E SE IL MODELLO FOSSE L’ATHLETIC BILBAO?

“Non c’è mondo per me al di là delle mura di Verona: c’è solo purgatorio, c’è tortura, lo stesso inferno. Bandito da qui è come se fossi bandito dal mondo; e l’esilio dal mondo vuol dire morte”. Lo disse Romeo, lo scrisse Shakespeare. Manifesto identitario, vessillo della veronesità.

Mi direte: che c’entra un gigante come Shakespeare con un piccolo blog di calcio? Rispondo: cosa c’è di più identitario del calcio? Vorrei lanciarvi una provocazione: perché Setti, che ha detto di ispirarsi al Borussia Dortmund, nella creazione del suo modello calcistico non ci mette anche una spruzzatina di Athletic Kluba, alias Athletic Bilbao? Lo ammetto, sarebbe una scelta rivoluzionaria e in controtendenza in questa melassa insipida che è il calcio del duemila; ma vuoi mettere il fascino?

Oddio, mi rendo conto che non si può in un nanosecondo – e soprattutto in questo calcio – emulare 116 anni di storia del club basco, che è un modello a sé difficilmente esportabile. Per esserne consapevoli basterebbe farsi un giro da quelle parti, giusto per capire il carattere di quel popolo e i sentimenti di quella terra, vera e propria piccola patria.

Scimmiottare dunque sarebbe stupido, ma qua e là qualcosina si può “rubare”. Ad esempio, mi piacerebbe vedere qualche italiano in più nella mia squadra, pur non essendo di principio contro gli stranieri e capendo qualcosina di libero mercato e quindi delle ragioni (soprattutto economiche) che portano le società a tesserarne in quantità industriale. Ma è il modello del settore giovanile della società basca, in particolare, a ispirarmi. L’Athletic Club in passato tesserava solo calciatori originari dell’Euskal Herria, adesso ha “aperto” anche a quelli non indigeni purché cresciuti nel suo vivaio. Il caso di Fernando Llorente è solo il più emblematico, ma non l’unico. Nato navarro nella Pamplona cara a Hemingway, infanzia nella Rjoia, l’attaccante ora della Juventus è però cresciuto a Bilbao dove si trasferì a soli dieci anni per formarsi nella cantera rojiblanca. Il caso Llorente peraltro dimostra che anche con “l’autarchia” si possono fare le plusvalenze care a qualsiasi presidente di calcio e imprescindibili per una società di media fascia come il Verona. A questo proposito Setti ha in testa da tempo un centro sportivo per le giovanili: sarebbe una svolta decisiva nell’ottica di costruirsi calciatori in casa, che abbiano il giusto mix di senso di appartenenza e fame di imporsi alla ribalta.

Ma più in generale, assodato che per i tifosi l’essenza del Verona Hellas è la sua identità, i suoi colori e la sua storia di unica vera squadra della città (per questo, ripeto, gli addetti ai lavori e i mass media quando si rivolgono all’esterno dovrebbero sforzarsi di chiamarlo Verona prima ancora che Hellas), su quale strategia deve puntare invece la società? Sull’omologazione, consentitemi la parola, quindi l’internazionalizzazione del brand, perché per campare con dignità in questo calcio non ci sono altre vie e dunque essa è l’unica scelta responsabile? O sulla propria specificità, riuscendo nell’impresa di imporlo, il brand, all’esterno, attraverso la creazione di una propria via che possa caratterizzare nella sua singolarità il “modello Setti”? Personalmente sceglierei la seconda strada. E’ possibile?

RIDICOLI COUNTDOWN

Vorrei essere Dan Aykroyd e non perché era amico di John Belushi. Lo so, già questo sarebbe un motivo sufficiente, ma si tratta di altro. Vorrei essere Dan Aykroyd e come un provetto ghostbusters acchiappare i fantasmi del minimalismo, i piccoli Casper del “meno 29 alla salvezza”. Un disco rotto l’anno scorso e che ora riprende a gracchiare stonato e fastidioso.

Liberamente ispirato al Principe De Curtis dico: siamo uomini o ragionieri? Ricominciamo la litania? Sembriamo militari che segnano croci sul calendario; programmatori del tempo libero che non è più libero, salutanti ferragosto per pensare già a capodanno; turisti piantatori di bandierine in itinerari prestabiliti; ipocondriaci che viviamo malati per morire sani. Ma viversela giorno per giorno, no? Scoprirsi piano piano e vedere strada facendo dov’è possibile arrivare non ci è concesso? Perché irrigidirsi in stucchevoli e italioti obiettivi? Che facciamo, la meniamo ancora lagnosamente con ‘sta tiritera della “quota 40”? E poi? Poi chiudiamo baracca perché appagati come l’anno scorso?

La verità è che il Verona sinora non ha sbagliato un colpo (l’exploit di Torino compensa il pari col Genoa). E c’è riuscito con la compassata maturità delle squadre forti, e non con l’esaltante ma spesso effimero entusiasmo delle piccole. La verità è che – a pensarci bene – siamo qui addirittura a recriminare per la sconfitta di Roma, dove in certi frangenti forse avremmo dovuto osare di più.

Di grazia, come si fa allora solo a nominarla la salvezza? Mi sembra un atteggiamento di comodo, infantile e modesto. Come il bambino che non vuole crescere, come il timido romantico sempre un metro più a lato della ragazza che sogna di baciare e alla quale in realtà fatica solo a dire un “ciao”.

Perché pensare al calcio solo come piccolo cabotaggio? Non si tratta di parlare di Europa o altro, ma solo di non porsi limiti. Giorno per giorno.

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SOLIDITA’ MORALE, NON (ANCORA) TATTICA

Teniamoci il punto. Teniamoci la rimonta. Il resto? Mandorlini ha sintetizzato bene: “Grande cuore, ci manca ancora qualcosa a livello tattico”. Il Verona ha otto punti e hai detto poco; ha sfruttato pienamente il calendario, benché sia ancora in fase di conoscenza con se stesso. In attesa di Roma (vada come vada), questo fa ben sperare per un campionato da parte sinistra della classifica. Per i discorsi di Europa League aspettiamo: togli 4-5 squadre sopra e 4-5 sotto, le altre più o meno si equivalgono.

COSA VA. Il Verona ha qualità tecnica, forza fisica e una rosa ampia. E questo è merito soprattutto di Sogliano, che ha saputo costruire senza spendere molto un organico sulla carta non inferiore a quello dello scorso anno. L’Hellas, privo di quei due-tre giocatori di qualità assoluta, ha però rinforzato il livello medio generale. Ionita non è solo un “cagnaccio”, Marquez (errore di ieri a parte) è un professore; Tachtsidis, ora in condizione, mi ha convinto e se cresce anche in intelligenza calcistica può fare la differenza; Obbadi è il classico mediano che non sempre si vede ma sempre si sente, e Toni non sarà quello dell’anno scorso, ma ha ancora lampi di classe e una decina di gol nel serbatoio. Altro? Sì, Brivio, ancora poco utilizzato, può essere il terzino che aspettavamo da anni, Gollini il portiere del futuro e fra qualche anno una super plusvalenza. Il resto lo fa lo zoccolo duro, la “classe operaia” dei Rafael, Moras, Hallfredsson e Gomez. Il resto lo fa la mentalità della squadra, che è quella del suo l’allenatore: gruppo unito e grande solidità morale. Di questi tempi e in questo calcio, con rose troppo ampie e rischio gelosie sempre in agguato, non è poco. E nel Verona dei  molti giocatori nuovi (cambiare era necessario), alcuni di grande personalità e di livello internazionale, è un merito in primis dell’allenatore e in secondo luogo di un ds presente anche nello spogliatoio e di una società che rispetta le autonomie di ognuno. Peraltro Mandorlini nelle sue dichiarazioni pubbliche appare quest’anno più pretenzioso e severo nell’analisi della partita (mi riferisco alla sfera pubblica, poi in privato magari lo è sempre stato). E questo mi piace.

COSA NON VA. L’equilibrio tattico ancora da trovare, specie se si vuole sfruttare appieno il potenziale offensivo (Saviola e Lopez in primis). L’anno scorso Iturbe, al di là della classe inarrivabile del giocatore, garantiva grazie al suo fisico sia copertura che estro. Al momento Saviola (suo ieri il primo gol a mio avviso) e Lopez danno solo estro, Jankovic solo copertura, Gomez un po’ tutto ma senza straordinarietà. Per schierare Saviola, col Genoa Mandorlini ha proposto un 3-5-2 un po’ improvvisato e quindi da rivedere (“abbiamo avuto solo due giorni per prepararlo e non è facile” ha confessato Marques in sala stampa), a dimostrazione che l’inserimento del Conejo nel tradizionale modulo è problematico, come a suo tempo scrissi. Ma è un problema che il tecnico deve risolvere, perché almeno uno tra Saviola e Nico Lopez va messo per rendere la squadra più forte.

Lascia ancora a desiderare il rendimento di Christodoulopoulos, uno dei giocatori di maggior talento della rosa. Mandorlini lo stima molto, ciononostante il paradosso è che il centrocampista – né mediano né ala – rischia di risultare un pesce fuor d’acqua nel calcio mandorliniano, fatto di mediani di spinta e non mezzali di tocco a centrocampo, ed esterni “di gamba” e non trequartisti sulle fasce. Quanto al “professor” Marquez, come detto sopra non si discute, l’unica perplessità può essere la sua tenuta in un campionato di 38 partite e la sua gestione in impegni ravvicinati. Detto questo, a me andrebbe bene che giocasse ai suoi livelli venti partite, bastano e avanzano. Infine, sebbene se ne parli poco, pesa l’assenza di Sala: la sua duttilità in questo Verona è preziosa.

COL GENOA VIETATO DISTRARSI

E poi ci sono quelle serate epiche, in cui ti riappropri dell’unico senso del calcio, che è passione non spettacolo. Un carico di sentimenti. Speranza è il Verona del primo tempo, che superiore al Torino regalava dolci presagi. Preoccupazione i primi venti minuti del secondo, con la partita che sembrava girarsi. Euforia è Ionita (bravo), strattonato ma ancora in piedi e con la forza di concludere, capace di farci saltare sui tavoli dall’ebbrezza. Paura questa sconosciuta, se Rafael ci avesse avvisati prima: “In settimana come rigorista avevo studiato Quagliarella, ma El Kaddouri lo ricordavo dai tempi del Sud Tirol”, dirà il portiere negli spogliatoi. E poi dicono che l’esperienza è un sostantivo calcisticamente vuoto. Ansia nei minuti finali, ché sennò mica sarebbe stato così bello.

Sentimenti, solo sentimenti, quindi tutto. La bellissima dedica di Rafael ad Hallfredsson, il “sogno americano” di Ionita, il Verona là in alto che per quelli come me è come riprendersi l’infanzia.  E il lato tecnico? Crescerà con l’inserimento fisso di uno o due elementi davanti in grado di aiutare Toni e piazzare il colpo. Crescerà perché, a centrocampo, Ionita o Campanharo forse non sono solo rincalzi e Tachtsidis ha margini. Crescerà perché Mandorlini alla formazione e alla “quadra” ci sta ancora lavorando. Sì avete capito bene, sebbene da terzi in classifica e con sette punti in tre partite sembra strano dirlo: questa squadra tiene ancora qualcosa per sé ed è stata (riconosciamolo) anche un tantino fortunata. Però la fortuna te la cerchi e il Verona ha due grandi qualità: è forte e, nonostante i cambiamenti, non ha perso il marchio di fabbrica mandorliniano. Tuttavia, guardando il passato, un pericolo lo vogliamo sventare: i cali di tensione anch’essi mandorliniani. Godiamoci una classifica straordinaria, ma col Genoa vietato distrarsi.

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VINCENTI MA NON CONTENTI

In serate così ti aggrappi ai maestri. Gianni Brera sosteneva che “il calcio è un mistero senza fine bello”, come le donne. In serate così ripensi a una vecchia frase di Benitez: “Vincere giocando bene sarebbe perfetto, altrimenti è sempre meglio vincere, perché dopo puoi sempre imparare”.

E il Verona ha vinto e questo solo conta. In attesa che impari (a giocare meglio), soprassediamo sul come. L’hanno visto tutti: gialloblu confusi, dal passo caduco e la testa pesante, monotematici nei soliti lanci per il solito Toni, pigri nell’adeguarsi sin da subito ai ritmi compassati del Palermo; spuntati e scarichi al punto che Saviola sembrava quasi la carta della disperazione. Ma è proprio in quel frangente, mentre El conejo s’apprestava ad entrare, che è apparso in tutta la sua meravigliosa essenza il “mistero” breriano: lancio abbastanza innocuo di Tachtsidis, forse il peggiore in campo fin lì, incertezza di Sorrentino e autogol di Pisano. 2-1 e Saviola che si è riaccomodato in panchina.

Insomma, vittoria tanto rocambolesca quanto gli episodi che l’hanno originata. Ma non sottilizzerei: alla seconda di campionato, con una sosta di mezzo per le nazionali, qualche alibi va pure concesso. Non fosse altro che la partita è stata brutta come poche da entrambe le parti e questo qualcosa vorrà pur dire. Non fosse altro che – a proposito di Benitez – squadroni più blasonati e ricchi hanno pure fatto peggio. Però è chiaro che domenica prossima, se vuoi uscire indenne da Torino, serve ben altra prestazione. E forse pure formazione, perché quella di ieri non mi ha convinto.

Viene in mente Tachtsidis, certo. Il sottoscritto lo scrive da più di un mese che il greco è una scommessa (visto il curriculum in serie A) in un ruolo delicatissimo. Eppure il ragazzo merita ancora delle possibilità (non infinite sia chiaro) per due motivi: qua e là ha fatto intravedere qualche lampo e non è al 100% delle condizione. Rimane il dubbio tra l’altro che Taxi potrebbe rendere di più con al fianco il connazionale Lazaros e non con Hallfredsson. Già Christodoulopoulos, l’altro neo della serata. Anche lui forse si porta dietro qualche scoria atletica post Mondiale, tuttavia esterno alto non è propriamente il suo ruolo per passo e caratteristiche (tende ad accentrarsi e rifinire più che saltare l’uomo) e l’incongruenza risulta ancora più marcata se dietro di lui agiscono l’onesto Hallfredsson, coi suoi pregi e difetti di sempre, il generoso ma offensivamente impalpabile Agostini (un cross dal fondo in 90 minuti) e dall’altra parte Gomez, volenteroso ma a cui non puoi chiedere di fare la differenza alla voce “fantasia”. Ecco allora che la frittata è servita: Verona troppo prevedibile.

Teniamoci dunque stretta la vittoria, con una considerazione finale: quattro punti in due partite, ciononostante qua e là affiora un filo di malcontento. Strano, ma non troppo: quest’anno le aspettative sono maggiori.

BELLA SENZ’ANIMA

Tutto senza allegria, senza una lacrima”. No emotions, è il calcio di oggi. Anzi forse il football moderno, a differenza della cocciantiana “Bella senz’anima”, non è neppure bello (partite imbarazzanti nella prima giornata di campionato); ma l’anima, questo è sicuro, se l’è venduta al diavolo. Il resto è venuto di conseguenza, trasformando uno sport in un marchio (quasi) fine a se stesso. Nostalgia canaglia di chi ha vissuto gli anni ’80 e ’90? Forse. Snobismo a metà tra disincanto e rassegnazione? Probabile. Eppure, credo, ci sia anche qualcosa che va oltre l’inflazionato filone del “si stava meglio quando si stava peggio”.

Chi scrive sa benissimo che in passato non era tutto romanticismo, anzi. L’ombra del doping negli anni ’70, il Totonero del 1980, i due punti a vittoria che spesso erano la molla per accomodare diverse partite in un pari (il buffoniano “meglio due feriti che un morto” ante litteram), dirigenti già allora “chiacchierati” quando Moggi era solo un allievo di Italo Allodi, i ritmi blandi di gioco e le eterne manfrine in campo.

Ma c’è una differenza decisiva: in passato il business, per quanto importante, rimaneva comunque e sempre un passo indietro rispetto allo sport e all’agonismo; e la corruzione era in un certo senso “naif”, paternalistica, cioè frutto di iniziative individuali e di sistemi quasi arcaici se non improvvisati. A rileggere adesso “Nel fango del dio pallone” di Carlo Petrini, che spiega il sistema delle scommesse a fine anni ’70, viene quasi da sorridere confrontandolo con quanto è emerso dagli scandali degli ultimi anni.

Oggi invece il business prevarica totalmente la sfera sportiva, che anzi sembra quasi un impiastro, una convitata da tollerare giusto per mantenere le apparenze. E’ questo il passaggio determinante: gli affari da dignitosi e legittimi comprimari sono divenuti gli arroganti protagonisti, anzi gli “one man show” di un sempre più delirante monologo. Comandano le pay tv e i grandi sponsor, presidenti e dirigenti sono solo controfigure che (felicemente) si adeguano.

Così cambiano gli usi e i costumi, le priorità, e persino le parole. Succede allora che un termine commerciale come “brand” venga applicato tristemente a un club sportivo senza che ci si renda conto di quanto grottesca sia la cosa. La parola “immagine” è tutto e dappertutto, ma John Lennon purtroppo non c’entra. Identità e appartenenza sono solo concetti di retroguardia per vecchi tromboni nostalgici. Le multinazionali – della tv o dell’abbigliamento poco importa – si sono prese tutto e omologano tutto, ché ormai non si capisce più chi è chi. Le interviste e il racconto giornalistico sono specie in via d’estinzione, tutto viene racchiuso e pianificato in inutili e stantie conferenze stampa che non dicono niente. Il resto è gossip. Il resto sono (scadenti) recite di attorucoli (quasi) tutti con le stesse pettinature, le stesse cuffie, gli stessi tatuaggi, le stesse donne e, nel pre e post partita, le stesse gravi e seriose espressioni da entrata e uscita in sala operatoria (ma giocano a calcio od operano a cuore aperto?). Il resto sono le facce grigie come i loro completi sartoriali e mai sorridenti di dirigenti in poco geniale parata. Il resto sono giornalisti specializzati in calciomercato – cioè niente, quindi tutto in quest’epoca – per 365 giorni l’anno, cantori del calcio virtuale, un po’ come se qualcuno ci volesse convincere che scopare su internet è più bello.

Infine ci sono i tifosi, trattati come polli da batteria, consumatori da blandire e mungere, da sballottare con partite in giorni e orari sempre più improbabili e – se è il caso – da punire con regole e sanzioni demenziali, in nome di un politicamente corretto oramai surreale quanto inutile (si puniscono i cori dentro lo stadio, ma poi le vere tragedie succedono fuori, vedi Raciti a Catania e Ciro Esposito a Roma). Già i tifosi, gli ultimi giapponesi a difesa della sola verità del calcio. Verità popolare, col suo pathos e non il suo ethos, le sue rivalità e le sue differenze. I tifosi, spesso capri espiatori per lor signori, in realtà l’unica àncora di bellezza che può salvare il mondo (del calcio). Qualcuno lo metta in testa ai padroni del vapore, che con il loro bulimico business hanno intristito tutto. Qualcuno dica loro che la maionese sempre più impazzita che ci propinano sta andando a male. Qualcuno li avverta che la “bella senz’anima”, a forza di cambiare letti e uomini, è rimasta sola.   

CON SAVIOLA ADDIO VECCHIO MODULO?

Javer Pedro Saviola Fernàndez. Tanti nomi quante le maglie pesanti vestite in carriera. Alzi la mano chi lo aveva pronosticato. Si faccia avanti chi lo avesse anche solo pensato. La verità è che i colpi a sorpresa last minute di Sogliano ormai sono come i regali di Natale. Sai che ogni anno li troverai sotto l’albero, ma non sai cosa ci sarà dentro. Saviola non era mai stato accostato al Verona nella lunga sessione di mercato, idem Bonaventura, sfumato e passato al Milan solo per il rifiuto di Zaccardo di firmare per il Parma in cambio di Biabiany ai rossoneri. Anche le operazioni Iturbe (un anno fa) e Cacia (2012) furono un fulmine a ciel sereno. L’auspicio, ovviamente, è che Saviola possa ripetere le gesta dei suoi due predecessori “just in time”.

Di certo il blitz soglianesco è di quelli pesanti. Come il passato dell’ex enfant prodige di Buenos Aires, che a prima vista sembra più vecchio dei suoi non ancora 33 anni (li compie a dicembre) – quattro in meno di Toni e due di Rafa Marquez. Il fatto è che Saviola ha avuto un avvio di carriera (fin troppo) precoce. Nel ’99, a 17 anni e mezzo era già campione affermato nel River Plate. Due anni dopo, assieme al compagno (e coetaneo) D’Alessandro, erede designato di Maradona. Nel 2001 mister 50 miliardi – la cifra per cui venne ceduto al Barcellona – e campione del mondo under 20, nonché capocannoniere di quel mondiale. Poi tre anni straordinari nel Barca e il coronamento con l’Argentina dell’oro olimpico ad Atene 2004.

Saviola è stato grandissimo sino a lì, “solo” grande per altri due anni (2004-06) fra Monaco e Siviglia, dove vinse la Coppa Uefa con 5 gol in 12 partite. Poi si è “normalizzato”. Si fa per dire ovviamente, perché se fino al 2012 giochi ancora con Barcellona, Real Madrid e Benfica proprio normale non sei. E non sei normale neppure se nelle ultime due stagioni segni venti gol tra Liga e campionato greco e giochi 11 partite realizzando 3 reti in Champions League, dove prima sfiori la semifinale col Malaga (2012-13) e l’anno seguente i quarti con l’Olympiakos (2013-14).

Questo dà l’idea del giocatore che ha ingaggiato il Verona. Un ex fuoriclasse, più di Toni e di Rafa Marquez; ma tutt’ora campione, come Toni e Rafa Marquez. Un campione vero e non una scolorita figurina venuta a svernare come qualcuno ha impudicamente azzardato. 

L’incognita semmai è un’altra e, se vogliamo, non di poco conto. E’ possibile inserirlo nel tradizionale quadro tattico mandorliniano? Il 4-5-1 del tecnico ravennate, costruito su un unica punta e due esterni-tornanti, poco si addice alle caratteristiche di seconda punta di Saviola, che pure, al pari di Toni e Marquez, sarà difficile immaginare in panchina. Cambio di modulo in vista?

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COSA MANCA?

Ricordate l’adagio del vecchio Trap? Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco. Ecco, ogni giudizio sul Verona è volutamente sospeso, anche se la squadra vista ieri sera ha già una sua fisionomia. Ma il calciomercato è ancora aperto e Sogliano sta lavorando su obiettivi che – a leggere i nomi – non sarebbero solo ritocchi all’esistente. Si cerca un giocatore per reparto, forse addirittura due in attacco. Come dicevamo, mica pizza e fichi. Certo, mancano pochi giorni alla Coppa Italia e meno di due settimane all’esordio in campionato, quindi qualche considerazione qua e là è legittima.

In attesa dei rinforzi, Mandorlini ha già trovato grosso modo l’undici titolare con cui iniziare la stagione. Con la Cremonese credo non si discosterà troppo dalla squadra vista ieri nel primo tempo con lo Shackhtar, con Obbadi ripiegato temporaneamente davanti alla difesa per le squalifiche di Tachtsidis e Donati, e Christodoulopoulos interno destro. A Bergamo invece potremmo vedere Taxi riprendere il suo posto da metodista, con l’ex Monaco rimesso interno e Christodoulopoulos nel tridente a sinistra. E, ovviamente, l’inserimento in difesa del tanto atteso Rafa Marquez. Ed è questo il copione tattico che ha più convinto Mandorlini sinora, come ha ammesso lo stesso tecnico ieri sera: “Lazaros lo preferisco nel tridente, Obbadi davanti alla difesa non ha mai giocato”.

Certo, manca ancora qualcosa. Tutti indicano la mezzapunta che salti l’uomo. Il fu Iturbe per intenderci. Vero, davanti siamo un po’ carenti in imprevedibilità e Chanturia non ha passato l’esame. Qualcuno lì arriverà (Lopez, Evangelista, forse un sorpresone). Eppure la vera lacuna a mio avviso è l’assenza di un vice Toni all’altezza, che possa anche giocare al suo fianco. Insomma, il Paulinho che avrebbe dovuto essere. Nené (per ora) non convince e pur augurando lunga vita al bomber di Pavullo, che se sta bene è ancora il numero uno, il gioco di Mandorlini passa per l’attaccante centrale ancor di più che per gli esterni d’attacco. Tradotto: se dovessi spendere lo farei lì.

Altro perno nel 4-1-4-1 mandorliniano è il centrocampista centrale. Tachtsidis è in progresso, ma il suo apporto non è ancora sufficiente. E Donati, non me ne voglia, pare l’ombra del giocatore che a vent’anni passò a suon di miliardi al Milan. Spero che Taxi esploda, ma in quel ruolo, per sicurezza, l’asticella va alzata, non con un fenomeno, basta un giocatore di categoria.

Attenzione, gli appunti che muovo sono legati a quello che è intimamente l’obiettivo della società: non solo non retrocedere, ma ripetere il campionato dello scorso anno e consolidarsi come media realtà del calcio italiano (quindi decimo posto finale, colonna sinistra della classifica). Perché la squadra, già così, è sufficientemente competitiva per non arrivare tra le ultime tre. Ma Setti, mi pare di capire, non è uomo da accontentarsi di una risicata salvezza.

IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE?

Quelli che va sempre tutto bene e “basta solo qualche ritocco”. Quelli invece che vedono nero perché, a loro dire, “hanno comprato degli scarti”. Quelli che… a prescindere, come diceva Totò. In mezzo… i fatti, questi sconosciuti. Come ho scritto una settimana fa, il Verona è una squadra ancora a metà, cioè in costruzione, eppure sta cominciando a delinearsi un gruppo, una spina dorsale. Ne ho avuto conferma ieri a Trento. L’impressione? Al momento siamo una buona rosa (con un parco riserve migliore rispetto alla stagione scorsa), ma una cattiva squadra (troppe caselle mancanti tra i titolari).

Sogliano sinora ha operato soprattutto per rinforzare le seconde linee, non trascurando contestualmente, ove possibile, di piazzare qualche colpo di rilievo. Tre in particolare: Obbadi e Lazaros, mezze ali in grado di assemblare insieme un centrocampo più tecnico e imprevedibile rispetto allo scorso anno; e Luna, terzino sinistro molto offensivo, considerato prossimo al salto di qualità. E gli altri? Scommesse intriganti (Valoti, Gollini e Zampano, ma anche Tachtsidis), incognite (Martic) e comprimari di categoria (Rodriguez, Nené e Ionita). E questo, è chiaro come il sole, non basta.

Rimangono infatti delle falle aperte in alcuni ruoli chiave. Servono 4-5 innesti. Uno o due esterni di fantasia (“qualche calciatore in grado di darci imprevedibilità” diceva ieri Mandorlini) che sostituiscano Iturbe e Marquinho, pur non volendo sminuire Gomez (che i suoi gol li farà) e Jankovic. Un terzino destro. Un forte centrale difensivo, che sia il punto di riferimento per uno tra “Superman” Moras (un abbraccio al fratello e alla famiglia), Marques e Rodriguez. E un mediano davanti alla difesa, perché lì il solo Tachtsidis non basta. Taxi a Verona può consacrarsi e questo è l’auspicio, ma ad oggi in serie A rimane un’incompiuta e il suo – è bene sottolinearlo – è il ruolo più importante della squadra (la partenza di Jorginho è sempre lì a ricordarcelo).

Sogliano sa e agisce, e infatti sta trattando giocatori “che contano” in tutti i reparti. Rafa Marquez per la difesa, il centromediano Susic e il fantasista Nico Lopez sono nomi di spessore e noti da tempo. Magari non saranno loro a vestire il gialloblu, forse ne arriveranno altri, poco importa. Quei nomi danno l’idea della fascia di mercato a cui si sta rivolgendo il Verona: quella di un club di medio livello che punta a un campionato tranquillo e non certo a una salvezza al fotofinish con altre 5-6 squadre. L’irrequietezza del ds (“non mi accontento di comprare tanto per fare, ma voglio portare qui chi dico io”) e la malcelata smania di Mandorlini (“sappiamo dove dobbiamo intervenire”) si spiegano così. Che il meglio debba ancora venire?

P.S. Mi trovate su fb qui sotto per parlare tutti insieme del Verona.

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IMPRESSIONI: UN VERONA A META’

Mutazioni genetiche. Una volta in ritiro valutavi il lavoro di un allenatore, oggi la preparazione è il termometro dei direttori sportivi. Vale per molte, vale anche per il Verona, che contro il Rubin Kazan si è mostrato (ancora) largamente incompleto.

Non giriamoci intorno: se la squadra è quella del primo tempo c’è da aver paura. La difesa Martic-Gonzalez-Marques-Agostini e il suo scudo protettivo Donati non danno garanzie. Ok sarà la pesantezza della preparazione, gli equilibri da trovare e bla bla bla… Sarà quel che sarà cantava la Rivale, ma il reparto arretrato titolare va totalmente rinnovato. Lo diciamo da tempo e lo confermiamo: nella rosa, ma come riserve, meritano di restare i soli Agostini, l’ancora assente Moras e forse Marques e Zampano. A parte Bianchetti, che va valorizzato e quindi mandato a giocare, gli altri non sembrano all’altezza. 

Meglio – decisamente – nella ripresa, cogli ingressi del bravo Tachtsidis (che si può rilanciare, ma che rimane pur sempre una scommessa in A, fossi Sogliano penserei comunque a un’alternativa) e soprattutto dell’ottimo Obbadi (ma si sapeva) schierato nel suo ruolo naturale di interno destro (da mediano sarebbe sacrificato) che l’ha rivelato nel Monaco. Mi è piaciuto Valoti, trequartista che permette di passare al 4-3-1-2, mentre Gomez è una conferma ovunque lo metti.

In attesa di Lazaros, interno sinistro di ruolo, ma all’occorrenza anche trequartista o esterno d’attacco, che sulla carta rimane sinora l’acquisto più importante con Obbadi, va rivisto Sala, che forse nel nuovo Verona potrebbe essere più convincente spostato qualche metro avanti, all’ala destra, ruolo dove potrebbe liberare la sua qualità migliore (la corsa) e dare anche quella copertura che un esterno d’attacco classico non garantirebbe, in modo da avvicinare alla porta l’altro esterno (la X titolare da comprare, o in alternativa Gomez). Rimandati per ora i tanto acclamati dalla stampa Chanturia e Jankovic, volenterosi ma un po’ impalpabili.

Insomma, work in progress e fiducia in Sogliano, ma metà Verona rimane da costruire.

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