ECCO 5 BUONE RAGIONI…(DELL’UMILIAZIONE)

Pietrificati. Credo sia l’aggettivo che renda maggiormente l’idea dello stato d’animo generale dopo l’inopinata e terribile sconfitta casalinga di ieri. Eppure, a freddo, invito a un sano realismo: no a (ridicoli) allarmismi, sì a (sacrosante) riflessioni. Non si campa sul passato, nemmeno se recente, ma stiamo pur sempre parlando di una squadra che dopo un terzo di campionato ha quasi sempre vinto, spesso convinto, sovente dominato e soprattutto totalizzato 30 punti (con questa media si arriverebbe a 90 e non è mai successo nella storia del Verona). Insomma voglio pensare si sia trattato di un episodio, drammatico, brutale e umiliante, ma pur sempre un episodio. Ovviamente non casuale, ma motivato da cinque ragioni.

PSICOLOGIA. Credo che il Verona abbia vissuto la nemesi psicologica dell’exploit di La Spezia. Una vittoria, quella, per certi versi inaspettata (almeno nelle proporzioni) e ottenuta grazie a una prestazione scientificamente perfetta (che non significa per forza di cose esteticamente bella), ma anche mentalmente faticosa. Con il Novara il Verona è apparso scarico, inconsciamente rilassato, abulico. Da questo punto di vista lo 0-4 può essere la sveglia migliore, ideale a riprendere il cammino.

CALO DEGLI UOMINI CHIAVE. Fossati a La Spezia (ma anche nelle precedenti partite) è stato il migliore in campo, ieri era avulso dalla partita, si nascondeva e non ha mai impostato il gioco. Episodio? Per lui può essere. Bessa invece appare un po’ stanco già da tre partite. Per Romulo il discorso è diverso: a mio avviso viene sballottato in troppi ruoli (anche a partita in corso) e rischia di snaturarsi e di non incidere in nessuno (neanche nel suo di mezz’ala destra). Così capita che non riesca più a giocare 90 minuti ai suoi livelli, nemmeno quando è protagonista (come al Picco), figuriamoci se in ombra come è successo ieri ma anche in altri recenti match. Ho citato apposta questi tre giocatori perché con Pazzini sono il cuore e il cervello della squadra. Pazzini che, per inciso, non segna da quattro partite: ma se non gira il centrocampo la vita è dura anche per lui e di conseguenza lo è per il Verona, che delle invenzioni in zona gol di un campione come il Pazzo ha particolare necessità in partite “bastarde” come quella di ieri. Come rimediare? Da un lato questi sono cali fisiologici da mettere in conto nell’arco di una “maratona” di 42 partite, dunque potremmo liquidare la questione alla Eduardo De Filippo (addà passà ‘a nuttata); dall’altro Pecchia deve ridefinire una nuova gestione della rosa, specie a centrocampo, che è la zona più dispendiosa del gioco del calcio, ma che è anche il reparto dove il Verona ha diverse alternative (Valoti e Zaccagni possono dare più cambi a Bessa, Romulo e Fossati, fatto salvo il valore assoluto dei tre titolari).

PECCHIA E I DETTAGLI MANCANTI. Scrivevo il 30 ottobre sulla mia pagina facebook dopo la vittoria con il Trapani: “Pecchia ha talento, conoscenza e personalità ma pecca ancora nei dettagli”. Un concetto che in altri termini ho espresso più volte anche in questo spazio. Ieri l’allenatore del Verona (che ricordiamolo sempre ha portato cultura del lavoro, metodo, sagacia tattica, gioco) si è fatto sorprendere da Boscaglia che ha schierato per la prima volta il Novara con la difesa a 5. Pazzini così si è ritrovato a battagliare per 60 minuti abbondanti tutto solo contro tre marcantoni in una giornata già difficile di suo (per i motivi spiegati sopra). Proprio per questo avrei evitato di inserire un altro esterno (Luppi) e di sconvolgere la squadra togliendole il regista (Fossati) e avrei provato a inserire già al riposo una punta (Ganz o Gomez al posto di Valoti) da affiancare a Pazzini per giocare meno di manovra e più sulle seconde palle (come è successo nel secondo tempo con il Brescia). Certo Ganz poi è entrato e ha giocato male, ma qui io difendo il concetto tattico di inserire un centravanti in più, indipendentemente dalla prestazione del singolo, e comunque Ganz è entrato con un Verona che aveva già perso i suoi equilibri (l’uscita di Fossati), mentre sarebbe stato preferibile vederlo con Pazzini sostenuti entrambi da un centrocampo classico. Ecco, a mio avviso Pecchia a volte va in difficoltà nella lettura delle partite (altre invece è stato bravo e l’ho sottolineato) e quelle volte sempre per lo stesso motivo: il manicheismo con cui tende a vedere il calcio. Indipendentemente dai moduli (che invece cambia spesso) la “tara” è la stessa: gioco manovrato e palla a terra, ma in contesti come quelli di ieri io non disdegnerei un gioco più sporco (due punte, seconde palle e spizzicate). Tuttavia ribadisco quanto detto altre volte: Pecchia è un allenatore in evoluzione, già preparato ma non ancora “fatto e finito”, va difeso in questo suo percorso perché il suo potenziale è notevole. E anche la sua onestà intellettuale, basta rivedere le sue dichiarazioni post partita.

LA PARTITA DELLA VITA. Il Novara ha ragione: “Riconoscete anche i nostri meriti” sottolineavano ieri i suoi giocatori. La squadra di Boscaglia ha fatto la partita della vita per intensità atletica, ordine tattico, cattiveria agonistica e malizia. Il Verona ha combinato quel che ha combinato (e lo abbiamo detto nei punti precedenti) e la perfezione occasionale degli avversari ha fatto il resto. E’ il calcio bellezza: lo sport, tra tutti, nel quale accade più frequentemente che il più debole batta il più forte.

L’ARBITRO. Chi mi legge abitualmente sa che in questi anni non ho mai parlato della classe arbitrale. Non mi piace e non appartiene alla mia cultura. Ma ieri la partita è stata evidentemente condizionata da una terna pessima sia negli episodi (primo gol viziato da un fuorigioco di due metri e un rigore non concesso al Verona) che nella gestione della partita, che ha assecondato la furbizia dei giocatori del Novara. Il Verona, per caratteristiche tecniche e fisiche, è una squadra che non riesce a metterla in bagarre, ma basterebbe un arbitro che tutelasse il corso naturale della partita, cioè il gioco.

QUELLA SFIDA ESISTENZIALE DI PECCHIA E GIOCATORI…

La bellezza dell’epicità si può cogliere anche in un campionato – quello del Verona – che appare viziato dall’ovvio di un dominio sinora assoluto (leggasi al riguardo il mio articolo del 30 ottobre “L’ovvio non ucciderà il godimento”). Si coglie ad esempio nel sabato di La Spezia, che assume contorni gloriosi perché l’Hellas ha giocato più partite in una nel catino bagnato eppure bollente del Picco – uno di quegli stadi affascinanti nel suo passatismo vintage, con un pubblico vero nei suoi smoccoli e con le sue imprecazioni, ben lontano da certi contesti preteschi, asettici e dai vuoti echi che pure questo calcio del nuovo millennio ci ha consegnato. Il resto forse l’avranno fatto la pioggia, i ritmi vertiginosi della partita, il suo andamento più contorto e vissuto di quanto dica il risultato.

A me è piaciuta molto la gestione della sofferenza iniziale. Il Verona è stato intelligente, cioè sornione e ordinato in consapevole attesa del colpo vincente. A Benevento, per dire, non era accaduto e in quella circostanza l’atteggiamento ottusamente spregiudicato fu la causa dell’espulsione di Caracciolo e della sconfitta. Il prosieguo è stato un crescendo rossiniano, con il Verona che ha sprigionato tutto il suo talento e la sua personalità. Mi direte, e qui dove sta la novità? Risposta: nella forza quasi imbarazzante con cui questo è avvenuto, una forza ancora più significativa delle altre volte, per il valore dell’avversario e per il contesto ambientale (stadio, e pioggia e campo pesante), una forza da cecchini freddi e risoluti, senza concessione ad alcuno spreco di energia. In altre circostanze avevamo ammirato un Verona bello e vincente, ma anche civettuolo, narcisista e accademico. A La Spezia registro un salto di qualità: all’estetica si è accompagnata una concretezza totalitaria e una capacità di lettura della partita (anzi delle tante partite in una) chirurgica.

Il dominio assoluto rischia di nascondere una finezza, meglio, un dettaglio che tuttavia i più acuti osservatori avranno certamente colto: l’Hellas, i suoi giocatori e il suo allenatore stanno ancora studiando, crescendo e migliorando. Stanno giocando su loro stessi e i loro limiti, sfidandoli. All’obiettivo agonistico – cioè vincere il campionato, o quantomeno risalire in serie A – accompagnano un obiettivo più esistenziale: costruirsi e costruire per loro stessi un futuro ai più alti livelli. Dovessero riuscirvi, Setti avrebbe l’obbligo di ripartire da lì per non disperdere e consegnare ad altri il frutto di questo percorso.

L’OVVIO NON UCCIDERÀ IL GODIMENTO

Appare tutto così scontato. Predestinato. Ovvio. Pure fastidioso: perché dover aspettare tutti questi mesi per conseguire quello che a molti pare già scritto? Perché non sbrigarsela in fretta, chiudere baracca e burattini e ricominciare subito dalla serie A? Il Verona a quasi un terzo del campionato è saldamente in testa, domina e mette in pratica il noto refrain pubblicitario secondo cui è possibile e bello vincere facile. Tuttavia il rischio – non pronunciato, anzi silente e sottinteso – è che questa stagione possa trasformarsi in un’agonia al contrario. L’agonia del divertimento abitudinario che non diverte più, della ricchezza che spegne il gusto della conquista, della quotidianità-modello perfetta e vincente che smarrisce il fascino borderline della sofferenza, il sex appeal del successo corsaro, l’eros della seduzione, caratteristiche nel dna e nella storia del Verona. “Sì d’accordo ma poi…tutto il resto è noia” cantava Califano.

Il fatto è che non siamo abituati a questo status borghese del dominio assoluto, della vittoria obbligata, del successo come minimo sindacale. E’ questo il paradosso nel rapporto tra il Verona e la sua opinione pubblica: in estate scetticismo, dubbi e nessuna lode, ora la pretenziosità e il rischio di non vedersi riconosciuto il merito (e dunque, ancora, nessuna lode). Eppure, osservando la questione retroattivamente, molto in estate non era scontato. Era d’obbligo l’intento (risalire in A), non il rendimento. Chi scommetteva ad occhi chiusi solo su uno di questi giocatori: Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati e Valoti, cioè la spina dorsale dell’attuale squadra? Abbiamo dimenticato chi addirittura parlava di Lega Pro (sì abbiamo sentito anche questa) dopo la pur meritata e inopinata sconfitta di Benevento? Ci ricordiamo i cocci (finanziari, morali e psicologici) lasciati dalla gestione precedente e raccolti da Filippo Fusco, che ha ricostruito l’Hellas – ricordiamo anche questo – senza il bancomat illimitato, ma anzi con l’inventiva e l’intuito?

Io non dimentico e scaccio il pericolo che la dittatura dell’Ovvio mortifichi e uccida il godimento. Anche perché l’Ovvio ancora non esiste con Spezia (trasferta insidiosissima), Cittadella, Bari, Entella e Carpi da affrontare.

FABIO PECCHIA: PREGI E DIFETTI DI UN ALLENATORE IN EVOLUZIONE

Pisa conferma una mia impressione di cui scrivo da tempo: contro le squadre nervose, aggressive, atletiche (e almeno di discreta qualità, o in un momento di grazia) e contro gli allenatori che sanno preparare la partita speculando sulle caratteristiche del Verona il gioco di Pecchia può incontrare qualche difficoltà.

E’ successo a Benevento – Baroni lo ammise in sala stampa e la squadra campana seppe sfruttare il manicheismo offensivo del Verona. E’ successo con il Brescia, quando Brocchi, pur in una partita di forte contenimento, riuscì a togliere dei riferimenti al Verona, tanto da costringere Pecchia a mutare intelligentemente il tipo di gioco rendendolo più sporco e sbrigativo (e credo sia stata la prima e unica volta). E’ successo ieri sera.

In questa pur povera serie B ci sono delle avversarie che, anche se più deboli, il Verona lo sanno affrontare. E’ capitato con Benevento, Brescia e Pisa e capiterà ancora con qualche altra. E se succede io la penso come Pecchia nel post Brescia (“queste partite spesso le puoi perdere”), o come il Caracciolo di ieri (“teniamoci il punto”). Del resto l’obiettivo è andare in serie A, tutto fa brodo e anche se ti chiami Verona a volte salvare la pelle val bene una messa. Però è altrettanto chiaro che Pecchia dovrà lavorare per rendere il Verona un meccanismo più completo, ancor più imprevedibile e il meno possibile studiabile.

Il tecnico laziale ha due grandi qualità: conosce la tattica e imprime un suo marchio alla squadra. E sta decisamente migliorando nella lettura delle partite. Ma ha anche un difetto: mi sembra ancora troppo accademico e manicheo nell’intendere solo un tipo di calcio (al di là dei moduli, che invece sa cambiare). Non entro invece nel campo delle singole scelte: personalmente preferirei Valoti, Zaccagni e Ganz a Maresca e Siligardi, ma de gustibus non est disputandum con la qualità generale della rosa del Verona in questa B.

E poi è sempre bene ricordare che Pecchia è alla prima esperienza importante da capo-allenatore ed è naturalmente in evoluzione. Interessante sarà seguirne il percorso da qui ai prossimi mesi, anche e soprattutto in vista della prossima stagione, si auspica in serie A.

IN LODE A PAZZINI E FUSCO

Mea culpa mia laicissima culpa. Sgrano il rosario pagano e m’inchino a Pazzini, che il sottoscritto (peraltro in folta e ottima compagnia) in estate aveva bollato come ex campione sul viale del tramonto e dopo le prime giornate di campionato un ex campione che – al limite – avrebbe raggiunto un bottino di 15-20 gol a mezzo servizio, ma solo per l’inerzia di una classe (la sua) in contrasto con la mediocrità del campionato. Ma la scarsa qualità del torneo c’entra fino a un certo punto: questo Pazzini, che alla faccia mia e nostra non è ancora un ex, probabilmente sarebbe prolifico anche in serie A. Solo gli ingenerosi – presumo cresciuti con le statistiche spacciate per l’assoluto di Tosatti (pace all’anima sua) alla Domenica Sportiva – in settimana sminuivano le prestazioni del nostro puntualizzando che “be’ sì otto gol ma con cinque rigori”, senza accorgersi che il calcio non è la boxe e nemmeno il basket e che dietro i numeri e le percentuali, spesso limitanti, si cela la realtà. E la realtà dice che Pazzini è un calciatore ritrovato, anche atleticamente (nonostante le entrate killer che anche ad Ascoli ha dovuto subire). I due allunghi da centometrista ventenne in cui si è prodigato nelle ultime due partite al Bentegodi (che giustappunto non rientrano nelle statistiche) ne sono il manifesto. Non c’è dubbio che il Pazzo, già ai tempi del Milan, fosse stato tormentato da guai fisici che per i maligni erano il segnale di un precoce canto del cigno. Per questo, ora, è importante celebrare la sua rinascita, un risorgimento che va oltre ai gol e che riapre anche molte considerazioni (finalmente positive) sui quattro anni di contratto che ancora lo legano al Verona.

A Pazzini invece ci ha sempre creduto il ds Filippo Fusco. “Guarda che farà sfracelli” mi diceva in estate mentre io esprimevo più dubbi che San Tommaso nel Vangelo. Credo che Fusco, personaggio sui generis in questo mondo del calcio (e non è retorica sottolinearlo), sia il vero artefice del Verona. Lui, giustamente, sposta meriti e attenzioni su “Fabio” – così lui chiama Pecchia -, ma Fusco ha costruito una squadra pronta per stravincere la B (al netto della scaramanzia sarebbe uno scempio calcistico fallire l’obiettivo) e con una base adatta a ben figurare anche in A – penso appunto a Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati, Valoti e Pisano.  Fusco, un benestante idealista e colto, lontano da cafonerie grossolane ed esponente di una classe sociale più estinta dei panda come la ‘borghesia illuminata’, insegue il suo sogno, che è la serie A, per lui non solo una categoria ma anche una meta esistenzial-professionale. Questa, infatti, è anche la sua occasione, l’occasione di un dirigente da anni nel calcio, ma sempre un passo di lato, mai protagonista, mai davvero centro di gravità permanente. E ieri sera, dice chi gli è vicino, Fusco era particolarmente euforico per il primo posto raggiunto, traguardo parziale ma significativo.

Già la vetta. Scrivevo una settimana fa, dopo il positivo (ribadisco) pareggio con il Brescia, sulla mia pagina pubblica di fb: “E’ solo questione di tempo”. Ed ecccoci lì, ma adesso è il momento di accelerare, come una Formula Uno più veloce delle altre che dopo una serie di ostacoli, doppiaggi e traffico in partenza ha la strada finalmente libera. Diamo gas.

 

BICCHIERE PIENO

Premessa: usciamo immediatamente dal classico dilemma sul bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Oggi il bicchiere è pieno e basta. Il punto con il Brescia è un ottimo punto perché accorciamo sulla vetta e allunghiamo su chi ci insegue, e soprattutto perché il Brescia, ad oggi, è squadra con caratteristiche tali da poter rompere certi consolidati equilibri del calcio di Pecchia. Il Verona, tra svariati pregi, infatti ha un limite su cui l’allenatore sta tuttavia lavorando: è squadra forte ma poco versatile da un punto di vista tecnico (per le caratteristiche dei suoi giocatori più importanti, specialisti e non universali, e per la mentalità di Pecchia). Una squadra bravissima, anzi sontuosa, nel fare un tipo solo di calcio: quello della ricerca spasmodica – a volte financo accademica – del gioco con la palla a terra, senza “mezzucci” come seconde palle, o atteggiamenti sornioni e attendisti, un calcio più propenso alla costruzione tecnica che alla bagarre fisica.

Brocchi ha studiato i nostri limiti e nel primo tempo (anche nei nostri primi venti minuti di grande calcio) è riuscito a spegnere Siligardi e Luppi, a bloccare con tanto di marcatura a uomo Valoti e – di conseguenza – a togliere rifornimenti a Pazzini. Il Verona, poi, una volta in svantaggio ha perso le misure e le geometrie per tutto il resto del tempo, fino alla svolta di Pecchia – che, fateci caso, si sta gradualmente “stalebanizzando” (mettendo così ancor più in risalto le sue doti tattiche) -, che di rimando nella ripresa ha cambiato assetto, schierato Ganz (che deve recuperare serenità) – liberando così dal giogo delle marcature Pazzini – e cominciato anche a “sporcare” il suo calcio per renderlo adatto al contesto. Dunque ha ragione Brocchi: “È stata una bellissima partita sul piano tecnico, ma soprattutto tattico e agonistico”. E il Verona ha mostrato carattere e capacità di andarsela a riprendere.

Cinque vittorie, due pareggi e una sconfitta sinora sono un buon ruolino di marcia (ci mancano i due punti di Salerno, il resto rispecchia quanto accaduto in campo), ma occorre crescere sul piano della versatilità. Siamo bravissimi a cantare, meno a portare la croce. Ma il Verona ha identità, carattere, qualità e organizzazione. La strada è giusta.

OFFENSIVISMO (TEMPERATO)

Nulla è peggio delle “belle sconfitte”. Sanno di beffardo bacio della morte, del “restiamo amici” dell’amante che se ne va; ti lasciano l’amaro retrogusto di un affetto impalpabile e si congedano con la fredda gentilezza dei sospetti (troppo sospetti) complimenti di circostanza. Il Verona 15 giorni fa ha lasciato Benevento così, con l’eco mediatico della “bella sconfitta”, per il gioco mostrato, per l’alibi dell’espulsione ecc..

Sembrava fosse tutto frutto del caso, o della sfiga, un’ingiustizia bella e buona per il “bellissimo” Verona delle trame, dei fraseggi e del possesso palla. E invece mai KO fu più meritato, e Pecchia – al di là delle dichiarazioni pubbliche – se n’è accorto modificando qualcosina e rimettendosi intelligentemente in discussione. Parlo di atteggiamento e di dettagli, non di filosofia di fondo, né di moduli o di uomini. Il Verona di Benevento era una squadra apparsa presuntuosa e fin troppo spavalda, direi monotematica e unilaterale nel suo voler sempre e comunque attaccare. Il Verona di ieri invece, pur mantenendo l’identità pecchiana del gioco e della qualità, è stato una squadra più pragmatica e universale nella gestione della partita, mostrando anche di sapersi adattare all’avversario, di lasciarlo sfogare, di saperlo studiare e dunque infilare.

“La storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione” scrivevo dopo Benevento nel pezzo ‘L’Ayatollah Pecchia sogna la rivoluzione ma…’. E concludevo: “Il ‘bel gioco’ aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il bel gioco non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente”. Con quelle parole paventavo il rischio talebanismo, temevo  una squadra tanto generosa nei confronti del gioco d’attacco, della platea e dell’estetica quanto prevedibile per gli avversari (e dunque vulnerabile).

Ma ieri così non è stato, anzi. A Telenuovo ho definito quella con il Frosinone una vittoria intelligente: sognatori nell’obiettivo (segnare, vincere e convincere), pragmatici nel metodo (sapersi adattare, se richiesto, anche al contesto e all’avversario). Si chiama offensivismo temperato: è la strada da seguire.

VALOTI E I TORMENTI ESTIVI DI FUSCO

Forse non è un stato un caso. Ci sono incroci, destini, storie che si accompagnano a certi luoghi. E allora mi piace pensare che un talento cristallino e indiscusso come Mattia Valoti si sia rivelato in tutta la sua forza, e non a caso, nello stadio dedicato a Paolo Mazza, presidente di una Spal che negli anni ’60 era fucina dei giovani di qualità (Fabio Capello su tutti, ma non dimentico il nostro Gianni Bui e neanche quel matto poeta donnaiolo di Ezio Vendrame, artista del pallone mai realizzato, cui l’unico difetto per me veronese è stato essere un simbolo del Vicenza).

Ieri prima della partita nella nostra chat whatsapp di Telenuovo scrivevo: “Valoti titolare: può essere la sua occasione”. Sono stato facile profeta, sottolineo facile, perché Valoti sa giocare a pallone e la notizia, in un mondo normale, non dovrebbe essere la sua doppietta e il suo assist, ma che a 23 anni è (era?) ancora un’incompiuta addirittura in serie B. Un no sense per uno con le sue qualità.

Chi mi legge sa che ho sempre difeso questo ragazzo timido, educato, riservato, dal modo di fare anonimo “come l’erba da scarpata ferroviaria” (cit.), con la faccia di uno che passa di lì per caso, senza la spocchia, gli atteggiamenti, il look, insomma gli stereotipi del calciatore medio. Quando lo incrociai al ‘Vighini Show’ di due anni fa, nel vederlo banalmente in tuta sociale mi sembrava uno di quei tanti ragazzi che trovi alla domenica sera nei bar all’aperitivo post partita della loro squadra di paese.

Il mio amico Marco Gaburro, che ha allenato Valoti due anni all’Albinoleffe, mi dice: “Mattia probabilmente ha sempre vissuto nella certezza di essere un predestinato e su questa certezza si è inconsciamente adagiato, non riuscendo fino ad oggi a fare lo scatto caratteriale necessario”. Il ds Fusco quest’estate nelle conversazioni private era sinceramente tormentato nel parlarne: “Valoti è forte, ma viene da annate difficili e ha bisogno di ritrovare fiducia e di giocare, bisogna capire se qui a Verona può rilanciarsi oppure è meglio darlo in prestito, ma nel caso sarebbe un prestito secco perché uno come lui è un patrimonio tecnico anche in serie A”. Poi ancora, dopo qualche settimana: “Potremmo confermarlo, il ragazzo ha lo spirito giusto e a Pecchia piace, il suo valore tecnico non di discute”. Tormenti, ragionamenti, finezze che attestano la complessità del lavoro di un ds che fa calcio (e Fusco, come Sogliano che ha portato Valoti a Verona, fa calcio). Retroscena che spiegano il lavoro profondo che c’è dietro alla costruzione di una squadra e di un gruppo.

Il Verona di Fusco e Pecchia è stato costruito su questi risvolti psicologici e – ma è perfino palese – sulla qualità balistica del centrocampo. Così Pecchia persegue senza troppi compromessi il suo disegno rivoluzionario di un gioco offensivo e ad alta caratterizzazione estetica, al netto delle critiche (comprese le mie lievi). Lo ‘Ayatollah beniteziano’ ieri ha dissipato anche qualche mio dubbio sulla tenuta tattica in trasferta di un atteggiamento così a trazione anteriore, e ne sono ben felice perché come ho avuto modo di scrivere la scorsa volta a sua difesa: “Il bel gioco aiuta a vincere (e a riconciliarsi con il calcio) ed è pure educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché più bravi e non più furbi”.

Ma il Frosinone incombe e potrebbe essere quello di domenica lo snodo per legittimare, forse definitivamente, le convinzioni di Pecchia.

LO ‘AYATOLLAH’ PECCHIA SOGNA LA RIVOLUZIONE MA…

Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton diceva che “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto: anche un principio giusto se portato alle estreme conseguenze diventa un errore.

Ecco, non vorrei che Pecchia, allenatore emergente e rampante di indiscutibile cultura tattica, nel portare avanti la sua idea (sacrosanta) di calcio offensivo ed elegante, vestito di trame e fraseggi, non scadesse nel più facile e terribile degli errori: il radicalismo che conduce all’effimero, il velleitarismo che s’accompagna alla mera testimonianza, un talebanismo che s’avvita su se stesso.

Lo “Ayatollah” Pecchia sogna la rivoluzione e ciò è pure affascinante. Ma la storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione. L’impressione è che l’allenatore laziale badi molto alla fase offensiva e meno a quella difensiva (15 ammoniti e un espulso in tre partite, segno di mal posizionamenti, sbilanciamenti e interventi scomposti in fase di non possesso?), eppure ci sono partite, campi e situazioni ambientali dove forse occorrerebbe essere più attendisti senza divenire per forza sparagnini o calcolatori.

Benevento è paradigmatica. L’approccio è stato presuntuoso e non sarà casuale che dopo pochi minuti dietro ci si sia trovati già in due situazioni di affanno (dalla seconda nasce l’espulsione di Caracciolo). Nonostante l’inferiorità numerica Pecchia non ha provveduto a nessuna sostituzione ammettendo poi in sala stampa che preferiva tenersi tutti i tre cambi per il corso successivo della partita (come se i cambi servissero solo da metà campo in su). Nel secondo tempo poi la gestione della partita mi è sembrata istintiva, frettolosa (squadra troppo sbilanciata alla ricerca del pareggio ancora a mezz’ora dalla fine, un’eternità) e confusa (l’incrocio di cambi Ganz-Gomez-Cappelluzzo mi è sembrata una smentita a se stessi).

Sia chiaro, pur non essendo il sottoscritto un guardioliano spagnoleggiante (io sono per la superba medietà degli Ancelotti, degli Hiddink e, più modestamente, degli Allegri), apprezzo l’idea che ispira Fusco (zemaniano convinto) e Pecchia: il bel gioco sempre e comunque. Anche nelle loro dichiarazioni all’unisono di ieri (“dobbiamo essere più concreti”, come dire ci è mancato solo il gol) i due sottintendono la loro vocazione prettamente offensiva. E, certo, il “bel gioco” aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Voglio dire: Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il “bel gioco” non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente, specie in trasferta. In certi contesti vero che occorre più concretezza, ma aggiungerei anche meno spavalderia. Solo così Pecchia vincerà la sua (affascinante) rivoluzione.

IL ‘SETTI TER’ ALLA PROVA DEL NOVE

“Comunque vada sarà un successo” ripeteva un Chiambretti festivaliero nel 1997. Il tormentone che fu si addice a Setti che, nonostante la retrocessione, certo non può lamentare miseria per le casse del Verona. Circa dieci milioni di plusvalenza per Ionita e Gollini, una mongolfiera economica da 25 milioni, le cessioni con possibili riscatti milionari di Wszolek e Viviani, lo sfoltimento della rosa, l’abbassamento degli ingaggi e dunque un generale taglio dei costi, infine un mercato in entrata parsimonioso eppure sufficientemente competitivo per tornare in A. Possiamo dirlo? Setti ha fatto bingo spendendo il meno possibile a fronte di ricavi plurimilionari.

Certo, la gestione economica dell’ultimo anno ha fatto acqua da tutte le parti e si è rischiato grosso se è vero che Setti definì il paracadute un “provvedimento salva-aziende calcio”. Ora però agli errori-orrori del vecchio management (e del vecchio Setti) è stato posto rimedio, sia a parole (“l’anno scorso ho sbagliato, la lezione mi è servita” ha detto il nostro pochi giorni fa), che nei fatti, con la proprietà che ha messo i promettenti Fusco e Pecchia al timone della nave con una rotta precisa, risalire in A, l’unica categoria che economicamente conta e mediante la quale Setti può continuare fare calcio e business senza i chiari di luna paracaduteschi. Questo è un buon segno perché significa che l’imprenditore carpigiano non smobilita, non lascia e nemmeno ridimensiona come temeva qualcuno.

Ed è questo il dato che emerge e che l’estate ha chiarito: Setti vuole dare continuità. Motivo? Business e passione. Passione, beninteso, non declinata a sentimento per i colori, ma passione intesa come piacere (narcisistico, psicologico, motivazionale) di avere un’azienda-calcio e di essere attore protagonista in un mondo affascinante, che ti dà visibilità e apre tante porte.

Il Verona dunque va avanti con Setti, e non per mancanza di compratori, come vuole la vulgata, ma di interesse reale a vendere. Setti che in queste settimane (mediante Fusco) il suo dovere l’ha fatto: allestire una squadra per la promozione diretta. Ma la prova del nove per lui si annida altrove, tra le pieghe delle due grandi promesse sinora disattese: il consolidamento in A e il centro sportivo. Dalla loro realizzazione sarà giudicato.