ORA TOCCA A PECCHIA

Anarchy in the… Hellas Verona. Ma qui è tutto meno punk, ribelle, lieve ed epico rispetto ai tempi dei Sex Pistols e della loro ‘Anarchy In The UK’. Qui è solo tutto più drammatico, cupo e preoccupante.

Il Verona di Pecchia si è smarrito: tatticamente senza più ordine, senza più armonia, senza più regole. Ognuno in campo sembra andare per conto suo, sfilacciato, solitario, disorganico. Un corpo senz’anima.

Lo sport è tremendo, specie se corri una maratona lunga 42 chilometri (partite). Il momento no, anche casuale o sfortunato, è sempre in agguato, può capitare, ma la discriminante è se lo sai gestire. L’Hellas ce l’ha avuto con il Novara, sconfitta probabilmente più pesante, sfortunata e casuale di quanto si sia detto o scritto. Il problema, e qui il caso non c’entra più, è che quella debacle non è stata gestita sapientemente. Credo che siano emersi anche i limiti di esperienza e di carattere di Fabio Pecchia, del quale torno a ribadire quanto dico o scrivo da inizio campionato (quando si vinceva): uomo perbene, grande tattico della fase offensiva, ispirato da una filosofia affascinante e positivistica (vincere passando dal gioco), ma difettante e inesperto in quegli aspetti che possono risultare determinanti.

Innanzitutto il suo Verona intende il calcio in una sola maniera e non sa mutare e giocare più partite in una: usiamo solo il fioretto e non la spada, concepiamo solo il dominio e non la rimessa, vogliamo vincere e convincere con la cultura e l’onestà e dimentichiamo furbizia, malizia e “ignoranza”, conosciamo solo il palleggio e disconosciamo corsa e ripartenze, curiamo solo la fase di possesso e ci dimostriamo fragili e disuniti in fase di non possesso (e hai voglia di dare colpa ai difensori, a Verona nel mirino già ai tempi di Mandorlini, il problema ancora oggi è tattico e non sono i singoli, Bianchetti ad esempio con Delneri non sfigurò in serie A). Questo manicheismo conduce Pecchia anche a degli errori di lettura delle stesse partite e alla gestione discutibile di alcuni giocatori, sinora messi in condizione di non rendere al meglio.

L’allenatore però ha un alibi: una rosa che si è rivelata clamorosamente corta in difesa (sia nei centrali che nei terzini) e anche sugli esterni d’attacco, e con almeno quattro giocatori dei 18 over imposti dal regolamento non pervenuti (Maresca, Troianiello, Cherubin e Zuculini). Un lusso questo che non possiamo permetterci e di cui deve fare severa autocritica il ds Fusco, che nel complesso ha lavorato bene per il budget a disposizione (leggi nozze con i fichi secchi, e qui torniamo al discorso dei 25 milioni di paracadute e di un Setti che ciononostante ha messo il suo ds nelle condizioni di dover lavorare perlopiù con svincolati e prestiti con riscatto), ma che a gennaio deve rimediare a questi suoi errori.

Ma da qui ad allora ci sono tre partite da giocare. Sono tante perché non stai bene; sono tante perché, con tre squadre a soli due punti che minacciano la leadership e i primi due posti della promozione diretta, la classifica si è fatta tremendamente corta. Tradotto: il mercato ora resti solo un retropensiero. Tocca a Pecchia e solo a lui adesso risolvere i problemi, lo deve fare e presto. “Non vado contro i muri” ha detto ieri in sala stampa. Glielo auguro di cuore, perché sarebbe la sconfitta più grande per il Verona.

RESILIENZA

Resilienza: capacità di un materiale di sostenere gli urti senza spezzarsi.

In principio il termine fu coniato e utilizzato nella meccanica e nel tessile, da qualche anno è in voga nel settore della psicologia, anche sportiva.

Oggi “resilienza” è l’imperativo del Verona, che da un mese a questa parte ha perso brillantezza e fluidità e dunque non è più in grado di proporre con efficacia il suo gioco, ma che deve trovare il modo di resistere da qui a gennaio, mese della (beata) sosta e del mercato.

C’è un problema di fondo: il Verona, che non sa più giocare di dominio, forse non ha le caratteristiche (tecniche, tattiche, fisiche e mentali) per vincere di rimessa, cioè con l’attenzione al dettaglio e la dedizione all’episodio (vedi i gol subiti allo scadere dei tempi ieri), manchevole com’è di furbizia sparagnina, muscolare praticità, capacità difensiva e costanza mentale. Il Verona vince spesso quando è bello, di rado quando non lo è. Insomma è condannato a piacere. E’ un limite, che  ha una spiegazione.

Come ho già avuto modo di scrivere e dire in tempi non sospetti, Pecchia sa proporre solo un tipo di calcio (e se quello non riesce non ne emergono altri) e i giocatori determinanti della squadra sono ottimi specialisti (intendono il gioco in un solo modo), ma pessimi universali (non sanno adattarsi ai mutamenti). Gianluca Vighini dunque ha centrato il bersaglio: la coperta è corta e Setti a gennaio deve mettere mano al portafoglio, perché Fusco solo con l’inventiva e gli scambi poco può. Occorrono un leader in difesa, un giocatore fisico e di corsa a centrocampo e un’ala che faccia la differenza. Ma è necessario anche che Pecchia allarghi le vedute e gestisca meglio la rosa a disposizione.

Nel frattempo resilienza, perché prima del mercato e della sosta ci sono 4 partite da giocare: Vicenza, Entella, Carpi e Cesena. Il Verona, pur nella sua opacità, ha le possibilità di mettere in cascina almeno altri 7-8 punti e girare a 41-42. Firmerei.

IL RAGAZZO CHE DIVENTA UOMO

Il ragazzo, forse, sta diventando uomo. Questa è l’allegoria della domenica calcistica. Aver scoperto la propria fragilità può aver dato nuova consapevolezza al Verona, che sarà definitivamente grande solo quando saprà abbracciare il talento dimenticando la vanità.

Contro il Bari serviva spogliarsi da tutto e di tutto: dagli incubi delle due umiliazioni, dalla paura fottuta di veder vacillare le proprie certezze, dall’inquietudine di aver imboccato un vicolo cieco. La grande incognita della vigilia era proprio questa: la tenuta mentale. Il Verona era al primo vero snodo della stagione, davanti a sé due strade: quella di un declino forse ineluttabile e quella di una nuova grandezza. In mezzo la domanda delle domande per Pecchia e giocatori: chi e cosa siamo? In questo contesto il Bari rispolverato da Colantuono (4 punti in due partite) era l’avversario peggiore che potesse capitare.

L’Hellas, pur tra fatica, nervosismo tecnico e tratti di sofferenza, ha superato la prova e saputo resistere, ritrovarsi e ricompattarsi a due metri dal burrone. Al resto ci hanno pensato Romulo, un treno in corsa che nel secondo tempo ha letteralmente trascinato i compagni, e Pazzini che ha risolto tutto con un gol da consumato bomber. La sintesi è: non abbiamo perso grazie alla forza morale e psicologica del collettivo, che anziché disgregarsi e lasciarsi andare ha dato una superba prova di solidità (un applauso a Pecchia, festeggiato dai giocatori dopo il gol); abbiamo vinto grazie alla puntualità di due campioni fuori concorso, determinanti e sanamente egoisti nel momento del bisogno.

Lo ammetto, con nove gol sul groppone in due partite non avrei disdegnato un pareggio. Ci sono momenti in cui devi solo resistere e aspettare che passi. Ma vincere è un toccasana. La ritrovata serenità spero aiuti a recuperare anche quella fluidità di gioco smarrita da un po’. In parte è fisiologico certo, mica puoi essere frizzi e lazzi per 42 partite, un po’ dipende dal calo del nostro centrocampo, cuore e cervello di tutto, ma credo che Pecchia debba anche studiare soluzioni tecniche e tattiche nuove, fatta salva ovviamente l’identità della squadra. Per dire, il Verona da centrocampo in su dispone di giocatori che possono offrire nuovi spunti: Zaccagni e Valoti l’imprevedibilità, la verticalità, l’inserimento e la stoccata; Ganz e Gomez (che possono giocare con Pazzini) un gioco più centrale e concreto. Tutti loro vanno sfruttati di più e meglio. Anche da qui passa la crescita del nostro allenatore. Il resto va affrontato a gennaio, leggi mercato, quando Setti e Fusco dovranno rinforzare la rosa.

ECCO 5 BUONE RAGIONI…(DELL’UMILIAZIONE)

Pietrificati. Credo sia l’aggettivo che renda maggiormente l’idea dello stato d’animo generale dopo l’inopinata e terribile sconfitta casalinga di ieri. Eppure, a freddo, invito a un sano realismo: no a (ridicoli) allarmismi, sì a (sacrosante) riflessioni. Non si campa sul passato, nemmeno se recente, ma stiamo pur sempre parlando di una squadra che dopo un terzo di campionato ha quasi sempre vinto, spesso convinto, sovente dominato e soprattutto totalizzato 30 punti (con questa media si arriverebbe a 90 e non è mai successo nella storia del Verona). Insomma voglio pensare si sia trattato di un episodio, drammatico, brutale e umiliante, ma pur sempre un episodio. Ovviamente non casuale, ma motivato da cinque ragioni.

PSICOLOGIA. Credo che il Verona abbia vissuto la nemesi psicologica dell’exploit di La Spezia. Una vittoria, quella, per certi versi inaspettata (almeno nelle proporzioni) e ottenuta grazie a una prestazione scientificamente perfetta (che non significa per forza di cose esteticamente bella), ma anche mentalmente faticosa. Con il Novara il Verona è apparso scarico, inconsciamente rilassato, abulico. Da questo punto di vista lo 0-4 può essere la sveglia migliore, ideale a riprendere il cammino.

CALO DEGLI UOMINI CHIAVE. Fossati a La Spezia (ma anche nelle precedenti partite) è stato il migliore in campo, ieri era avulso dalla partita, si nascondeva e non ha mai impostato il gioco. Episodio? Per lui può essere. Bessa invece appare un po’ stanco già da tre partite. Per Romulo il discorso è diverso: a mio avviso viene sballottato in troppi ruoli (anche a partita in corso) e rischia di snaturarsi e di non incidere in nessuno (neanche nel suo di mezz’ala destra). Così capita che non riesca più a giocare 90 minuti ai suoi livelli, nemmeno quando è protagonista (come al Picco), figuriamoci se in ombra come è successo ieri ma anche in altri recenti match. Ho citato apposta questi tre giocatori perché con Pazzini sono il cuore e il cervello della squadra. Pazzini che, per inciso, non segna da quattro partite: ma se non gira il centrocampo la vita è dura anche per lui e di conseguenza lo è per il Verona, che delle invenzioni in zona gol di un campione come il Pazzo ha particolare necessità in partite “bastarde” come quella di ieri. Come rimediare? Da un lato questi sono cali fisiologici da mettere in conto nell’arco di una “maratona” di 42 partite, dunque potremmo liquidare la questione alla Eduardo De Filippo (addà passà ‘a nuttata); dall’altro Pecchia deve ridefinire una nuova gestione della rosa, specie a centrocampo, che è la zona più dispendiosa del gioco del calcio, ma che è anche il reparto dove il Verona ha diverse alternative (Valoti e Zaccagni possono dare più cambi a Bessa, Romulo e Fossati, fatto salvo il valore assoluto dei tre titolari).

PECCHIA E I DETTAGLI MANCANTI. Scrivevo il 30 ottobre sulla mia pagina facebook dopo la vittoria con il Trapani: “Pecchia ha talento, conoscenza e personalità ma pecca ancora nei dettagli”. Un concetto che in altri termini ho espresso più volte anche in questo spazio. Ieri l’allenatore del Verona (che ricordiamolo sempre ha portato cultura del lavoro, metodo, sagacia tattica, gioco) si è fatto sorprendere da Boscaglia che ha schierato per la prima volta il Novara con la difesa a 5. Pazzini così si è ritrovato a battagliare per 60 minuti abbondanti tutto solo contro tre marcantoni in una giornata già difficile di suo (per i motivi spiegati sopra). Proprio per questo avrei evitato di inserire un altro esterno (Luppi) e di sconvolgere la squadra togliendole il regista (Fossati) e avrei provato a inserire già al riposo una punta (Ganz o Gomez al posto di Valoti) da affiancare a Pazzini per giocare meno di manovra e più sulle seconde palle (come è successo nel secondo tempo con il Brescia). Certo Ganz poi è entrato e ha giocato male, ma qui io difendo il concetto tattico di inserire un centravanti in più, indipendentemente dalla prestazione del singolo, e comunque Ganz è entrato con un Verona che aveva già perso i suoi equilibri (l’uscita di Fossati), mentre sarebbe stato preferibile vederlo con Pazzini sostenuti entrambi da un centrocampo classico. Ecco, a mio avviso Pecchia a volte va in difficoltà nella lettura delle partite (altre invece è stato bravo e l’ho sottolineato) e quelle volte sempre per lo stesso motivo: il manicheismo con cui tende a vedere il calcio. Indipendentemente dai moduli (che invece cambia spesso) la “tara” è la stessa: gioco manovrato e palla a terra, ma in contesti come quelli di ieri io non disdegnerei un gioco più sporco (due punte, seconde palle e spizzicate). Tuttavia ribadisco quanto detto altre volte: Pecchia è un allenatore in evoluzione, già preparato ma non ancora “fatto e finito”, va difeso in questo suo percorso perché il suo potenziale è notevole. E anche la sua onestà intellettuale, basta rivedere le sue dichiarazioni post partita.

LA PARTITA DELLA VITA. Il Novara ha ragione: “Riconoscete anche i nostri meriti” sottolineavano ieri i suoi giocatori. La squadra di Boscaglia ha fatto la partita della vita per intensità atletica, ordine tattico, cattiveria agonistica e malizia. Il Verona ha combinato quel che ha combinato (e lo abbiamo detto nei punti precedenti) e la perfezione occasionale degli avversari ha fatto il resto. E’ il calcio bellezza: lo sport, tra tutti, nel quale accade più frequentemente che il più debole batta il più forte.

L’ARBITRO. Chi mi legge abitualmente sa che in questi anni non ho mai parlato della classe arbitrale. Non mi piace e non appartiene alla mia cultura. Ma ieri la partita è stata evidentemente condizionata da una terna pessima sia negli episodi (primo gol viziato da un fuorigioco di due metri e un rigore non concesso al Verona) che nella gestione della partita, che ha assecondato la furbizia dei giocatori del Novara. Il Verona, per caratteristiche tecniche e fisiche, è una squadra che non riesce a metterla in bagarre, ma basterebbe un arbitro che tutelasse il corso naturale della partita, cioè il gioco.

QUELLA SFIDA ESISTENZIALE DI PECCHIA E GIOCATORI…

La bellezza dell’epicità si può cogliere anche in un campionato – quello del Verona – che appare viziato dall’ovvio di un dominio sinora assoluto (leggasi al riguardo il mio articolo del 30 ottobre “L’ovvio non ucciderà il godimento”). Si coglie ad esempio nel sabato di La Spezia, che assume contorni gloriosi perché l’Hellas ha giocato più partite in una nel catino bagnato eppure bollente del Picco – uno di quegli stadi affascinanti nel suo passatismo vintage, con un pubblico vero nei suoi smoccoli e con le sue imprecazioni, ben lontano da certi contesti preteschi, asettici e dai vuoti echi che pure questo calcio del nuovo millennio ci ha consegnato. Il resto forse l’avranno fatto la pioggia, i ritmi vertiginosi della partita, il suo andamento più contorto e vissuto di quanto dica il risultato.

A me è piaciuta molto la gestione della sofferenza iniziale. Il Verona è stato intelligente, cioè sornione e ordinato in consapevole attesa del colpo vincente. A Benevento, per dire, non era accaduto e in quella circostanza l’atteggiamento ottusamente spregiudicato fu la causa dell’espulsione di Caracciolo e della sconfitta. Il prosieguo è stato un crescendo rossiniano, con il Verona che ha sprigionato tutto il suo talento e la sua personalità. Mi direte, e qui dove sta la novità? Risposta: nella forza quasi imbarazzante con cui questo è avvenuto, una forza ancora più significativa delle altre volte, per il valore dell’avversario e per il contesto ambientale (stadio, e pioggia e campo pesante), una forza da cecchini freddi e risoluti, senza concessione ad alcuno spreco di energia. In altre circostanze avevamo ammirato un Verona bello e vincente, ma anche civettuolo, narcisista e accademico. A La Spezia registro un salto di qualità: all’estetica si è accompagnata una concretezza totalitaria e una capacità di lettura della partita (anzi delle tante partite in una) chirurgica.

Il dominio assoluto rischia di nascondere una finezza, meglio, un dettaglio che tuttavia i più acuti osservatori avranno certamente colto: l’Hellas, i suoi giocatori e il suo allenatore stanno ancora studiando, crescendo e migliorando. Stanno giocando su loro stessi e i loro limiti, sfidandoli. All’obiettivo agonistico – cioè vincere il campionato, o quantomeno risalire in serie A – accompagnano un obiettivo più esistenziale: costruirsi e costruire per loro stessi un futuro ai più alti livelli. Dovessero riuscirvi, Setti avrebbe l’obbligo di ripartire da lì per non disperdere e consegnare ad altri il frutto di questo percorso.

L’OVVIO NON UCCIDERÀ IL GODIMENTO

Appare tutto così scontato. Predestinato. Ovvio. Pure fastidioso: perché dover aspettare tutti questi mesi per conseguire quello che a molti pare già scritto? Perché non sbrigarsela in fretta, chiudere baracca e burattini e ricominciare subito dalla serie A? Il Verona a quasi un terzo del campionato è saldamente in testa, domina e mette in pratica il noto refrain pubblicitario secondo cui è possibile e bello vincere facile. Tuttavia il rischio – non pronunciato, anzi silente e sottinteso – è che questa stagione possa trasformarsi in un’agonia al contrario. L’agonia del divertimento abitudinario che non diverte più, della ricchezza che spegne il gusto della conquista, della quotidianità-modello perfetta e vincente che smarrisce il fascino borderline della sofferenza, il sex appeal del successo corsaro, l’eros della seduzione, caratteristiche nel dna e nella storia del Verona. “Sì d’accordo ma poi…tutto il resto è noia” cantava Califano.

Il fatto è che non siamo abituati a questo status borghese del dominio assoluto, della vittoria obbligata, del successo come minimo sindacale. E’ questo il paradosso nel rapporto tra il Verona e la sua opinione pubblica: in estate scetticismo, dubbi e nessuna lode, ora la pretenziosità e il rischio di non vedersi riconosciuto il merito (e dunque, ancora, nessuna lode). Eppure, osservando la questione retroattivamente, molto in estate non era scontato. Era d’obbligo l’intento (risalire in A), non il rendimento. Chi scommetteva ad occhi chiusi solo su uno di questi giocatori: Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati e Valoti, cioè la spina dorsale dell’attuale squadra? Abbiamo dimenticato chi addirittura parlava di Lega Pro (sì abbiamo sentito anche questa) dopo la pur meritata e inopinata sconfitta di Benevento? Ci ricordiamo i cocci (finanziari, morali e psicologici) lasciati dalla gestione precedente e raccolti da Filippo Fusco, che ha ricostruito l’Hellas – ricordiamo anche questo – senza il bancomat illimitato, ma anzi con l’inventiva e l’intuito?

Io non dimentico e scaccio il pericolo che la dittatura dell’Ovvio mortifichi e uccida il godimento. Anche perché l’Ovvio ancora non esiste con Spezia (trasferta insidiosissima), Cittadella, Bari, Entella e Carpi da affrontare.

FABIO PECCHIA: PREGI E DIFETTI DI UN ALLENATORE IN EVOLUZIONE

Pisa conferma una mia impressione di cui scrivo da tempo: contro le squadre nervose, aggressive, atletiche (e almeno di discreta qualità, o in un momento di grazia) e contro gli allenatori che sanno preparare la partita speculando sulle caratteristiche del Verona il gioco di Pecchia può incontrare qualche difficoltà.

E’ successo a Benevento – Baroni lo ammise in sala stampa e la squadra campana seppe sfruttare il manicheismo offensivo del Verona. E’ successo con il Brescia, quando Brocchi, pur in una partita di forte contenimento, riuscì a togliere dei riferimenti al Verona, tanto da costringere Pecchia a mutare intelligentemente il tipo di gioco rendendolo più sporco e sbrigativo (e credo sia stata la prima e unica volta). E’ successo ieri sera.

In questa pur povera serie B ci sono delle avversarie che, anche se più deboli, il Verona lo sanno affrontare. E’ capitato con Benevento, Brescia e Pisa e capiterà ancora con qualche altra. E se succede io la penso come Pecchia nel post Brescia (“queste partite spesso le puoi perdere”), o come il Caracciolo di ieri (“teniamoci il punto”). Del resto l’obiettivo è andare in serie A, tutto fa brodo e anche se ti chiami Verona a volte salvare la pelle val bene una messa. Però è altrettanto chiaro che Pecchia dovrà lavorare per rendere il Verona un meccanismo più completo, ancor più imprevedibile e il meno possibile studiabile.

Il tecnico laziale ha due grandi qualità: conosce la tattica e imprime un suo marchio alla squadra. E sta decisamente migliorando nella lettura delle partite. Ma ha anche un difetto: mi sembra ancora troppo accademico e manicheo nell’intendere solo un tipo di calcio (al di là dei moduli, che invece sa cambiare). Non entro invece nel campo delle singole scelte: personalmente preferirei Valoti, Zaccagni e Ganz a Maresca e Siligardi, ma de gustibus non est disputandum con la qualità generale della rosa del Verona in questa B.

E poi è sempre bene ricordare che Pecchia è alla prima esperienza importante da capo-allenatore ed è naturalmente in evoluzione. Interessante sarà seguirne il percorso da qui ai prossimi mesi, anche e soprattutto in vista della prossima stagione, si auspica in serie A.

IN LODE A PAZZINI E FUSCO

Mea culpa mia laicissima culpa. Sgrano il rosario pagano e m’inchino a Pazzini, che il sottoscritto (peraltro in folta e ottima compagnia) in estate aveva bollato come ex campione sul viale del tramonto e dopo le prime giornate di campionato un ex campione che – al limite – avrebbe raggiunto un bottino di 15-20 gol a mezzo servizio, ma solo per l’inerzia di una classe (la sua) in contrasto con la mediocrità del campionato. Ma la scarsa qualità del torneo c’entra fino a un certo punto: questo Pazzini, che alla faccia mia e nostra non è ancora un ex, probabilmente sarebbe prolifico anche in serie A. Solo gli ingenerosi – presumo cresciuti con le statistiche spacciate per l’assoluto di Tosatti (pace all’anima sua) alla Domenica Sportiva – in settimana sminuivano le prestazioni del nostro puntualizzando che “be’ sì otto gol ma con cinque rigori”, senza accorgersi che il calcio non è la boxe e nemmeno il basket e che dietro i numeri e le percentuali, spesso limitanti, si cela la realtà. E la realtà dice che Pazzini è un calciatore ritrovato, anche atleticamente (nonostante le entrate killer che anche ad Ascoli ha dovuto subire). I due allunghi da centometrista ventenne in cui si è prodigato nelle ultime due partite al Bentegodi (che giustappunto non rientrano nelle statistiche) ne sono il manifesto. Non c’è dubbio che il Pazzo, già ai tempi del Milan, fosse stato tormentato da guai fisici che per i maligni erano il segnale di un precoce canto del cigno. Per questo, ora, è importante celebrare la sua rinascita, un risorgimento che va oltre ai gol e che riapre anche molte considerazioni (finalmente positive) sui quattro anni di contratto che ancora lo legano al Verona.

A Pazzini invece ci ha sempre creduto il ds Filippo Fusco. “Guarda che farà sfracelli” mi diceva in estate mentre io esprimevo più dubbi che San Tommaso nel Vangelo. Credo che Fusco, personaggio sui generis in questo mondo del calcio (e non è retorica sottolinearlo), sia il vero artefice del Verona. Lui, giustamente, sposta meriti e attenzioni su “Fabio” – così lui chiama Pecchia -, ma Fusco ha costruito una squadra pronta per stravincere la B (al netto della scaramanzia sarebbe uno scempio calcistico fallire l’obiettivo) e con una base adatta a ben figurare anche in A – penso appunto a Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati, Valoti e Pisano.  Fusco, un benestante idealista e colto, lontano da cafonerie grossolane ed esponente di una classe sociale più estinta dei panda come la ‘borghesia illuminata’, insegue il suo sogno, che è la serie A, per lui non solo una categoria ma anche una meta esistenzial-professionale. Questa, infatti, è anche la sua occasione, l’occasione di un dirigente da anni nel calcio, ma sempre un passo di lato, mai protagonista, mai davvero centro di gravità permanente. E ieri sera, dice chi gli è vicino, Fusco era particolarmente euforico per il primo posto raggiunto, traguardo parziale ma significativo.

Già la vetta. Scrivevo una settimana fa, dopo il positivo (ribadisco) pareggio con il Brescia, sulla mia pagina pubblica di fb: “E’ solo questione di tempo”. Ed ecccoci lì, ma adesso è il momento di accelerare, come una Formula Uno più veloce delle altre che dopo una serie di ostacoli, doppiaggi e traffico in partenza ha la strada finalmente libera. Diamo gas.

 

BICCHIERE PIENO

Premessa: usciamo immediatamente dal classico dilemma sul bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Oggi il bicchiere è pieno e basta. Il punto con il Brescia è un ottimo punto perché accorciamo sulla vetta e allunghiamo su chi ci insegue, e soprattutto perché il Brescia, ad oggi, è squadra con caratteristiche tali da poter rompere certi consolidati equilibri del calcio di Pecchia. Il Verona, tra svariati pregi, infatti ha un limite su cui l’allenatore sta tuttavia lavorando: è squadra forte ma poco versatile da un punto di vista tecnico (per le caratteristiche dei suoi giocatori più importanti, specialisti e non universali, e per la mentalità di Pecchia). Una squadra bravissima, anzi sontuosa, nel fare un tipo solo di calcio: quello della ricerca spasmodica – a volte financo accademica – del gioco con la palla a terra, senza “mezzucci” come seconde palle, o atteggiamenti sornioni e attendisti, un calcio più propenso alla costruzione tecnica che alla bagarre fisica.

Brocchi ha studiato i nostri limiti e nel primo tempo (anche nei nostri primi venti minuti di grande calcio) è riuscito a spegnere Siligardi e Luppi, a bloccare con tanto di marcatura a uomo Valoti e – di conseguenza – a togliere rifornimenti a Pazzini. Il Verona, poi, una volta in svantaggio ha perso le misure e le geometrie per tutto il resto del tempo, fino alla svolta di Pecchia – che, fateci caso, si sta gradualmente “stalebanizzando” (mettendo così ancor più in risalto le sue doti tattiche) -, che di rimando nella ripresa ha cambiato assetto, schierato Ganz (che deve recuperare serenità) – liberando così dal giogo delle marcature Pazzini – e cominciato anche a “sporcare” il suo calcio per renderlo adatto al contesto. Dunque ha ragione Brocchi: “È stata una bellissima partita sul piano tecnico, ma soprattutto tattico e agonistico”. E il Verona ha mostrato carattere e capacità di andarsela a riprendere.

Cinque vittorie, due pareggi e una sconfitta sinora sono un buon ruolino di marcia (ci mancano i due punti di Salerno, il resto rispecchia quanto accaduto in campo), ma occorre crescere sul piano della versatilità. Siamo bravissimi a cantare, meno a portare la croce. Ma il Verona ha identità, carattere, qualità e organizzazione. La strada è giusta.

OFFENSIVISMO (TEMPERATO)

Nulla è peggio delle “belle sconfitte”. Sanno di beffardo bacio della morte, del “restiamo amici” dell’amante che se ne va; ti lasciano l’amaro retrogusto di un affetto impalpabile e si congedano con la fredda gentilezza dei sospetti (troppo sospetti) complimenti di circostanza. Il Verona 15 giorni fa ha lasciato Benevento così, con l’eco mediatico della “bella sconfitta”, per il gioco mostrato, per l’alibi dell’espulsione ecc..

Sembrava fosse tutto frutto del caso, o della sfiga, un’ingiustizia bella e buona per il “bellissimo” Verona delle trame, dei fraseggi e del possesso palla. E invece mai KO fu più meritato, e Pecchia – al di là delle dichiarazioni pubbliche – se n’è accorto modificando qualcosina e rimettendosi intelligentemente in discussione. Parlo di atteggiamento e di dettagli, non di filosofia di fondo, né di moduli o di uomini. Il Verona di Benevento era una squadra apparsa presuntuosa e fin troppo spavalda, direi monotematica e unilaterale nel suo voler sempre e comunque attaccare. Il Verona di ieri invece, pur mantenendo l’identità pecchiana del gioco e della qualità, è stato una squadra più pragmatica e universale nella gestione della partita, mostrando anche di sapersi adattare all’avversario, di lasciarlo sfogare, di saperlo studiare e dunque infilare.

“La storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione” scrivevo dopo Benevento nel pezzo ‘L’Ayatollah Pecchia sogna la rivoluzione ma…’. E concludevo: “Il ‘bel gioco’ aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il bel gioco non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente”. Con quelle parole paventavo il rischio talebanismo, temevo  una squadra tanto generosa nei confronti del gioco d’attacco, della platea e dell’estetica quanto prevedibile per gli avversari (e dunque vulnerabile).

Ma ieri così non è stato, anzi. A Telenuovo ho definito quella con il Frosinone una vittoria intelligente: sognatori nell’obiettivo (segnare, vincere e convincere), pragmatici nel metodo (sapersi adattare, se richiesto, anche al contesto e all’avversario). Si chiama offensivismo temperato: è la strada da seguire.