FABIO PECCHIA: PREGI E DIFETTI DI UN ALLENATORE IN EVOLUZIONE

Pisa conferma una mia impressione di cui scrivo da tempo: contro le squadre nervose, aggressive, atletiche (e almeno di discreta qualità, o in un momento di grazia) e contro gli allenatori che sanno preparare la partita speculando sulle caratteristiche del Verona il gioco di Pecchia può incontrare qualche difficoltà.

E’ successo a Benevento – Baroni lo ammise in sala stampa e la squadra campana seppe sfruttare il manicheismo offensivo del Verona. E’ successo con il Brescia, quando Brocchi, pur in una partita di forte contenimento, riuscì a togliere dei riferimenti al Verona, tanto da costringere Pecchia a mutare intelligentemente il tipo di gioco rendendolo più sporco e sbrigativo (e credo sia stata la prima e unica volta). E’ successo ieri sera.

In questa pur povera serie B ci sono delle avversarie che, anche se più deboli, il Verona lo sanno affrontare. E’ capitato con Benevento, Brescia e Pisa e capiterà ancora con qualche altra. E se succede io la penso come Pecchia nel post Brescia (“queste partite spesso le puoi perdere”), o come il Caracciolo di ieri (“teniamoci il punto”). Del resto l’obiettivo è andare in serie A, tutto fa brodo e anche se ti chiami Verona a volte salvare la pelle val bene una messa. Però è altrettanto chiaro che Pecchia dovrà lavorare per rendere il Verona un meccanismo più completo, ancor più imprevedibile e il meno possibile studiabile.

Il tecnico laziale ha due grandi qualità: conosce la tattica e imprime un suo marchio alla squadra. E sta decisamente migliorando nella lettura delle partite. Ma ha anche un difetto: mi sembra ancora troppo accademico e manicheo nell’intendere solo un tipo di calcio (al di là dei moduli, che invece sa cambiare). Non entro invece nel campo delle singole scelte: personalmente preferirei Valoti, Zaccagni e Ganz a Maresca e Siligardi, ma de gustibus non est disputandum con la qualità generale della rosa del Verona in questa B.

E poi è sempre bene ricordare che Pecchia è alla prima esperienza importante da capo-allenatore ed è naturalmente in evoluzione. Interessante sarà seguirne il percorso da qui ai prossimi mesi, anche e soprattutto in vista della prossima stagione, si auspica in serie A.

IN LODE A PAZZINI E FUSCO

Mea culpa mia laicissima culpa. Sgrano il rosario pagano e m’inchino a Pazzini, che il sottoscritto (peraltro in folta e ottima compagnia) in estate aveva bollato come ex campione sul viale del tramonto e dopo le prime giornate di campionato un ex campione che – al limite – avrebbe raggiunto un bottino di 15-20 gol a mezzo servizio, ma solo per l’inerzia di una classe (la sua) in contrasto con la mediocrità del campionato. Ma la scarsa qualità del torneo c’entra fino a un certo punto: questo Pazzini, che alla faccia mia e nostra non è ancora un ex, probabilmente sarebbe prolifico anche in serie A. Solo gli ingenerosi – presumo cresciuti con le statistiche spacciate per l’assoluto di Tosatti (pace all’anima sua) alla Domenica Sportiva – in settimana sminuivano le prestazioni del nostro puntualizzando che “be’ sì otto gol ma con cinque rigori”, senza accorgersi che il calcio non è la boxe e nemmeno il basket e che dietro i numeri e le percentuali, spesso limitanti, si cela la realtà. E la realtà dice che Pazzini è un calciatore ritrovato, anche atleticamente (nonostante le entrate killer che anche ad Ascoli ha dovuto subire). I due allunghi da centometrista ventenne in cui si è prodigato nelle ultime due partite al Bentegodi (che giustappunto non rientrano nelle statistiche) ne sono il manifesto. Non c’è dubbio che il Pazzo, già ai tempi del Milan, fosse stato tormentato da guai fisici che per i maligni erano il segnale di un precoce canto del cigno. Per questo, ora, è importante celebrare la sua rinascita, un risorgimento che va oltre ai gol e che riapre anche molte considerazioni (finalmente positive) sui quattro anni di contratto che ancora lo legano al Verona.

A Pazzini invece ci ha sempre creduto il ds Filippo Fusco. “Guarda che farà sfracelli” mi diceva in estate mentre io esprimevo più dubbi che San Tommaso nel Vangelo. Credo che Fusco, personaggio sui generis in questo mondo del calcio (e non è retorica sottolinearlo), sia il vero artefice del Verona. Lui, giustamente, sposta meriti e attenzioni su “Fabio” – così lui chiama Pecchia -, ma Fusco ha costruito una squadra pronta per stravincere la B (al netto della scaramanzia sarebbe uno scempio calcistico fallire l’obiettivo) e con una base adatta a ben figurare anche in A – penso appunto a Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati, Valoti e Pisano.  Fusco, un benestante idealista e colto, lontano da cafonerie grossolane ed esponente di una classe sociale più estinta dei panda come la ‘borghesia illuminata’, insegue il suo sogno, che è la serie A, per lui non solo una categoria ma anche una meta esistenzial-professionale. Questa, infatti, è anche la sua occasione, l’occasione di un dirigente da anni nel calcio, ma sempre un passo di lato, mai protagonista, mai davvero centro di gravità permanente. E ieri sera, dice chi gli è vicino, Fusco era particolarmente euforico per il primo posto raggiunto, traguardo parziale ma significativo.

Già la vetta. Scrivevo una settimana fa, dopo il positivo (ribadisco) pareggio con il Brescia, sulla mia pagina pubblica di fb: “E’ solo questione di tempo”. Ed ecccoci lì, ma adesso è il momento di accelerare, come una Formula Uno più veloce delle altre che dopo una serie di ostacoli, doppiaggi e traffico in partenza ha la strada finalmente libera. Diamo gas.

 

BICCHIERE PIENO

Premessa: usciamo immediatamente dal classico dilemma sul bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Oggi il bicchiere è pieno e basta. Il punto con il Brescia è un ottimo punto perché accorciamo sulla vetta e allunghiamo su chi ci insegue, e soprattutto perché il Brescia, ad oggi, è squadra con caratteristiche tali da poter rompere certi consolidati equilibri del calcio di Pecchia. Il Verona, tra svariati pregi, infatti ha un limite su cui l’allenatore sta tuttavia lavorando: è squadra forte ma poco versatile da un punto di vista tecnico (per le caratteristiche dei suoi giocatori più importanti, specialisti e non universali, e per la mentalità di Pecchia). Una squadra bravissima, anzi sontuosa, nel fare un tipo solo di calcio: quello della ricerca spasmodica – a volte financo accademica – del gioco con la palla a terra, senza “mezzucci” come seconde palle, o atteggiamenti sornioni e attendisti, un calcio più propenso alla costruzione tecnica che alla bagarre fisica.

Brocchi ha studiato i nostri limiti e nel primo tempo (anche nei nostri primi venti minuti di grande calcio) è riuscito a spegnere Siligardi e Luppi, a bloccare con tanto di marcatura a uomo Valoti e – di conseguenza – a togliere rifornimenti a Pazzini. Il Verona, poi, una volta in svantaggio ha perso le misure e le geometrie per tutto il resto del tempo, fino alla svolta di Pecchia – che, fateci caso, si sta gradualmente “stalebanizzando” (mettendo così ancor più in risalto le sue doti tattiche) -, che di rimando nella ripresa ha cambiato assetto, schierato Ganz (che deve recuperare serenità) – liberando così dal giogo delle marcature Pazzini – e cominciato anche a “sporcare” il suo calcio per renderlo adatto al contesto. Dunque ha ragione Brocchi: “È stata una bellissima partita sul piano tecnico, ma soprattutto tattico e agonistico”. E il Verona ha mostrato carattere e capacità di andarsela a riprendere.

Cinque vittorie, due pareggi e una sconfitta sinora sono un buon ruolino di marcia (ci mancano i due punti di Salerno, il resto rispecchia quanto accaduto in campo), ma occorre crescere sul piano della versatilità. Siamo bravissimi a cantare, meno a portare la croce. Ma il Verona ha identità, carattere, qualità e organizzazione. La strada è giusta.

OFFENSIVISMO (TEMPERATO)

Nulla è peggio delle “belle sconfitte”. Sanno di beffardo bacio della morte, del “restiamo amici” dell’amante che se ne va; ti lasciano l’amaro retrogusto di un affetto impalpabile e si congedano con la fredda gentilezza dei sospetti (troppo sospetti) complimenti di circostanza. Il Verona 15 giorni fa ha lasciato Benevento così, con l’eco mediatico della “bella sconfitta”, per il gioco mostrato, per l’alibi dell’espulsione ecc..

Sembrava fosse tutto frutto del caso, o della sfiga, un’ingiustizia bella e buona per il “bellissimo” Verona delle trame, dei fraseggi e del possesso palla. E invece mai KO fu più meritato, e Pecchia – al di là delle dichiarazioni pubbliche – se n’è accorto modificando qualcosina e rimettendosi intelligentemente in discussione. Parlo di atteggiamento e di dettagli, non di filosofia di fondo, né di moduli o di uomini. Il Verona di Benevento era una squadra apparsa presuntuosa e fin troppo spavalda, direi monotematica e unilaterale nel suo voler sempre e comunque attaccare. Il Verona di ieri invece, pur mantenendo l’identità pecchiana del gioco e della qualità, è stato una squadra più pragmatica e universale nella gestione della partita, mostrando anche di sapersi adattare all’avversario, di lasciarlo sfogare, di saperlo studiare e dunque infilare.

“La storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione” scrivevo dopo Benevento nel pezzo ‘L’Ayatollah Pecchia sogna la rivoluzione ma…’. E concludevo: “Il ‘bel gioco’ aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il bel gioco non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente”. Con quelle parole paventavo il rischio talebanismo, temevo  una squadra tanto generosa nei confronti del gioco d’attacco, della platea e dell’estetica quanto prevedibile per gli avversari (e dunque vulnerabile).

Ma ieri così non è stato, anzi. A Telenuovo ho definito quella con il Frosinone una vittoria intelligente: sognatori nell’obiettivo (segnare, vincere e convincere), pragmatici nel metodo (sapersi adattare, se richiesto, anche al contesto e all’avversario). Si chiama offensivismo temperato: è la strada da seguire.

VALOTI E I TORMENTI ESTIVI DI FUSCO

Forse non è un stato un caso. Ci sono incroci, destini, storie che si accompagnano a certi luoghi. E allora mi piace pensare che un talento cristallino e indiscusso come Mattia Valoti si sia rivelato in tutta la sua forza, e non a caso, nello stadio dedicato a Paolo Mazza, presidente di una Spal che negli anni ’60 era fucina dei giovani di qualità (Fabio Capello su tutti, ma non dimentico il nostro Gianni Bui e neanche quel matto poeta donnaiolo di Ezio Vendrame, artista del pallone mai realizzato, cui l’unico difetto per me veronese è stato essere un simbolo del Vicenza).

Ieri prima della partita nella nostra chat whatsapp di Telenuovo scrivevo: “Valoti titolare: può essere la sua occasione”. Sono stato facile profeta, sottolineo facile, perché Valoti sa giocare a pallone e la notizia, in un mondo normale, non dovrebbe essere la sua doppietta e il suo assist, ma che a 23 anni è (era?) ancora un’incompiuta addirittura in serie B. Un no sense per uno con le sue qualità.

Chi mi legge sa che ho sempre difeso questo ragazzo timido, educato, riservato, dal modo di fare anonimo “come l’erba da scarpata ferroviaria” (cit.), con la faccia di uno che passa di lì per caso, senza la spocchia, gli atteggiamenti, il look, insomma gli stereotipi del calciatore medio. Quando lo incrociai al ‘Vighini Show’ di due anni fa, nel vederlo banalmente in tuta sociale mi sembrava uno di quei tanti ragazzi che trovi alla domenica sera nei bar all’aperitivo post partita della loro squadra di paese.

Il mio amico Marco Gaburro, che ha allenato Valoti due anni all’Albinoleffe, mi dice: “Mattia probabilmente ha sempre vissuto nella certezza di essere un predestinato e su questa certezza si è inconsciamente adagiato, non riuscendo fino ad oggi a fare lo scatto caratteriale necessario”. Il ds Fusco quest’estate nelle conversazioni private era sinceramente tormentato nel parlarne: “Valoti è forte, ma viene da annate difficili e ha bisogno di ritrovare fiducia e di giocare, bisogna capire se qui a Verona può rilanciarsi oppure è meglio darlo in prestito, ma nel caso sarebbe un prestito secco perché uno come lui è un patrimonio tecnico anche in serie A”. Poi ancora, dopo qualche settimana: “Potremmo confermarlo, il ragazzo ha lo spirito giusto e a Pecchia piace, il suo valore tecnico non di discute”. Tormenti, ragionamenti, finezze che attestano la complessità del lavoro di un ds che fa calcio (e Fusco, come Sogliano che ha portato Valoti a Verona, fa calcio). Retroscena che spiegano il lavoro profondo che c’è dietro alla costruzione di una squadra e di un gruppo.

Il Verona di Fusco e Pecchia è stato costruito su questi risvolti psicologici e – ma è perfino palese – sulla qualità balistica del centrocampo. Così Pecchia persegue senza troppi compromessi il suo disegno rivoluzionario di un gioco offensivo e ad alta caratterizzazione estetica, al netto delle critiche (comprese le mie lievi). Lo ‘Ayatollah beniteziano’ ieri ha dissipato anche qualche mio dubbio sulla tenuta tattica in trasferta di un atteggiamento così a trazione anteriore, e ne sono ben felice perché come ho avuto modo di scrivere la scorsa volta a sua difesa: “Il bel gioco aiuta a vincere (e a riconciliarsi con il calcio) ed è pure educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché più bravi e non più furbi”.

Ma il Frosinone incombe e potrebbe essere quello di domenica lo snodo per legittimare, forse definitivamente, le convinzioni di Pecchia.

LO ‘AYATOLLAH’ PECCHIA SOGNA LA RIVOLUZIONE MA…

Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton diceva che “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto: anche un principio giusto se portato alle estreme conseguenze diventa un errore.

Ecco, non vorrei che Pecchia, allenatore emergente e rampante di indiscutibile cultura tattica, nel portare avanti la sua idea (sacrosanta) di calcio offensivo ed elegante, vestito di trame e fraseggi, non scadesse nel più facile e terribile degli errori: il radicalismo che conduce all’effimero, il velleitarismo che s’accompagna alla mera testimonianza, un talebanismo che s’avvita su se stesso.

Lo “Ayatollah” Pecchia sogna la rivoluzione e ciò è pure affascinante. Ma la storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione. L’impressione è che l’allenatore laziale badi molto alla fase offensiva e meno a quella difensiva (15 ammoniti e un espulso in tre partite, segno di mal posizionamenti, sbilanciamenti e interventi scomposti in fase di non possesso?), eppure ci sono partite, campi e situazioni ambientali dove forse occorrerebbe essere più attendisti senza divenire per forza sparagnini o calcolatori.

Benevento è paradigmatica. L’approccio è stato presuntuoso e non sarà casuale che dopo pochi minuti dietro ci si sia trovati già in due situazioni di affanno (dalla seconda nasce l’espulsione di Caracciolo). Nonostante l’inferiorità numerica Pecchia non ha provveduto a nessuna sostituzione ammettendo poi in sala stampa che preferiva tenersi tutti i tre cambi per il corso successivo della partita (come se i cambi servissero solo da metà campo in su). Nel secondo tempo poi la gestione della partita mi è sembrata istintiva, frettolosa (squadra troppo sbilanciata alla ricerca del pareggio ancora a mezz’ora dalla fine, un’eternità) e confusa (l’incrocio di cambi Ganz-Gomez-Cappelluzzo mi è sembrata una smentita a se stessi).

Sia chiaro, pur non essendo il sottoscritto un guardioliano spagnoleggiante (io sono per la superba medietà degli Ancelotti, degli Hiddink e, più modestamente, degli Allegri), apprezzo l’idea che ispira Fusco (zemaniano convinto) e Pecchia: il bel gioco sempre e comunque. Anche nelle loro dichiarazioni all’unisono di ieri (“dobbiamo essere più concreti”, come dire ci è mancato solo il gol) i due sottintendono la loro vocazione prettamente offensiva. E, certo, il “bel gioco” aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Voglio dire: Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il “bel gioco” non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente, specie in trasferta. In certi contesti vero che occorre più concretezza, ma aggiungerei anche meno spavalderia. Solo così Pecchia vincerà la sua (affascinante) rivoluzione.

IL ‘SETTI TER’ ALLA PROVA DEL NOVE

“Comunque vada sarà un successo” ripeteva un Chiambretti festivaliero nel 1997. Il tormentone che fu si addice a Setti che, nonostante la retrocessione, certo non può lamentare miseria per le casse del Verona. Circa dieci milioni di plusvalenza per Ionita e Gollini, una mongolfiera economica da 25 milioni, le cessioni con possibili riscatti milionari di Wszolek e Viviani, lo sfoltimento della rosa, l’abbassamento degli ingaggi e dunque un generale taglio dei costi, infine un mercato in entrata parsimonioso eppure sufficientemente competitivo per tornare in A. Possiamo dirlo? Setti ha fatto bingo spendendo il meno possibile a fronte di ricavi plurimilionari.

Certo, la gestione economica dell’ultimo anno ha fatto acqua da tutte le parti e si è rischiato grosso se è vero che Setti definì il paracadute un “provvedimento salva-aziende calcio”. Ora però agli errori-orrori del vecchio management (e del vecchio Setti) è stato posto rimedio, sia a parole (“l’anno scorso ho sbagliato, la lezione mi è servita” ha detto il nostro pochi giorni fa), che nei fatti, con la proprietà che ha messo i promettenti Fusco e Pecchia al timone della nave con una rotta precisa, risalire in A, l’unica categoria che economicamente conta e mediante la quale Setti può continuare fare calcio e business senza i chiari di luna paracaduteschi. Questo è un buon segno perché significa che l’imprenditore carpigiano non smobilita, non lascia e nemmeno ridimensiona come temeva qualcuno.

Ed è questo il dato che emerge e che l’estate ha chiarito: Setti vuole dare continuità. Motivo? Business e passione. Passione, beninteso, non declinata a sentimento per i colori, ma passione intesa come piacere (narcisistico, psicologico, motivazionale) di avere un’azienda-calcio e di essere attore protagonista in un mondo affascinante, che ti dà visibilità e apre tante porte.

Il Verona dunque va avanti con Setti, e non per mancanza di compratori, come vuole la vulgata, ma di interesse reale a vendere. Setti che in queste settimane (mediante Fusco) il suo dovere l’ha fatto: allestire una squadra per la promozione diretta. Ma la prova del nove per lui si annida altrove, tra le pieghe delle due grandi promesse sinora disattese: il consolidamento in A e il centro sportivo. Dalla loro realizzazione sarà giudicato.

LA QUALITÀ C’È, IL RESTO SI VEDRÀ

Verona-Latina ha parlato. L’Hellas è stato costruito bene e qualitativamente è una spanna sopra alle altre squadre di serie B. Lo avevamo intuito dopo il doppio impegno di Coppa Italia, ieri ne abbiamo avuto conferma. Per dire, ieri Pecchia girandosi in panchina poteva vedere le espressioni corrucciate di Ganz, Gomez, Greco e Siligardi, che giocherebbero titolari in tutte le altre compagini del campionato.  Fusco, a differenza di chi lo ha preceduto nella passata stagione, ha guardato al campo e non ai procuratori. Ha scelto l’allenatore (a Verona non capitava da anni che un direttore sportivo avesse il “suo” mister) e preso dei calciatori adatti alle idee di Pecchia. Zitti zitti ds e tecnico hanno attuato una mezza rivoluzione: ieri, tra i titolari, quelli della vecchia guardia erano solo tre (Bianchetti e Fares non entrano nel conteggio perché l’anno scorso hanno trovato spazio a situazione compromessa). Giusto allontanare le passate scorie e aprire la finestra al (razionale) rinnovamento, dando un preciso segnale ai vecchi, che possono essere ancora determinanti, ma solo dentro uno spogliatoio sano senza figli e figliastri. Interessante (e innovativa) l’idea di ruotare per l’intera partita le posizioni dei tre centrocampisti, che non davano punti di riferimento e si scambiavano ruoli e compiti, sebbene credo si sia trattata di un’invenzione dettata dall’assenza di un vero regista nell’organico attuale (Viviani è in uscita). Pazzini ha segnato (e questa non dovrebbe essere una notizia, uso il condizionale) e si è infortunato (e questa non è una notizia, uso l’indicativo). Potrebbe essere una costante: Pazzo non è più il giocatore di tre anni fa (quando al top era uno dei migliori centravanti italiani), la condizione fisica è precaria, ma gestibile. Il resto lo fa il suo talento, esagerato in questa categoria: lui ha nelle gambe 25-30 partite e 15-18 gol. Bastano di per sé, bastano ancor più se dietro hai Ganz e Gomez.

Verona-Latina è rimasta muta. Poca cosa la squadra laziale per avere già del materiale per analizzare l’altro aspetto che occorre alle squadre vincenti: la personalità. E’ vero, preso il gol del pari l’Hellas ha continuato a macinare gioco come se nulla fosse e questo è un segnale, ma non sufficiente per trarre le prime conclusioni. L’imminente doppia trasferta al sud (Salerno e Benevento) giunge a puntino perché è lì che sarà esposto lo striscione: welcome the real world. Ergo questa è la B con le sue insidie e il suo impatto ambientale e nervoso.

Nel frattempo tiene banco il mercato, che si conclude mercoledì. Helander e Viviani sono sulla strada di Bologna e non li rimpiangeremo, in entrata (sempre da Bologna) il difensore centrale Cherubin. Resta l’affaire Romulo, campione che fa la differenza, ma che prende uno stipendio spropositato, non lo vuole spalmare e dunque è in uscita. Dovesse andare verrà preso un centrocampista forte, non necessariamente con caratteristiche simili, magari un regista a cui mettere ai lati Fossati e Bessa (con Zuculini, Greco e Zaccagni alternative), che pure hanno dimostrato ieri di poter fungere da costruttori di gioco. Pecchia ha rassicurato: “Non stravolgeremo la squadra”. C’è da credergli.

LA VECCHIA GUARDIA NON TRADISCA

La mia è l’estate dei tormentoni vintage. Ascolto le note di “Ricominciamo” reinterpretata da un Maurizio Setti ecumenico che parla di Salerno: “Spero sia la giornata della riconciliazione” dice Ranzani improvvisamente folgorato sulla via papale. Poi, forse per festeggiare gli 80 anni di Mogol, ecco risuonare “Ancora tu?”, cover mogol-battistiana ripristinata in omaggio al Viviani “lento”, cioè Federico (quello veloce, Elia, è comprensibilmente in tutt’altre faccende – festose – affacendato), che un giorno sì e l’altro pure sembra sulla via dell’addio, ma invece è sempre qua, un po’ come la bella di Torriglia che tutti la vogliono ma nessuno la piglia (c’è un mercato, un prezzo da contrattare, ma spero si concluda).
La mia è pure l’estate dei dubbi sul vintage, cioè su alcuni elementi della vecchia guardia da cui la dirigenza ha deciso di ripartire. Penso a Pazzini, Siligardi, Souprayen, Albertazzi, Greco e Gomez. Non vorrei si creassero dei vuoti (sulla fascia sinistra, anche se l’infortunio di Albertazzi sta inducendo la società a intervenire), delle incompiute (Gomez, Greco e Siligardi sapranno rimettersi in discussione?) o degli equivoci (il dualismo Pazzini e Ganz).
Sia chiaro, mi piace la rosa che sta disegnando Fusco, il calcio di Pecchia sembra promettere bene e vedo un Verona sulla carta superiore alle concorrenti. I nuovi sono frutto di un mercato intelligente: Ganz è giocatore di grande talento, Fossati e Zuculini due vincenti in B, Bessa può esplodere, Caracciolo è nel pieno della maturità agonistica e conosce Pecchia, Luppi è il classico fosforo di categoria, Nicolas è pronto per essere un portiere titolare di fascia alta. Ma sappiamo che la B è storicamente un campionato livellato, che si gioca sul filo dei punti, e nel quale non ti puoi permettere vanità o lussi inutili. Tradotto: Pazzini si chiama Pazzini e deve segnare, altrimenti è anche giusto mettergli pressione con un Ganz apparso in gran spolvero. Lo stesso vale per i Viviani (dovesse rimanere) e i Greco a centrocampo, reparto in cui servono tecnica, motivazioni e dinamismo e dove non puoi fare sconti al nome, all’ingaggio o al pedigree, soprattutto se hai pure Fossati, Zuculini, Bessa e lo stesso Zaccagni a mordere il freno. La difesa invece merita un discorso a sé perché con Caracciolo e i due nuovi tasselli che arriveranno (centrale e terzino sinistro) sarà un reparto rifondato privo delle scorie del passsato (e Bianchetti, in deficit di personalità, si può rilanciare se affiancato da un leader e Pisano è una garanzia).
Siamo alla volata finale di questo mercato estivo, il Verona ha comunque deciso di ripartire da un mix di nuovo e vecchio. Scelta equilibrata, ma la vecchia guardia non tradisca.

SETTI, FUSCO E PECCHIA: QUESTIONE DI…MARCE

Come un novello Arthur “Fonzie” Fonzarelli non lo ammetterà mai, nemmeno sotto tortura. Setti difficilmente dirà: “Ho sbagliato”. Ma se a Fonzie bastava mostrare la faccia contrita e balbettare il perdono davanti a Marion Cunningham (l’unica privilegiata di cotanta umiltà), per Setti i fatti valgono da soli un’autocritica compiuta. In meno di otto mesi gli attori protagonisti dell’ultimo “teatro degli orrori” – Mandorlini, Gardini e Bigon – se ne sono andati, i procuratori sono tornati a fare i semplici intermediari e non gli invadenti consiglieri, e anche in sede  e negli uffici qualcosa si è mosso.

E’ un nuovo Verona: bello, brutto, vincente o scalcagnato lo dirà il campo, ma le prime impressioni sono positive. Fusco mi è piaciuto: umile, schietto e disponibile, una rivoluzione rispetto al recente passato. Basta per essere un bravo ds? No ovviamente, il calcio e la vita sono costellati da stronzi geni e umili idioti, ma in Fusco c’è anche del metodo e una finezza tecnica non trascurabile. Fusco è amico personale di Bigon, eppure come ds è più un Sogliano. Dirigente da campo e non da ufficio, che – deciso il budget dal presidente – vuole “carta bianca” nell’operare; che al nome preferisce l’equilibrio di squadra (con la permanenza di Pazzini ha preso il giovane Ganz e non l’esperto Cacia), che prima di ingaggiare il calciatore titolare – quello per intenderci che ti deve fare la differenza – se lo porta a spasso e pure a pranzo, ci parla e lo guarda negli occhi, sulla falsariga di Sogliano con Toni tre estati fa. Sembra tutto normale, ma non lo è in un mondo di dvd, chiavette usb e procuratori da soddisfare, dove capita pure di acquistare un giocatore di fama senza sincerarsi davvero delle sue condizioni fisiche e morali. Basta, almeno questo, per essere un bravo ds? Non ancora, perché oltre a disponibilità umana e metodo lavorativo dobbiamo appurare se Fusco gode della terza componente determinante: il fiuto.

Su Pecchia, per esempio: crac, o bidone? E’ la domanda dell’estate, sulla bocca di tutti. Anche qui buone impressioni si accompagnano a normalissime perplessità. Pecchia è colto, poliglotta, empatico, sorridente, cortese, tutte cose a cui non eravamo abituati da tempo, e ha metodologia (esempio la famosa intensità di cui ha scritto Vighini, non granché in voga con Mandorlini), ma ha tutto da dimostrare nella gestione del gruppo (qualità in cui invece Mandorlini, pur con metodi discutibili, eccelleva), che diventa attività psicologica complessa nei momenti di difficoltà o delle scelte.

L’auspicio ovviamente è tornare a sorridere, godere e vincere, perché parlottando in privato è questo l’unico obiettivo, al di là delle professioni pubbliche votate all’understatement. Setti, anche se non lo ammetterà mai, ha ingranato umilmente la retromarcia, ora tocca a Fusco e Pecchia mettere la quinta.