IL CUSTODE DELLO STADIO E’ BORDIN

“Il Verona è talmente forte che potrebbe allenarlo anche il custode dello stadio” sentenziò qualche mese fa a Sportitalia l’ex diesse Mauro Gibellini. Una sparata a salve. Un sarcasmo tendenzioso nelle intenzioni, ma innocuo nelle conseguenze, e che affermava l’ovvio: nel calcio i giocatori contano più dell’allenatore.  Noi zitelle acide, anziché derubricare un’uscita del genere con una sonora risata, o con l’indifferenza,  la prendemmo a male. Si sa il calcio è religione e i suoi protagonisti Dei nell’Olimpo. Così si scatenò l’inferno e montò la polemica.

Mandorlini – checché se ne dica – non è Mourinho e sprovvisto dell’ironia pungente del portoghese (“Lo Monaco chi? Io conosco Bayern Monaco, Gran Premio di Monaco, Monaco di Tibet”) si offese non poco e attaccò frontalmente  il Gibo. Alcuni tifosi – i più brillanti oserei dire, e di sicuro astemi – si scatenarono sostenendo con un fine sillogismo che “Gibellini è un ubriacone perché gli piace bere” (un delitto, si sa). Come dire che una ragazza è zoccola perché le piace scopare.

Ma sono quisquillie, avrebbe detto Totò, e ognuno si tenga la propria opinione. La verità è che siamo stati tutti un po’ ottusi in questa storia. Guelfi, Ghibellini e svizzeri (nel senso di neutrali). La polemica infatti ci ha reso ciechi, in primis noi addetti ai lavori. Presi dal contestare, o dall’analizzare il match verbale Gibellini vs Mandorlini, con rispettivi tifosi al seguito, ammantati di amore verso l’uno o l’altro, gravidi di moralismo sul senso di opportunità della chiosa e della replica, abbiamo perso di vista la notizia. Il “fantasma” del custode dello stadio in realtà da tempo si annidava e aleggiava silente negli spogliatoi e anche in panchina, un po’ come Robert Redford finto carcerato in Brubaker. Salvo poi rivelarsi all’improvviso, come una verità solenne, col bottino in mano:  undici punti in cinque partite. Il custode dello stadio è Bordin, ora è ufficiale. Che Gibellini lo sapesse già?

“LA MAGLIA GIALLOBLU'”: UN VIAGGIO NELLA STORIA

Definire “La maglia gialloblù” solo un libro sarebbe riduttivo, per l’amore e la cura dei dettagli messa dagli autori, il giornalista Matteo Fontana, il fotografo Gianluigi Rossi, il collezionista William Sembenini e il deus ex machina di tutto Massimiliano Tezza,  una vita in curva sud nel cuore del tifo più caldo. Non è nemmeno un almanacco, termine nobile ma un tantino asettico, e quindi inadatto, per quello che è prima di tutto un vero “viaggio” nella storia del Verona.

Un “viaggio” perché grafica, foto d’epoca, testi e impaginazione imprimono a “La maglia gialloblù” una dimensione romantica, il fascino di un disco vintage, il calore di un juke box, o la rarità di un mobile antico. Un’opera itinerante lungo 110 anni di vita del primo club cittadino, raccontata attraverso le maglie (tutte originali quelle fotografate e riportate, un lavoro di ricerca non da poco), attrici protagoniste e al contempo testimoni e voci narranti di una storia fatta di molto altro. L’età pioneristica, il dopoguerra e le prime stille di organizzazione professionistica portate da imprenditori quali Chiampan padre e Mondadori negli anni 50. Le grandi vittorie (lo scudetto, le coppe, gli anni ’80) e le autentiche leggende (le maglie e i personaggi degli anni ’70 meritano un cenno a parte), ma anche, da contraltare, i periodi anonimi, o peggio burrascosi.

Interessanti anche gli intrecci che fanno da sfondo al “viaggio”: il cambio della moda e degli stili negli anni, dall’affascinante ed eterno minimalismo degli anni ’70 (collo a V giallo e maglia blu slavato), agli sponsorizzati ’80, coi gioielli dell’Adidas (maglie simili di anno in anno ma con finezze ogni volta diverse) e l’avvenirismo della danese Hummel. Dopodiché la tradizione, e spesso anche l’estetica, sono state travolte dalle logiche del marketing, con la Errea capace nel giro di un anno di disegnare una delle maglie più orrende (98-99) e una delle più belle (99-00) della storia. Fino agli anni recenti, dove fortunatamente si sta recuperando un po’ di buon senso, sebbene la strada per riavvicinarsi allo stile che fu è ancora lunga.

Per sapere dove trovare “La maglia gialloblù” potete consultare la pagina di facebook “la maglia gialloblù”, o scrivendo a  lamagliagialloblu@gmail.com.

E voi a quale maglia, o stagione siete più affezionati?

 

 

 

CALCIOMERCATO: I DIRIGENTI “INGRASSANO”, I TIFOSI SOGNANO

Dialogo da mal di testa All’AtaHotel Quark di Milano. “Ti cedo Tizio in prestito”. “Ok ma voglio il diritto di riscatto, sai com’è…”. “Bah, al massimo posso concedertelo per la metà”. “E se facciamo che me lo dai in comproprietà subito ma con pagamento dilazionato in piccole rate, e sul prezzo ci mettiamo anche Caio, che non ti serve ma ci crea la plusvalenza fittizia?”. “Si può fare ma prima devo parlare col club che detiene l’altra metà del cartellino, sai il giocatore è già in comproprietà”. Le strane (e discutibili) formule tutte italiane del calciomercato. Formule che alimentano l’industria “rotondolatrica” (cit. Beha), ingrassano procuratori e direttori sportivi, danno lavoro a imprecisati intermediari e risanano (non si sa come) i bilanci virtuali di molte società. Una bulimia di compravendite, o di scambi che arricchisce gli addetti ai lavori, fa impazzire i siti internet (anche e soprattutto i meno credibili, che pur di arrivare prima alla notizia e quindi al “clic” dell’utente, ne danno una sbagliata) e fa sognare i tifosi, che non fanno in tempo imparare i nomi dei nuovi beniamini, che questi diventano già vecchi.

Ma poco importa, il calciomercato fa sognare. E, come lo shopping, rilassa. Se ne discute alla macchinetta del caffè, magari anche col capo che chiude un occhio sulla pausa prolungata, salvo poi tornare tutti in ufficio e per prima cosa sbirciare internet di sottecchi alla ricerca di nuove notizie (o bufale, of course) da riportare al collega alla prossima pausa caffè. Se ne parla coi vicini di casa, e ringraziamo Dio, ché sennò l’alternativa sarebbe un imbarazzante silenzio con nervoso giro di chiavi per tutto il viaggio in ascensore. Il calciomercato per noi tifosi rappresenta ogni volta un po’ quel tornare bambini, i soldi falsi del Monopoli, o gli alberghi in cartone di “Hotel”, le vacanze e la Gazzetta ancora “fresca” comprata dal papà prima di raggiungere la spiaggia, e quella frenetica ansia nell’aprirla per vedere se il Verona aveva spostato qualche tassello dall’illusoria casella “trattative” alla più realistica “acquisti”.

Certo, spesso noi fedelissimi gialloblù siamo rimasti delusi, talvolta nemmeno illusi (il ché forse è peggio). Ricordo però quella (presunta) fantasmagorica campagna acquisti dell’estate del 1991, col Verona del paron Mazzi e Genio Fascetti neopromosso, ma con dichiarati sogni di Uefa. Arrivarono giocatori forti da grandi squadre come Renica, il fresco campione d’Italia Luca Pellegrini, Celeste Pin e soprattutto la stella Stojkovic. L’ultimo tassello mancante, ricordo, era una punta e i giornali – in attesa della firma di qualcuno – “titolavano” quotidianamente i campioni più disparati, ogni giorno uno diverso: dal bomber tedesco Ulf Kirsten ad, addirittura, Gianluca Vialli. Anni dopo Mazzi racconterà che aveva bloccato un certo Batistuta, ma Fascetti allergico ai sudamericani rifiutò il giocatore. Arrivò Raducioiu e sappiamo come andò a finire. Perché il calciomercato spesso è questo, un serpente incantato, un pifferaio magico, un eterno primo appuntamento. Un effimera ma bellissima illusione.

PERCHE’ SETTI HA PRESO IL VERONA?

In principio fu Ranzani. Così definii Maurizio Setti la scorsa estate, all’inizio della sua esperienza da presidente del Verona (http://blog.telenuovo.it/francesco-barana/2012/05/24/ma-e-setti-o-ranzani/). Mi ricordava neanche troppo vagamente il personaggio inventato da DJ Angelo e Albertino per Radio Deejay prima, e Zelig poi. L’imprenditore rampante venuto dalla provincia che tenta di introdursi  nel jet set, un simpatico “son e ho tutto io” un po’ smargiasso e un po’ pacchiano.  Mi divertiva di Setti quell’aria un po’ stereotipata da “self made man”. Slang e vestiti da per forza “ggiovane”, eloquio deciso, ma condito da un italiano stentato, accenno di barbetta fighetta, jeans a tubo aderenti o pantaloni colorati, camicia inamidata bianca e obbligatoriamente sbottonata, con vistoso catenone d’ordinanza al collo (mancava un po’di pelo, ma adesso va di moda la ceretta). A confortare e rafforzare l’archetipo c’era pure l’elicottero privato, il porsche Cayenne, la logorrea sfiancante e quel tocco da uomo di mondo super impegnato racchiuso – nella sua massima accezione – nello spettacolare: “Scusi Vighini sentiamoci dopo che sono in riunione”.  Appunto un Ranzani in salsa nostrana, o se preferite il mitico Cummenda Zampetti dei “Ragazzi della 3 C”.

Volevo giocare sull’ironia, perché ogni inizio (che sia professionale, sentimentale, o di vita) va salutato con la leggerezza dovuta. L’inizio, appunto. Poi le domande è doveroso farsele e farle, senza curarsi della presunta pesantezza. Setti ho cominciato a studiarlo, a notarne le decisioni, carpirne i silenzi, seguirne le evoluzioni e le involuzioni. Già, perché un cambiamento c’è stato nel Nostro. Alla sua bulimia mediatica dei primi tempi, ha fatto seguito un lungo periodo di silenzio (su per giù dai cori su Morosini, alla cena di Natale). Più in generale c’è stato un cambio di atteggiamento nel numero 1 di Via Torricelli, che ha sposato un basso profilo che caratterialmente non gli appartiene, lui sanguigno passionale. Un minimalismo quasi forzato, dando l’impressione di una certa “distanza”. Perché?

Girano tante voci a Verona sulla composizione del pacchetto di maggioranza dell’Hellas Verona. Probabilmente sono solo chiacchiere, ma verso i tifosi che per anni hanno dovuto sorbirsi l’opacità pastorelliana (figli procuratori, l’ombra di Tanzi, le chiacchiere sulla società satellite del Parma ecc.)  un po’ di trasparenza non guasterebbe. Perché Parigi val bene una Messa e a tutti ci piace la serie A (e Setti va ringraziato per gli investimenti corposi), ma noi veronesi siamo formiche e non cicale, amiamo fare il passo secondo la gamba, con la dovuta lungimiranza. E anche Pastorello, il primo anno, ci ha portato in A.

Perché Setti ha preso il Verona? La risposta “per passione” ci piace, ma forse non è sufficiente. Il libro “Fuori gioco” di Gianfranco Turano (edizioni “Chiarelettere”) spiega i ritorni economici che hanno dal calcio dieci presidenti di serie A, i più importanti. Chissà magari tutti gli altri lo fanno per passione, sebbene io non abbia mai conosciuto imprenditori filantropi (forse a modo suo il povero Conte Arvedi), ma così non fosse quale sarebbe il ritorno economico di Setti? Qualcuno afferma: i diritti televisivi in caso di serie A, perché il Verona per le pay tv vale dai 30 ai 40 milioni. Bene, ma pensate che le spese di gestione sarebbero tanto inferiori? Leggo su Larena.it del 23 agosto 2012 che Actress Industry, la holding di Setti, fattura 70 milioni di euro. Pochi o tanti per un imprenditore che si butta nel calcio? E quanti ne ha spesi Setti finora per la società? Modeste domande col solo intento di capire. A quando una risposta?

LA LEADERSHIP DI SOGLIANO

Giorni di pensieri. Maurizio Setti ha rimurginato, riflettuto, discusso.  Poi ha delegato. Sean Sogliano, seguendo le linee guida del presidente, ha agito e ordinato. Nel segno di Vasco Rossi e di una sua vecchia canzone, nemmeno tra le più famose: “Cosa c’è”. Vasco quasi esortava, tra il pessimismo della ragione  e l’ottimismo della volontà: “Quando tocchi il fondo vieni su, vieni fuori oppure non ci vieni più”. Setti e Sogliano devono essersela ripetuta infinite volte, come un mantra, quella frase, dopo Empoli e un pareggio acciuffato per il rotto della cuffia, a fronte di una prestazione pessima, seguita a quella quasi identica con la Juve Stabia. Non si è fatto ingannare dai 4 punti conquistati (comunque sia un buon bottino), il presidente.  Ha capito al volo che l’Hellas stava prendendo una brutta piega, mentre le rivali Sassuolo e Livorno volavano ad ali spiegate. E ha dato ampio mandato a Sogliano, che decisionista di natura non ci ha filosofeggiato su.

Ha deciso il lungo ritiro pre Modena, il d.s, nonostante la contrarietà dell’allenatore. Non solo, nel lungo summit con squadra e mister ha compattato il gruppo. Nessun alibi di sorta ai giocatori: avanti con Mandorlini, anche in caso di sconfitta col Modena, è stato il messaggio lanciato a uno spogliatoio con qualche crepa di troppo. Il mister in cambio della fiducia si è impegnato ad ampliare le consultazioni con Sogliano anche sulla gestione tecnica. Un commissariamento? No, una collaborazione più ampia, che tuttavia sottolinea un fatto: il diesse figlio d’arte è sempre più al centro delVerona. Per un cambio di rotta.

 

MANDORLINI NON SI PRESTI A QUESTO GIOCO

Quel vecchio prete in confessionale, buffetti sulla mano a ogni peccato da me sciorinato e la solita sentenza preconfezionata: “Venti Ave Maria per penitenza”. La colpa? Qualche imberbe imprecazione e la ovvia masturbazione.

Giornate a fissare i vigneti dall’altra parte del cortile, visuale monotona dal solito angolino della classe vicino alla finestra, dove espiare ore eterne di castigo per un terribile misfatto: aver spiato le intimità di una compagna di classe.

“Scrivi cento volte la definizione del teorema di Pitagora” mi intimò e obbligò un giorno lontano la maestra. Cara Giordana, inutili velleità pedagogiche le Sue, di quel maledetto teorema non ricordavo nulla allora e non ricordo nulla ora.

Scene di un passato che fu, che ritorna e che mi strappa pure un sorriso (perché alla leggerezza delle belle cose inutili della vita dovremmo confinare il calcio) nel leggere della sanzione (previo patteggiamento) inflitta dalla Disciplinare del Settore Tecnico a Mandorlini. Squalifica fino al 31 gennaio, 20mila euro di multa e stravagante pena accessoria, o se volete “redentoria”, sebbene siamo a Natale e non a Pasqua: dichiarare nelle interviste pre e post gara delle sette partite successive alla squalifica che lui (Mandorlini) crede “nei valori sportivi di lealtà…” e altre balle varie. Il tutto per riparare – con ipocrisia pacchiana a favor di telecamera – a quanto di più innocuo e genuino abbia mai dichiarato: che i livornesi sono suoi nemici. Roba forte, insomma.

Sarcasmo a parte, chissenefrega! esclamerebbe un cittadino di un Paese normale. In un Paese normale, infatti, ognuno ha il diritto di odiare e amare chi vuole. “Odio e amore non sono categorie politiche”, scrive Massimo Fini. Ma come scriveva Giorgio Bocca siamo diventati il Paese del sottosopra, dove, aggiungo io, il buon senso è stato sopraffatto dalla paranoia, i più elementari principi liberali dallo Stato etico, o presunto tale, che non si limita a condannare, ma vuole pure insegnarci come vivere, a noi che non contiamo nulla ovviamente. Coi manovratori, i presentabili e gli allineati invece il “sistema” si trasforma subitaneamente: smette gli abiti pedagogici per indossare quelli complici.

E’ così in politica: qui i politici condannati siedono in Parlamento, un pluriprescritto e amnistiato per reati finanziari (quindi soldi pubblici) è stato per anni Presidente del Consiglio e un prescritto per mafia è senatore a vita. Ciononostante, criticare il Capo dello Stato è lesa maestà a prescindere, anche se lo stesso chiede alla Consulta di distruggere le sue intercettazioni con un ex ministro e senatore coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-Mafia.

E’ così, di conseguenza, nel calcio, che di politica è permeato. Mazzarri e Cavani del Napoli possono esprimere solidarietà a Cannavaro, che taceva nonostante sapesse di partite vendute (fatto oggettivo). Mentre Mandorlini non può odiare e amare chi gli pare (fatto soggettivo). Anzi, per salvare il salvabile (evitare una squalifica e una multa più pesante) è costretto suo malgrado scendere a patti, coprendosi anch’egli di ridicolo.  E’ sicuro di volerlo fare? Ne ha tutte le umane ragioni, ma allorché la tragedia si trasforma in farsa, la dignità val più di qualche migliaia di euro e di una squalifica.

MORIREMO DI GRATITUDINE?

“Stiamo calmi”. “Il campionato è lungo”. “E’ colpa dei giocatori”. “Ma siamo agli ottavi di coppa e andiamo a San Siro”. “Il mister non si discute a prescindere perché è uno di noi”. “Se avessimo vinto nessuno muoverebbe una critica” (sentita anche questa, giuro). “Sassuolo e Livorno non tengono” (sarà…). Frasi trite e ritrite quando non si vince. Poi capita che vinci (con l’Ascoli, non col Real) e allora i fans si scatenano. Non vedono l’ora, pare. “Merito di Mandorlini che è uno di noi”. “I gufi sono serviti”. “Sassuolo e Livorno crolleranno” (aridaje).

Moriremo di gratitudine?

BEATA EMERGENZA

La routine uccide, la precarietà guarisce. Applico questo (mio) principio al Verona di oggi. Ricordando ancora ciò che disse qualche anno fa Serse Cosmi (che non amo) raccontando le gesta del suo Perugia: “Lo plasmai nell’emergenza, spesso le grandi idee degli allenatori nascono dalla necessità”. Nell’emergenza Mandorlini ha trovato, forse (nel calcio, si sa, sempre meglio convivere col beneficio del dubbio), il bandolo della matassa. Le numerose assenze in mezzo al campo (Laner, Jorginho e Martinho in un solo colpo), unite all’intelligenza (tardiva? non importa) nel saper ascoltare (non la critica, ma la società), hanno convinto l’allenatore a cambiare l’assetto tattico. Il Verona di oggi si è presentato al cospetto del più modesto Ascoli con un 4-4-2, o 4-2-4 che dir si voglia, smaccatamente offensivo, al posto del solito 4-5-1. Mera questione di numeri? No, di coerenza. Coerenza rispetto al progetto di mercato di Sogliano, votato a una squadra più spregiudicata e disposta in un certo modo. Oggi il Verona schierava Gomez, Grossi e due punte come Cacia e Bojinov. Di conseguenza ne ha beneficiato il gioco di Gomez, aiutato dall’avere due riferimenti davanti e non il solo Cacia, di Halfredsson e dello stesso Bacinovic, la cui storia (e non la penna della critica) ricorda come non sia mai stato un “4” da centrocampo a tre. Bene anche il troppo trascurato Albertazzi, talento in erba. Coi rientri dei due intoccabili Jorginho e Martinho ci sarà da divertirsi.

IL “PECCATO ORIGINALE” DI SOGLIANO

Sarebbe una farsa, se non fosse un “dramma” (sportivo). Perché di mezzo c’è il Verona e un grande equivoco di fondo, che sollevai già la scorsa estate: l’Hellas, per come è stato costruito, rispecchia il suo allenatore? La risposta, dopo 17 partite, è ancora nel limbo del sì, no, forse. E’ lo stesso Mandorlini, tra le righe, a darlo da intendere nel post partita di Brescia ad Alessandro Betteghella: “Questa è sempre una squadra che quando gioca mi piace, forse mi piace troppo, sarebbe meglio mi piacesse di meno, però abbiamo certe caratteristiche”. Ha ragione. Capire quali è fondamentale per cogliere i motivi del perché non siamo (ancora) esplosi.

Si sa, le squadre del tecnico ravennate hanno sempre avuto determinate qualità: ottima organizzazione difensiva, combattività e fisicità in mezzo al campo e ripartenze micidiali. Per non andare troppo lontano, l’anno scorso, a differenza di adesso, il Verona giocava molto in verticale e poco per vie orizzontali. Tachtsidis, oltre alle note doti di interditore, in serie B era il miglior centrocampista nel dare immediata profondità alla manovra. Jorginho probabilmente è il più forte giocatore del Verona, ma ha altre caratteristiche, sontuoso nel palleggio, meno nell’imbeccata. E stiamo parlando del regista, il ruolo nevralgico di una squadra. Non bastasse, come centravanti avevamo Ferrari, scarsetto sotto porta ma con pochi eguali nel difendere il pallone e far salire la squadra, in particolare Gomez ed Halfredsson, i quali risentono molto dell’assenza di Nicola. Cacia, il migliore attaccante della B, ha qualità diverse, è un po’ l’Ibrahimovic della cadetteria, accentra molto il gioco su di se, ripagando coi gol (non fosse per lui quanti punti avrebbe l’Hellas?) ma togliendo qualcosa ai compagni. L’ex Lecce “attacca” subito la porta e tiene  lontano dalla stessa Juanito e Halfreddsson, che partono dal centrocampo e non fanno in tempo ad avanzare. L’argentino e l’islandese, così, preferiscono giocare anch’essi più sul palleggio, rinunciando alle loro caratteristiche di incursori.

Credo che molta della differenza tra quest’anno e lo scorso sia tutta qui. Evidentemente il Verona disegnato da Sogliano è un assembramento di palleggiatori che giocano per Cacia, da cui per forza di cose poi dipende. Ed è altrettanto evidente che Mandorlini ami giocare in modo diverso, meno sacchiano (possesso palla) e più trapattoniano (incursioni verso la porta); meno civettuolo e più garibaldino. Non è questione solo di modulo, ma innanzitutto di anima.  Quella del Verona rispecchia quella del suo allenatore? Sì, no, forse. E’ l’eterno limbo. E’ il peccato originale che ci trasciniamo da luglio. E il meno colpevole di questo, come ho sempre scritto, è proprio Mandorlini.