SETTI IMITI MORAS E ABBRACCI MANDORLINI

Non uso Instagram e non ho l’Iphone.  Le immagini mi scorrono solo nella mente. Le più belle di un sabato bestiale al Bentegodi. Il coro della curva sud “Non vi lasceremo mai. Soli insieme a voi” particolarmente riuscito al 15’ del secondo tempo.  La reazione di un Verona finalmente guerriero e poco civettuolo, come la stagione scorsa. Le parate di un Rafael definito al meglio da Ebagua: “Batman”. E soprattutto quell’abbraccio di Moras a Mandorlini, che cancella una volta per tutte le ambiguità che stanno accompagnando il Verona da inizio torneo. Un po’ meno convincente il greco quando in sala stampa se l’è presa coi soliti “giornalisti cattivi” (sai che originalità!) che hanno osato denunciare ai tifosi le difficoltà e gli alti e bassi del rapporto tra l’allenatore e la società. “Poi i tifosi si fanno idee strane” ha detto Moras. I tifosi hanno diritto di sapere e di manifestare, secondo il principio liberale “conoscere per deliberare”.  Il problema semmai sono le ambiguità. Quindi sia benedetta Novara che ha scoperchiato gli altarini e paradossalmente rinforzato Mandorlini e dunque il Verona. Sia benedetto il Varese, vittima di un Verona finalmente incazzato e compatto, che soffre le piccole ma si esalta con le sue pari. Adesso sarebbe ancora più benedetto Maurizio Setti, se uscisse dal silenzio e facesse come Moras: abbracciare idealmente Mandorlini. Perché Sogliano non basta. Perché momenti di difficoltà da qui a giugno ce ne saranno ancora, ma di ambiguità non ce ne dovranno essere più. Perché se la stampa ha il dovere di criticare e di denunciare, la società deve in primis difendere e legittimare i suoi tesserati, anche pubblicamente.  Certi silenzi pesano più di certe dichiarazioni, specie in certi momenti.

SOGLIANO E MANDORLINI: LA RESA DEI CONTI

Lupus in fabula, Devis Mangia! Il suo nome si sussurra nell’ambiente del Verona da luglio, adesso finalmente compare coi crismi dell’ufficialità. I segreti, del resto, hanno vita breve e le bugie le gambe corte. Scrive Gianluca Di Marzio, uno dei giornalisti più autorevoli in materia di calciomercato: “Mandorlini a rischio dopo la sconfitta contro il Novara. L’idea sarebbe infatti di dare la panchina a Devis Mangia, ora c.t. dell’Under 21”. Il vaso di pandora che si scoperchia, il segreto di pulcinella che diventa pubblico. Insomma, sai che novità!

Tra gli addetti ai lavori è noto: Mandorlini convive con l’ombra di Mangia dal ritiro estivo.  Mangia che, nei piani di via Torricelli, avrebbe dovuto essere l’allenatore del Verona già quest’anno e quasi certamente lo sarà nella prossima stagione. Forse, chissà, potrebbe esserlo già da domani. Personalmente non lo credo e non me lo auguro, perché un esonero a febbraio significa che i problemi di una squadra sono profondi e difficilmente risolvibili. E ne andrebbe di mezzo il Verona che – come ho sempre scritto – conta più di Mandorlini nel bene (quando il mister veniva osannato) e nel male (adesso che lo stesso sembra la causa di tutti i mali). Non mi sono mai piaciuti i “pro” e gli “anti” e odio tutti gli ismi. Detesto gli “ottosettembrini” alla Badoglio e le sindromi da piazzale Loreto. Mi piacciono i fatti  e raccontarli.

Lo scorso giugno Mangia, impegnato nel Supercorso di Coverciano, confidava ai colleghi che avrebbe allenato il Verona del suo mentore Sogliano. Setti aveva già deciso, contratto pronto e ampio progetto, salvo poi frenarsi per quella che potremmo definire comunemente la “ragion di Stato”.  Un assemblement di tante cose:  le pressioni della piazza, quelle della critica, i “suggerimenti” dell’ex presidente e socio di minoranza Martinelli, la prudenza della nuova proprietà nel non voler presentarsi con un gesto impopolare (il licenziamento di un personaggio amato) col rischio di ottenere un effetto boomerang e mettere una bomba a orologeria sul sedere di Mangia medesimo. Da lì la retromarcia, suggellata dal  confronto serrato che ci fu prima del ritiro tra il ds Sogliano, il vero deus ex machina dell’Hellas, e Mandorlini, nel quale il ds fece chiarezza: “Il mercato lo faccio io, tu alleni i giocatori che ti metto a disposizione”. Il risultato? Un matrimonio di interesse e non di amore, e soprattutto con un uomo solo al comando: il direttore sportivo. Sogliano non avrebbe mai accettato commistioni e delegittimazioni come nella precedente gestione, e soprattutto la sua idea era fin da subito una: nello spogliatoio ci metto i “miei” giocatori col “mio” progetto tattico, tu Mandorlini ti adegui. Un matrimonio, in buona sostanza, non paritario, e tra caratteri, valori e ideali incompatibili. Due visioni culturali opposte, ma obbligate a convivere.

Ed è questo, senza ombra di dubbio, il grande equivoco che sta logorando il Verona (bene supremo, ripetiamolo sempre). Lo denunciai già la scorsa estate con due blog che fecero discutere (“Non sopporto Mandorlini ma lo difendo” ed “E’ veramente il Verona di Mandorlini?”) e che molti miei detrattori non capirono, concentrati ottusamente sul “dito” (la mia dichiarata antipatia per Mandorlini, quasi fosse importante) e non sulla “luna” (i fatti, spiegavo come Mandorlini non fosse pienamente legittimato dalla società). Fui facile profeta, ma sai che vanto.

Il punto è che Mandorlini è Sogliano sono due personalità forti, collaborative finché vuoi (la buona volontà ce la stanno mettendo entrambi, domani un altro summit, forse il decisivo), ma incompatibili e poco malleabili.  Sogliano vuole comandare (“non ci ha mai chiesto un parere su un giocatore” diceva qualche mese fa un componente dello staff tecnico), Mandorlini è Mandorlini e l’unica cosa che sa fare è… il Mandorlini, cioè – con questa società e questa squadra – votarsi al suicidio. L’errore di Sogliano in tutti questi mesi invece è stato pensare che Mandorlini potesse cambiare, sottovalutando la sua testardaggine. Risultato? Tira e molla sfiancanti, risultati non soddisfacenti e appunto un grande equivoco di fondo. Da risolvere una volta per tutte, senza mezze misure, domani nel redde rationem tra ds e mister. Delle due l’una: Mandorlini deve essere confermato convintamente, altrimenti meglio esonerarlo. I tempi dei Don Abbondio e degli equilibristi sono finiti.

 

MA ANCHE ELKJAER E’ ANTIMANDORLINIANO?

Anche un trafiletto può fare notizia. Specie se di mezzo c’è Preben Larsen Elkjaer. Su L’Arena di oggi, l’ex “cavallo pazzo” danese degli anni d’oro del Verona parla dell’Hellas attuale: “Seguo tutto da qui (Copenaghen, ndr). La squadra è forte, ma c’è una cosa che mi chiedo sempre. Se il Verona è così forte perché non siamo primi? Il terzo posto non mi sta bene, la prossima volta che mi chiamate il Verona dovrà essere almeno secondo”. Che sia antimandorliano anche Preben? Uno che “rema contro” (espressione da regime, sig)? Uno che non capisce il remissivismo dei più, sintetizzato dal fastidioso low profile del “siccome abbiamo mangiato la merda per anni, ora non dobbiamo criticare e chi critica se ne torni a guardare la Lega Pro”? O forse è un “renso” anche lui, il grande Preben, il quale colto in un afflato di disperata ricerca di visibilità, come un “signor nessuno” qualunque, muove un  appunto al rendimento del Verona?

Elkjaer chiaramente non è nulla di tutto questo. Il più forte giocatore della storia del Verona si è limitato a dire una semplice verità, contro ogni retorica celebrativa molto in voga, ma piuttosto miope. Per qualità tecnica, budget (che comprende anche i lauti stipendi, per la B, di allenatore e giocatori) e aspettative, se il Verona vince il campionato è una cosa normale. Il secondo posto va ancora bene, ma col terzo sono play off, assolutamente da evitare perchè, afferma il danese, “sono un terno al lotto, non sai mai come va a finire”.

Quella di Elkjaer è se vogliamo una lezione: ricordarci cos’è il Verona, che quest’anno è obbligato a vincere. Forse “gli anni a mangiare merda” ce l’hanno fatto dimenticare troppo in fretta, abbiamo abbassato l’asticella delle ambizioni, probabilmente soffriamo un po’ della sindrome della squadretta capitata lì per caso,  del “tutto va bene comunque, se vinciamo tanto meglio”.  La realtà però è diversa: Setti e Sogliano hanno speso e costruito per primeggiare e dominare senza passare dagli spareggi. L’anormalità è essere terzi. Il Sassuolo è vicino, corriamo a prenderlo.

 

 

IL CUSTODE DELLO STADIO E’ BORDIN

“Il Verona è talmente forte che potrebbe allenarlo anche il custode dello stadio” sentenziò qualche mese fa a Sportitalia l’ex diesse Mauro Gibellini. Una sparata a salve. Un sarcasmo tendenzioso nelle intenzioni, ma innocuo nelle conseguenze, e che affermava l’ovvio: nel calcio i giocatori contano più dell’allenatore.  Noi zitelle acide, anziché derubricare un’uscita del genere con una sonora risata, o con l’indifferenza,  la prendemmo a male. Si sa il calcio è religione e i suoi protagonisti Dei nell’Olimpo. Così si scatenò l’inferno e montò la polemica.

Mandorlini – checché se ne dica – non è Mourinho e sprovvisto dell’ironia pungente del portoghese (“Lo Monaco chi? Io conosco Bayern Monaco, Gran Premio di Monaco, Monaco di Tibet”) si offese non poco e attaccò frontalmente  il Gibo. Alcuni tifosi – i più brillanti oserei dire, e di sicuro astemi – si scatenarono sostenendo con un fine sillogismo che “Gibellini è un ubriacone perché gli piace bere” (un delitto, si sa). Come dire che una ragazza è zoccola perché le piace scopare.

Ma sono quisquillie, avrebbe detto Totò, e ognuno si tenga la propria opinione. La verità è che siamo stati tutti un po’ ottusi in questa storia. Guelfi, Ghibellini e svizzeri (nel senso di neutrali). La polemica infatti ci ha reso ciechi, in primis noi addetti ai lavori. Presi dal contestare, o dall’analizzare il match verbale Gibellini vs Mandorlini, con rispettivi tifosi al seguito, ammantati di amore verso l’uno o l’altro, gravidi di moralismo sul senso di opportunità della chiosa e della replica, abbiamo perso di vista la notizia. Il “fantasma” del custode dello stadio in realtà da tempo si annidava e aleggiava silente negli spogliatoi e anche in panchina, un po’ come Robert Redford finto carcerato in Brubaker. Salvo poi rivelarsi all’improvviso, come una verità solenne, col bottino in mano:  undici punti in cinque partite. Il custode dello stadio è Bordin, ora è ufficiale. Che Gibellini lo sapesse già?

“LA MAGLIA GIALLOBLU'”: UN VIAGGIO NELLA STORIA

Definire “La maglia gialloblù” solo un libro sarebbe riduttivo, per l’amore e la cura dei dettagli messa dagli autori, il giornalista Matteo Fontana, il fotografo Gianluigi Rossi, il collezionista William Sembenini e il deus ex machina di tutto Massimiliano Tezza,  una vita in curva sud nel cuore del tifo più caldo. Non è nemmeno un almanacco, termine nobile ma un tantino asettico, e quindi inadatto, per quello che è prima di tutto un vero “viaggio” nella storia del Verona.

Un “viaggio” perché grafica, foto d’epoca, testi e impaginazione imprimono a “La maglia gialloblù” una dimensione romantica, il fascino di un disco vintage, il calore di un juke box, o la rarità di un mobile antico. Un’opera itinerante lungo 110 anni di vita del primo club cittadino, raccontata attraverso le maglie (tutte originali quelle fotografate e riportate, un lavoro di ricerca non da poco), attrici protagoniste e al contempo testimoni e voci narranti di una storia fatta di molto altro. L’età pioneristica, il dopoguerra e le prime stille di organizzazione professionistica portate da imprenditori quali Chiampan padre e Mondadori negli anni 50. Le grandi vittorie (lo scudetto, le coppe, gli anni ’80) e le autentiche leggende (le maglie e i personaggi degli anni ’70 meritano un cenno a parte), ma anche, da contraltare, i periodi anonimi, o peggio burrascosi.

Interessanti anche gli intrecci che fanno da sfondo al “viaggio”: il cambio della moda e degli stili negli anni, dall’affascinante ed eterno minimalismo degli anni ’70 (collo a V giallo e maglia blu slavato), agli sponsorizzati ’80, coi gioielli dell’Adidas (maglie simili di anno in anno ma con finezze ogni volta diverse) e l’avvenirismo della danese Hummel. Dopodiché la tradizione, e spesso anche l’estetica, sono state travolte dalle logiche del marketing, con la Errea capace nel giro di un anno di disegnare una delle maglie più orrende (98-99) e una delle più belle (99-00) della storia. Fino agli anni recenti, dove fortunatamente si sta recuperando un po’ di buon senso, sebbene la strada per riavvicinarsi allo stile che fu è ancora lunga.

Per sapere dove trovare “La maglia gialloblù” potete consultare la pagina di facebook “la maglia gialloblù”, o scrivendo a  lamagliagialloblu@gmail.com.

E voi a quale maglia, o stagione siete più affezionati?

 

 

 

CALCIOMERCATO: I DIRIGENTI “INGRASSANO”, I TIFOSI SOGNANO

Dialogo da mal di testa All’AtaHotel Quark di Milano. “Ti cedo Tizio in prestito”. “Ok ma voglio il diritto di riscatto, sai com’è…”. “Bah, al massimo posso concedertelo per la metà”. “E se facciamo che me lo dai in comproprietà subito ma con pagamento dilazionato in piccole rate, e sul prezzo ci mettiamo anche Caio, che non ti serve ma ci crea la plusvalenza fittizia?”. “Si può fare ma prima devo parlare col club che detiene l’altra metà del cartellino, sai il giocatore è già in comproprietà”. Le strane (e discutibili) formule tutte italiane del calciomercato. Formule che alimentano l’industria “rotondolatrica” (cit. Beha), ingrassano procuratori e direttori sportivi, danno lavoro a imprecisati intermediari e risanano (non si sa come) i bilanci virtuali di molte società. Una bulimia di compravendite, o di scambi che arricchisce gli addetti ai lavori, fa impazzire i siti internet (anche e soprattutto i meno credibili, che pur di arrivare prima alla notizia e quindi al “clic” dell’utente, ne danno una sbagliata) e fa sognare i tifosi, che non fanno in tempo imparare i nomi dei nuovi beniamini, che questi diventano già vecchi.

Ma poco importa, il calciomercato fa sognare. E, come lo shopping, rilassa. Se ne discute alla macchinetta del caffè, magari anche col capo che chiude un occhio sulla pausa prolungata, salvo poi tornare tutti in ufficio e per prima cosa sbirciare internet di sottecchi alla ricerca di nuove notizie (o bufale, of course) da riportare al collega alla prossima pausa caffè. Se ne parla coi vicini di casa, e ringraziamo Dio, ché sennò l’alternativa sarebbe un imbarazzante silenzio con nervoso giro di chiavi per tutto il viaggio in ascensore. Il calciomercato per noi tifosi rappresenta ogni volta un po’ quel tornare bambini, i soldi falsi del Monopoli, o gli alberghi in cartone di “Hotel”, le vacanze e la Gazzetta ancora “fresca” comprata dal papà prima di raggiungere la spiaggia, e quella frenetica ansia nell’aprirla per vedere se il Verona aveva spostato qualche tassello dall’illusoria casella “trattative” alla più realistica “acquisti”.

Certo, spesso noi fedelissimi gialloblù siamo rimasti delusi, talvolta nemmeno illusi (il ché forse è peggio). Ricordo però quella (presunta) fantasmagorica campagna acquisti dell’estate del 1991, col Verona del paron Mazzi e Genio Fascetti neopromosso, ma con dichiarati sogni di Uefa. Arrivarono giocatori forti da grandi squadre come Renica, il fresco campione d’Italia Luca Pellegrini, Celeste Pin e soprattutto la stella Stojkovic. L’ultimo tassello mancante, ricordo, era una punta e i giornali – in attesa della firma di qualcuno – “titolavano” quotidianamente i campioni più disparati, ogni giorno uno diverso: dal bomber tedesco Ulf Kirsten ad, addirittura, Gianluca Vialli. Anni dopo Mazzi racconterà che aveva bloccato un certo Batistuta, ma Fascetti allergico ai sudamericani rifiutò il giocatore. Arrivò Raducioiu e sappiamo come andò a finire. Perché il calciomercato spesso è questo, un serpente incantato, un pifferaio magico, un eterno primo appuntamento. Un effimera ma bellissima illusione.

PERCHE’ SETTI HA PRESO IL VERONA?

In principio fu Ranzani. Così definii Maurizio Setti la scorsa estate, all’inizio della sua esperienza da presidente del Verona (http://blog.telenuovo.it/francesco-barana/2012/05/24/ma-e-setti-o-ranzani/). Mi ricordava neanche troppo vagamente il personaggio inventato da DJ Angelo e Albertino per Radio Deejay prima, e Zelig poi. L’imprenditore rampante venuto dalla provincia che tenta di introdursi  nel jet set, un simpatico “son e ho tutto io” un po’ smargiasso e un po’ pacchiano.  Mi divertiva di Setti quell’aria un po’ stereotipata da “self made man”. Slang e vestiti da per forza “ggiovane”, eloquio deciso, ma condito da un italiano stentato, accenno di barbetta fighetta, jeans a tubo aderenti o pantaloni colorati, camicia inamidata bianca e obbligatoriamente sbottonata, con vistoso catenone d’ordinanza al collo (mancava un po’di pelo, ma adesso va di moda la ceretta). A confortare e rafforzare l’archetipo c’era pure l’elicottero privato, il porsche Cayenne, la logorrea sfiancante e quel tocco da uomo di mondo super impegnato racchiuso – nella sua massima accezione – nello spettacolare: “Scusi Vighini sentiamoci dopo che sono in riunione”.  Appunto un Ranzani in salsa nostrana, o se preferite il mitico Cummenda Zampetti dei “Ragazzi della 3 C”.

Volevo giocare sull’ironia, perché ogni inizio (che sia professionale, sentimentale, o di vita) va salutato con la leggerezza dovuta. L’inizio, appunto. Poi le domande è doveroso farsele e farle, senza curarsi della presunta pesantezza. Setti ho cominciato a studiarlo, a notarne le decisioni, carpirne i silenzi, seguirne le evoluzioni e le involuzioni. Già, perché un cambiamento c’è stato nel Nostro. Alla sua bulimia mediatica dei primi tempi, ha fatto seguito un lungo periodo di silenzio (su per giù dai cori su Morosini, alla cena di Natale). Più in generale c’è stato un cambio di atteggiamento nel numero 1 di Via Torricelli, che ha sposato un basso profilo che caratterialmente non gli appartiene, lui sanguigno passionale. Un minimalismo quasi forzato, dando l’impressione di una certa “distanza”. Perché?

Girano tante voci a Verona sulla composizione del pacchetto di maggioranza dell’Hellas Verona. Probabilmente sono solo chiacchiere, ma verso i tifosi che per anni hanno dovuto sorbirsi l’opacità pastorelliana (figli procuratori, l’ombra di Tanzi, le chiacchiere sulla società satellite del Parma ecc.)  un po’ di trasparenza non guasterebbe. Perché Parigi val bene una Messa e a tutti ci piace la serie A (e Setti va ringraziato per gli investimenti corposi), ma noi veronesi siamo formiche e non cicale, amiamo fare il passo secondo la gamba, con la dovuta lungimiranza. E anche Pastorello, il primo anno, ci ha portato in A.

Perché Setti ha preso il Verona? La risposta “per passione” ci piace, ma forse non è sufficiente. Il libro “Fuori gioco” di Gianfranco Turano (edizioni “Chiarelettere”) spiega i ritorni economici che hanno dal calcio dieci presidenti di serie A, i più importanti. Chissà magari tutti gli altri lo fanno per passione, sebbene io non abbia mai conosciuto imprenditori filantropi (forse a modo suo il povero Conte Arvedi), ma così non fosse quale sarebbe il ritorno economico di Setti? Qualcuno afferma: i diritti televisivi in caso di serie A, perché il Verona per le pay tv vale dai 30 ai 40 milioni. Bene, ma pensate che le spese di gestione sarebbero tanto inferiori? Leggo su Larena.it del 23 agosto 2012 che Actress Industry, la holding di Setti, fattura 70 milioni di euro. Pochi o tanti per un imprenditore che si butta nel calcio? E quanti ne ha spesi Setti finora per la società? Modeste domande col solo intento di capire. A quando una risposta?

LA LEADERSHIP DI SOGLIANO

Giorni di pensieri. Maurizio Setti ha rimurginato, riflettuto, discusso.  Poi ha delegato. Sean Sogliano, seguendo le linee guida del presidente, ha agito e ordinato. Nel segno di Vasco Rossi e di una sua vecchia canzone, nemmeno tra le più famose: “Cosa c’è”. Vasco quasi esortava, tra il pessimismo della ragione  e l’ottimismo della volontà: “Quando tocchi il fondo vieni su, vieni fuori oppure non ci vieni più”. Setti e Sogliano devono essersela ripetuta infinite volte, come un mantra, quella frase, dopo Empoli e un pareggio acciuffato per il rotto della cuffia, a fronte di una prestazione pessima, seguita a quella quasi identica con la Juve Stabia. Non si è fatto ingannare dai 4 punti conquistati (comunque sia un buon bottino), il presidente.  Ha capito al volo che l’Hellas stava prendendo una brutta piega, mentre le rivali Sassuolo e Livorno volavano ad ali spiegate. E ha dato ampio mandato a Sogliano, che decisionista di natura non ci ha filosofeggiato su.

Ha deciso il lungo ritiro pre Modena, il d.s, nonostante la contrarietà dell’allenatore. Non solo, nel lungo summit con squadra e mister ha compattato il gruppo. Nessun alibi di sorta ai giocatori: avanti con Mandorlini, anche in caso di sconfitta col Modena, è stato il messaggio lanciato a uno spogliatoio con qualche crepa di troppo. Il mister in cambio della fiducia si è impegnato ad ampliare le consultazioni con Sogliano anche sulla gestione tecnica. Un commissariamento? No, una collaborazione più ampia, che tuttavia sottolinea un fatto: il diesse figlio d’arte è sempre più al centro delVerona. Per un cambio di rotta.

 

MANDORLINI NON SI PRESTI A QUESTO GIOCO

Quel vecchio prete in confessionale, buffetti sulla mano a ogni peccato da me sciorinato e la solita sentenza preconfezionata: “Venti Ave Maria per penitenza”. La colpa? Qualche imberbe imprecazione e la ovvia masturbazione.

Giornate a fissare i vigneti dall’altra parte del cortile, visuale monotona dal solito angolino della classe vicino alla finestra, dove espiare ore eterne di castigo per un terribile misfatto: aver spiato le intimità di una compagna di classe.

“Scrivi cento volte la definizione del teorema di Pitagora” mi intimò e obbligò un giorno lontano la maestra. Cara Giordana, inutili velleità pedagogiche le Sue, di quel maledetto teorema non ricordavo nulla allora e non ricordo nulla ora.

Scene di un passato che fu, che ritorna e che mi strappa pure un sorriso (perché alla leggerezza delle belle cose inutili della vita dovremmo confinare il calcio) nel leggere della sanzione (previo patteggiamento) inflitta dalla Disciplinare del Settore Tecnico a Mandorlini. Squalifica fino al 31 gennaio, 20mila euro di multa e stravagante pena accessoria, o se volete “redentoria”, sebbene siamo a Natale e non a Pasqua: dichiarare nelle interviste pre e post gara delle sette partite successive alla squalifica che lui (Mandorlini) crede “nei valori sportivi di lealtà…” e altre balle varie. Il tutto per riparare – con ipocrisia pacchiana a favor di telecamera – a quanto di più innocuo e genuino abbia mai dichiarato: che i livornesi sono suoi nemici. Roba forte, insomma.

Sarcasmo a parte, chissenefrega! esclamerebbe un cittadino di un Paese normale. In un Paese normale, infatti, ognuno ha il diritto di odiare e amare chi vuole. “Odio e amore non sono categorie politiche”, scrive Massimo Fini. Ma come scriveva Giorgio Bocca siamo diventati il Paese del sottosopra, dove, aggiungo io, il buon senso è stato sopraffatto dalla paranoia, i più elementari principi liberali dallo Stato etico, o presunto tale, che non si limita a condannare, ma vuole pure insegnarci come vivere, a noi che non contiamo nulla ovviamente. Coi manovratori, i presentabili e gli allineati invece il “sistema” si trasforma subitaneamente: smette gli abiti pedagogici per indossare quelli complici.

E’ così in politica: qui i politici condannati siedono in Parlamento, un pluriprescritto e amnistiato per reati finanziari (quindi soldi pubblici) è stato per anni Presidente del Consiglio e un prescritto per mafia è senatore a vita. Ciononostante, criticare il Capo dello Stato è lesa maestà a prescindere, anche se lo stesso chiede alla Consulta di distruggere le sue intercettazioni con un ex ministro e senatore coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-Mafia.

E’ così, di conseguenza, nel calcio, che di politica è permeato. Mazzarri e Cavani del Napoli possono esprimere solidarietà a Cannavaro, che taceva nonostante sapesse di partite vendute (fatto oggettivo). Mentre Mandorlini non può odiare e amare chi gli pare (fatto soggettivo). Anzi, per salvare il salvabile (evitare una squalifica e una multa più pesante) è costretto suo malgrado scendere a patti, coprendosi anch’egli di ridicolo.  E’ sicuro di volerlo fare? Ne ha tutte le umane ragioni, ma allorché la tragedia si trasforma in farsa, la dignità val più di qualche migliaia di euro e di una squalifica.