta, chiudere baracca e burattini e ricominciare subito dalla serie A? Il Verona a quasi un terzo del campionato è saldamente in testa, domina e mette in pratica il noto refrain pubblicitario secondo cui è possibile e bello vincere facile. Tuttavia il rischio – non pronunciato, anzi silente e sottinteso – è che questa stagione possa trasformarsi in un’agonia al contrario. L’agonia del divertimento abitudinario che non diverte più, della ricchezza che spegne il gusto della conquista, della quotidianità-modello perfetta e vincente che smarrisce il fascino borderline della sofferenza, il sex appeal del successo corsaro, l’eros della seduzione, caratteristiche nel dna e nella storia del Verona. “Sì d’accordo ma poi…tutto il resto è noia” cantava Califano.

Il fatto è che non siamo abituati a questo status borghese del dominio assoluto, della vittoria obbligata, del successo come minimo sindacale. E’ questo il paradosso nel rapporto tra il Verona e la sua opinione pubblica: in estate scetticismo, dubbi e nessuna lode, ora la pretenziosità e il rischio di non vedersi riconosciuto il merito (e dunque, ancora, nessuna lode). Eppure, osservando la questione retroattivamente, molto in estate non era scontato. Era d’obbligo l’intento (risalire in A), non il rendimento. Chi scommetteva ad occhi chiusi solo su uno di questi giocatori: Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati e Valoti, cioè la spina dorsale dell’attuale squadra? Abbiamo dimenticato chi addirittura parlava di Lega Pro (sì abbiamo sentito anche questa) dopo la pur meritata e inopinata sconfitta di Benevento? Ci ricordiamo i cocci (finanziari, morali e psicologici) lasciati dalla gestione precedente e raccolti da Filippo Fusco, che ha ricostruito l’Hellas – ricordiamo anche questo – senza il bancomat illimitato, ma anzi con l’inventiva e l’intuito?

Io non dimentico e scaccio il pericolo che la dittatura dell’Ovvio mortifichi e uccida il godimento. Anche perché l’Ovvio ancora non esiste con Spezia (trasferta insidiosissima), Cittadella, Bari, Entella e Carpi da affrontare.