MORIREMO DI GRATITUDINE?

“Stiamo calmi”. “Il campionato è lungo”. “E’ colpa dei giocatori”. “Ma siamo agli ottavi di coppa e andiamo a San Siro”. “Il mister non si discute a prescindere perché è uno di noi”. “Se avessimo vinto nessuno muoverebbe una critica” (sentita anche questa, giuro). “Sassuolo e Livorno non tengono” (sarà…). Frasi trite e ritrite quando non si vince. Poi capita che vinci (con l’Ascoli, non col Real) e allora i fans si scatenano. Non vedono l’ora, pare. “Merito di Mandorlini che è uno di noi”. “I gufi sono serviti”. “Sassuolo e Livorno crolleranno” (aridaje).

Moriremo di gratitudine?

BEATA EMERGENZA

La routine uccide, la precarietà guarisce. Applico questo (mio) principio al Verona di oggi. Ricordando ancora ciò che disse qualche anno fa Serse Cosmi (che non amo) raccontando le gesta del suo Perugia: “Lo plasmai nell’emergenza, spesso le grandi idee degli allenatori nascono dalla necessità”. Nell’emergenza Mandorlini ha trovato, forse (nel calcio, si sa, sempre meglio convivere col beneficio del dubbio), il bandolo della matassa. Le numerose assenze in mezzo al campo (Laner, Jorginho e Martinho in un solo colpo), unite all’intelligenza (tardiva? non importa) nel saper ascoltare (non la critica, ma la società), hanno convinto l’allenatore a cambiare l’assetto tattico. Il Verona di oggi si è presentato al cospetto del più modesto Ascoli con un 4-4-2, o 4-2-4 che dir si voglia, smaccatamente offensivo, al posto del solito 4-5-1. Mera questione di numeri? No, di coerenza. Coerenza rispetto al progetto di mercato di Sogliano, votato a una squadra più spregiudicata e disposta in un certo modo. Oggi il Verona schierava Gomez, Grossi e due punte come Cacia e Bojinov. Di conseguenza ne ha beneficiato il gioco di Gomez, aiutato dall’avere due riferimenti davanti e non il solo Cacia, di Halfredsson e dello stesso Bacinovic, la cui storia (e non la penna della critica) ricorda come non sia mai stato un “4” da centrocampo a tre. Bene anche il troppo trascurato Albertazzi, talento in erba. Coi rientri dei due intoccabili Jorginho e Martinho ci sarà da divertirsi.

IL “PECCATO ORIGINALE” DI SOGLIANO

Sarebbe una farsa, se non fosse un “dramma” (sportivo). Perché di mezzo c’è il Verona e un grande equivoco di fondo, che sollevai già la scorsa estate: l’Hellas, per come è stato costruito, rispecchia il suo allenatore? La risposta, dopo 17 partite, è ancora nel limbo del sì, no, forse. E’ lo stesso Mandorlini, tra le righe, a darlo da intendere nel post partita di Brescia ad Alessandro Betteghella: “Questa è sempre una squadra che quando gioca mi piace, forse mi piace troppo, sarebbe meglio mi piacesse di meno, però abbiamo certe caratteristiche”. Ha ragione. Capire quali è fondamentale per cogliere i motivi del perché non siamo (ancora) esplosi.

Si sa, le squadre del tecnico ravennate hanno sempre avuto determinate qualità: ottima organizzazione difensiva, combattività e fisicità in mezzo al campo e ripartenze micidiali. Per non andare troppo lontano, l’anno scorso, a differenza di adesso, il Verona giocava molto in verticale e poco per vie orizzontali. Tachtsidis, oltre alle note doti di interditore, in serie B era il miglior centrocampista nel dare immediata profondità alla manovra. Jorginho probabilmente è il più forte giocatore del Verona, ma ha altre caratteristiche, sontuoso nel palleggio, meno nell’imbeccata. E stiamo parlando del regista, il ruolo nevralgico di una squadra. Non bastasse, come centravanti avevamo Ferrari, scarsetto sotto porta ma con pochi eguali nel difendere il pallone e far salire la squadra, in particolare Gomez ed Halfredsson, i quali risentono molto dell’assenza di Nicola. Cacia, il migliore attaccante della B, ha qualità diverse, è un po’ l’Ibrahimovic della cadetteria, accentra molto il gioco su di se, ripagando coi gol (non fosse per lui quanti punti avrebbe l’Hellas?) ma togliendo qualcosa ai compagni. L’ex Lecce “attacca” subito la porta e tiene  lontano dalla stessa Juanito e Halfreddsson, che partono dal centrocampo e non fanno in tempo ad avanzare. L’argentino e l’islandese, così, preferiscono giocare anch’essi più sul palleggio, rinunciando alle loro caratteristiche di incursori.

Credo che molta della differenza tra quest’anno e lo scorso sia tutta qui. Evidentemente il Verona disegnato da Sogliano è un assembramento di palleggiatori che giocano per Cacia, da cui per forza di cose poi dipende. Ed è altrettanto evidente che Mandorlini ami giocare in modo diverso, meno sacchiano (possesso palla) e più trapattoniano (incursioni verso la porta); meno civettuolo e più garibaldino. Non è questione solo di modulo, ma innanzitutto di anima.  Quella del Verona rispecchia quella del suo allenatore? Sì, no, forse. E’ l’eterno limbo. E’ il peccato originale che ci trasciniamo da luglio. E il meno colpevole di questo, come ho sempre scritto, è proprio Mandorlini.

MANDORLINI HA RAGIONE: SONO UN SIGNOR NESSUNO (COME TANTI)

Sono stato accusato pubblicamente da Andrea Mandorlini di “fare il gioco sporco”. Ho già avuto modo di discuterne in privato con l’allenatore. Pubblicamente faccio solo qualche riflessione.

Amo far polemica, non è un mistero e soprattutto non me ne vergogno. La vìs polemica e provocatoria, fatta con intelligenza, è un nobile artificio retorico per indurre le persone curiose a riflettere (chi non è curioso e insulta cavoli suoi, accetto anche questo, tuttavia mi domando perché perdiate il vostro prezioso tempo su questo modesto blog). Questo, me ne rendo conto, può creare nei destinatari anche colossali incazzature. E’ legittimo che Mandorlini sia arrabbiato con me ed è altrettanto legittimo che lo possa sbandierare ai quattro venti, dal momento che io pubblicamente l’ho criticato anche radicalmente.

Non faccio la verginella nemmeno sui contenuti utilizzati nel suo attacco. Affermare che faccio “il gioco sporco” è grave ancor prima che inesatto (potrei dire che soffro e gioisco per il Verona da più tempo di lui e lo farò anche dopo di lui, ma attribuire o togliere “patenti” di amore è un gioco abbastanza infantile); ma il mister ha trovato altrettanto grave, dal suo punto di vista, una mia affermazione sul suo conto in televisione. Quindi non ne faccio una cavillosa questione di lessico o sintassi, Mandorlini dica ciò che vuole, dal momento che io mi espongo devo accettare le regole del gioco (questo ovviamente vale anche per lui).

Dire, altresì, che remo contro perché le mie critiche non sono mai costruttive è altrettanto falso. Io sono stato il primo (e per lungo tempo l’unico) a scrivere che Bacinovic era un corpo estraneo nella sua idea di gioco (quando tutti lo volevano titolare, pure in società), che Jorginho in regia sarebbe esploso, che si potrebbe provare anche con un altro assetto tattico e che Bojinov una chance la merita, sebbene mi renda conto che non è un giocatore adatto al suo 4-3-3 (per stessa ammissione dell’allenatore e dell’attaccante bulgaro). Adesso noto con piacere che Bacinovic non gioca, in regia c’è Jorginho,  Mandorlini ha sperimentato il 4-4-2 e Bojinov a Palermo è stato tra i migliori.

Me ne compiaccio perché la scorsa estate, su questo blog, auguravo all’allenatore di riprendersi il “suo” Verona. E, in privato, di riconquistare la sua proverbiale arroganza che ci avrebbe portato lontani. Palermo è una bella impresa, una delle tante del Verona mandorliniano. Non sarà nemmeno l’ultima, per questo il mister farebbe bene a godersela senza perdere tempo e buonumore con un “signor nessuno” come me.

Perché su questo il mister ha ragione. Lui è un uomo famoso e di successo, affascinante, su cui e di cui è bello scrivere, io sono un “signor nessuno” (quindi come tanti) con un lavoro normale e piacevole e uno stipendio modesto. Un “signor nessuno” (quindi come tanti) che si accontenta modestamente delle cose belle della vita: le donne, il Verona, il vino rosso, Hemingway e i Led Zeppelin. E la scrittura. Sì sono un “signor nessuno”, come tanti e tra i tanti. Dov’è il problema?

 

 

 

IL DILEMMA BOJINOV

Come sarebbe andata lo si era intuito fin dal principio. “Bojinov esterno d’attacco non ce lo vedo, non ha la gamba per sostenere un ruolo del genere, lui è una punta”, disse Mandorlini al “Vighini show” poche settimane dopo l’arrivo dell’attaccante bulgaro. Il tecnico ravennate, si sa, non pecca di eccessi di diplomazia e, a differenza di molti altri suoi colleghi, non occorre leggerlo troppo tra le righe per intuire ciò che pensa di Tizio piuttosto che di Caio. Aggiungiamoci altre dichiarazioni settembrine – “Cacia è intoccabile e da Gomez quest’anno mi aspetto che faccia ancora meglio. Cacia, Gomez e Bojinov assieme? Difficile” – e non è azzardato giungere alla conclusione che il bulgaro non rientrava nei piani dell’allenatore. Il quale, non è un mistero, ha accettato suo malgrado il blitz col quale Maurizio Setti l’ ha portato a Verona.  E che, è acclarato, vede l’ex Fiorentina, Juve e City come terzo centravanti dopo Cacia e Cocco.

Lo stesso Bojinov, al di là dei pubblici intenti di rivalsa (“darò tutto per far ricredere l’allenatore, di cui rispetto le scelte”), è consapevole di un progetto tattico che, non dovesse mutare, è a lui estraneo. “Esterno nel 4-3-3 ho già giocato con Zeman a Lecce, ma lui concepisce questo modulo in maniera completamente diversa, gli esterni giocano più alti e hanno meno compiti di copertura rispetto a Mandorlini. Io comunque pur di giocare sono disposto ad adattarmi, anche se il mio vero ruolo è da seconda punta vicino a un altro attaccante”.

Ed è questo il nodo cruciale. Di Bojinov si può avere l’opinione che si vuole: c’è chi lo considera un ex giocatore, chi un potenziale fuoriclasse, chi sottolinea che in estate lo Sporting lo offriva a chiunque pur di piazzarlo, altri che ricordano come il talento di Gorna Ortijovah a 16 anni – all’esordio in una serie A all’epoca stellare – fece 11 gol. Io lo considero un ex campioncino che ha perso il treno per diventare campione, ma è ancora in tempo per riproporsi come ottimo giocatore. Ed è soprattutto un possibile investimento per il Verona, che a “soli” 500 mila euro ha facoltà di riscattare un giocatore che, se recuperato, può diventare il leader del Verona per i prossimi 2-3 anni, anche in serie A.

Ma, comunque la si pensi, non è questo il punto. Il nodo cruciale, dicevo, è un altro ed è lo stesso Bojinov a lasciarlo (lui sì tra le righe) intendere: se vuole sfruttarne appieno le potenzialità, Mandorlini deve cominciare a pensare a modificare l’assetto tattico del suo Verona. Sono d’accordo col mister: il tridente Gomez, Cacia e Bojinov è azzardato e anche poco logico, ma pensare a Bojinov e Cacia vicini,  con Paolo Grossi (giocatore dall’enorme tecnica) a suggerire e Rivas a crossare è fantascienza? In società l’idea serpeggia e chi di dovere l’ha fatto presente. A Mandorlini l’ultima parola.

NON C’E’ FUTURO SENZA PASSATO. SETTI NON “SPROVINCIALIZZI” TROPPO

Mani lunghe e affusolate. Alto e dinoccolato. Barba da santone, denti gialli da fumatore incallito, spalle larghe e fisico invecchiato ma ancora nervoso. Sguardo intenso e carisma innato. A vederlo da vicino, il Max, cofondatore e primo capo delle Brigate Gialloblù negli anni ’70, trasuda tutta la sua storia. “Le Brigate Gialloblù nascono apolitiche, l’unica cosa importante era tifare il Verona”. Da far sbiancare le verginelle mediatiche di oggi, anche il rapporto con presidente, allenatori e giocatori: “Una volta volevamo prendere a calci il grande Gianni Bui, Garonzi ci temeva, e per me è stato il miglior presidente del Verona, adesso basta una piccola polemica, un coro e i giocatori fanno le vittime. Troppo coccolati e strapagati”. Affascinante nei suoi aneddoti, calamita nei ricordi, coinvolgente nel raccontarti gli antefatti della nascita delle Brigate Gialloblù, le quali, piaccia o non piaccia, hanno segnato Verona – non solo sportivamente, o sulle pagine di cronaca – ma soprattutto come fenomeno di costume e di aggregazione giovanile negli anni ’70 e ’80. Sarebbe bello rimettessero in ristampa “I guerrieri di Verona” di Silvio Cametti,  altro fondatore della Brigate, un pezzo di storia a cui qualsiasi giovane tifoso dell’Hellas potrebbe attingere, perché non c’è futuro senza passato.

Le ultime due puntate nostalgiche del “Vighini Show”, quella sugli anni ’70 e sulle Brigate, mi riportano paradossalmente al presente, alla nuova società insidiatasi in via Torricelli, a Maurizio Setti. Sono sempre stato incurante del refrain “Il Verona ai veronesi”. E per me la discriminante sulla adeguatezza manageriale o meno di Mr Setti non è mai stata la sua provenienza geografica. Sono tra coloro che pensano che se viene uno dal Giappone a investire nella mia squadra va benissimo. Anzi meglio, sarà meno condizionato dagli umori della “piazza”. Tuttavia Setti, bravissimo sinora, non deve cadere nell’errore contrario: quello di non badare per niente a ciò che è la veronesità, che come tutte le culture ha i suoi difetti, ma anche i suoi pregi. Spesso ho sentito il presidente affermare che vuole “sprovincializzare” l’immagine dell’Hellas. Bene ma… solo in parte. Le radici sono importanti, anche per Setti vale quanto detto prima: non c’è futuro senza passato.

Il Verona è un qualcosa di diverso dalle altre squadre, qua la maglia e i colori contano di più di qualsiasi risultato, di qualsivoglia vetrina, di Sky, dell’Europa o della televisione. E non è retorica, caro Setti. Per questo sottoscrivo la proposta di Gianluca Vighini: inserire i veterani gialloblù di Nanni, Bagnoli e Mascetti in società, magari – aggiungo io – componenti di un “ministero senza portafoglio” dentro il Consiglio di Amministrazione, esercitanti un potere consultivo, ma non vincolante.

Perché per leggere la storia complessa e controversa del Verona, occorre consultare anche chi quella storia ha scritto. Il rischio, altrimenti, è creare una grande società bella nell’involucro, ma slegata al territorio. Una società di carta velina, attraente alla vista, ma poco resistente. Insomma, Setti non “sprovincializzi” troppo, sarebbe un clamoroso autogol.

MANDORLINI E MEDIA: LIBERTA’ DI APPLAUSO O DI CRITICA?

“La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”. Lo diceva Oriana Fallacci, credo sia una frase universale. Andrea Mandorlini, lunedì sera a margine di Verona-Sassuolo, prima si è arrabbiato con Giovanni Vitacchio per una domanda, poi si è allontanato evitando l’intervista con Telenuovo. E ha sbagliato. Con degli alibi, ma l’errore rimane.

Gli alibi li conosce chiunque abbia anche solo fatto un intervista “a caldo” nella sua vita. I dopo partita in sala stampa sono da sempre carichi di tensione. Figuriamoci quello di lunedì sera, dopo una gara tirata contro una diretta concorrente. Figuriamoci per un sanguigno, irrequieto ed emotivo come il tecnico ravennate. Che, è giusto sottolineare, non è stato il primo e non sarà l’ultimo a baruffare con un giornalista (fa parte del gioco anche questo). Anzi, se vogliamo, il modo in cui lo fa Mandorlini a tratti è perfino buffo da quanto è grossolano. Ci sono allenatori ancora più irruenti e irritanti in giro che, a differenza sua, manco hanno l’umiltà di scusarsi e ti tengono il broncio per l’eternità. Penso al vulcanico Gigi Delneri per diretta esperienza, ma – raccontano i vecchi cronisti – anche a Eugenio Fascetti e all’insospettabile Edy Reja. Lo stesso Bagnoli non era un mansueto. Voglio dire, non tutti sono educati come Remondina, ironici come Ventura, “cardinalizi” come Prandelli , o compassati come Perotti.

Al netto degli alibi, però, il mister ha sbagliato. Ha sbagliato perché Vitacchio (o chiunque nel suo ruolo) in quel momento non è un privato cittadino che legittimamente ti può stare sulle scatole. E’ un (bravo) professionista che rappresenta un emittente e quindi un pubblico, che vuole sentire l’autorevole parere sulla partita dell’allenatore della sua squadra. Montanelli lo ripeteva spesso: “Il mio padrone è il pubblico, io faccio il giornale per esso e non per me stesso”. Quindi il Mandorlini “disertore” manca di rispetto in primis alla gente (la gente che lo ama e che non lo ama, non fa differenza) e solo in secondo luogo alla professionalità di Vitacchio, il quale rappresenta il pubblico (Telenuovo) e non se medesimo. Non bastasse, il Mandorlini “disertore” manca di rispetto anche a… Mandorlini e al suo ruolo, peraltro ben remunerato perché è un bravo tecnico, ma  altrettanto ben remunerato (anche) per sopportare pressioni e critiche (peraltro lievi qua a Verona), giuste o sbagliate che siano. Fanno parte del lavoro anche quelle.

Chiunque lavori in posti di responsabilità ne è conscio: più onori (leggi stipendio e mansione) significa per forza di cose più oneri (leggi pressioni da gestire). Vale in qualsiasi azienda, nella fattispecie vale anche per il professionista (non l’uomo privato) Mandorlini. Se poi lavori sotto la luce dei riflettori, onori e oneri si moltiplicano a dismisura. Essere personaggio pubblico ti dà popolarità, visibilità e guadagni economici (se il calcio non se lo filasse nessuno, col cavolo che girerebbero certi stipendi). Onori, appunto. Ma può servirti anche critiche, domande impertinenti, scazzi e perfino colpi bassi. Oneri, quindi. E’ l’altra faccia della stessa medaglia, una non può esistere senza l’altra, o tutto o niente. Nei sistemi democratici funziona così: esiste la libertà di critica e di fare domande. La libertà di applauso e di genuflessione preferirei lasciarla alle dittature.

VERONA CITTA’ CIVILE. LA DIMOSTRAZIONE DELL’OVVIO

Mi ha pervaso la malinconia ieri pomeriggio al Bentegodi. Non ero l’unico, se può consolarmi. Vedevo i bambini camminare innocenti sull’ex pista d’atletica accompagnati dallo striscione “Moro per sempre con noi”. Sentivo la grancassa di retorica tesa a riparare la vergogna dei cori di Livorno e volta a gridare all’Italia intera l’OVVIO: Verona è città civile.

Mi è scesa la malinconia perché fossimo in un mondo (del calcio) normale, non ci sarebbe stato bisogno di alcunché. Di nessuna manifestazione “riparatoria”, di nessun distinguo, di nessuno striscione. Di nessuna iniziativa per affermare e dimostrare appunto l’Ovvio, e cioè che siamo una città civile, con tutti i pregi e i difetti di qualsiasi comunità, che al suo interno ha ladri e gentiluomini, puttane e suore, delinquenti e uomini onesti. E che dentro una curva (come in tutte le curve d’Italia) mescola borghesi e proletari, passionali ironici e corrosivi, ma anche incontinenti reietti, magari un po’ sbronzi, che vedono nello stadio lo sfogo dei loro peggiori bassi istinti e perfino un senso di (macabra) identità che lì fa cantare contro i morti. In un mondo (del calcio) normale quest’ultimi li tratteremmo con la più totale indifferenza, derubricandoli a “fenomeni da stadio” e lasciandoli nel  vuoto cosmico della loro ignoranza (ma non stupidità, ribadisco il concetto).

Invece siamo nel calcio del “Grande Fratello”, che controlla e monitora tutto, dimenticando il buon senso e la logica, per il falso dio dell’immagine. E allora ci tocca manifestare, ci tocca ribadire con forza che “Verona non è quei venti pseudotifosi” (come se qualsiasi normodotato potesse pensarlo) e che Morosini è “uno di noi”, nonostante manco lo conoscessimo. Così senza che ce ne rendiamo conto, oltre a imporci – nostro malgrado – di strumentalizzare un morto che al limite dovrebbe essere ricordato spontaneamente, questo calcio malato e mediatico, con le manifestazioni di ieri, ci ha indirettamente  messo al livello di quei venti macabri ultras, costringendoci a prenderne le distanze, a calcolarli, a farli sentire, seppur in maniera negativa, ancora parte del gioco.

Non ce ne rendiamo conto perché anche noi, fruitori di questo calcio da troppi anni, abbiamo accettato con pigrizia e un po’ di complicità le sue regole di ingaggio, diventandone parte. E allora dopo il coro “contro” (che non sarebbe dovuto uscire dalla curva), ecco le manifestazioni coi bambini “pro”. Dopo il danno, la “riparazione”. Alla resa dei conti e a ben vedere, un doppio danno al senso normale delle cose.

QUEI CORI (CONTRO MOROSINI) NON SONO FATTI DA STUPIDI

L’imbarazzo di Giovanni Gardini negli spogliatoi di Livorno era palpabile. Quel coro di pochi contro Piermario Morosini ha lasciato il segno anche sul “Richelieu” del Verona, noto per la sua proverbiale  freddezza. Mi è piaciuto il direttore generale, che non ha cercato alibi, non si è nascosto dietro ambigui distinguo, dribblando anche le domande capziose di qualche collega (non di questa testata) che cercava di pareggiare i conti della vergogna parlando della scorta a Mandorlini, o della presunta aggressione subita dal diesse Sogliano. Come se fossero la stessa cosa, come se non ci si volesse rendere conto che quanto successo con quel coro era grave in assoluto, eticamente innanzitutto, ma anche emotivamente e mediaticamente. Mi è piaciuto Gardini, perché non ha minimizzato. Non ha fatto il solito giochino di molti del “se succede a Verona…”, vittimistico quanto provinciale e autolesionistico.

Mi è piaciuto meno sentire definire “stupidi” i protagonisti del coro. Capisco che istintivamente verrebbe da chiamarli così, ma è sbagliato. Costoro sono forse ignoranti, probabilmente frustrati (socialmente, sentimentalmente, sul lavoro, che ne so…), ma non stupidi. Stupido è chi compie un’azione inconsapevolmente, questi invece lo fanno scientemente, per vanità, per egocentrismo, per mettersi in luce un minuto nel buio eterno della loro esistenza, fregandosene delle conseguenze, perché sanno che nulla gli succederà (ma non forse questa volta) e dell’immagine della città non se ne curano proprio (anzi il polverone mediatico li alimenta).

Quel coro poi è indice di un problema più oggettivo che c’è in curva, terra da qualche anno di troppi cani sciolti e, rispetto al passato, orfana di leader carismatici e punti di riferimento. So che qualche anima pia, o qualche progressista all’italiana si scandalizzerà per quel che scrivo, ma è un fatto che in passato anche la “famigerata” curva sud aveva un “suo” codice etico, discutibile fin che si vuole (ma le anime pie devono capire che il mondo ultras è un mondo a se) ma efficace, e dei leader che vegliavano sul rispetto delle regole interne. Adesso forse qualcosa è sfuggito di mano, mi auguro possa essere ripreso.

E basta col vittimismo del “se succede a Verona”. Ci rendiamo conto che questo vittimismo nutre quegli stessi che hanno cantato contro un morto? Siamo consapevoli che il nostro pianto permette loro di rifarsi una verginità fino alla prossima cazzata? E smettiamola di offenderci per come i media nazionali parlano di noi, perché  “i panni sporchi si lavano in casa”. Anche fosse, sarebbe ora di cominciare a lavarli questi panni.

L’HELLAS CONTA DI PIU’ POLITICAMENTE GRAZIE A GIOVANNI GARDINI

Giovanni Gardini è il cardinale Richelieu del Verona, l’eminenza grigia di Maurizio Setti. Il “boiardo” che si muove nell’ombra, ma che per certi versi conta di più di chi si espone alla luce. Mi ricorda, per ruolo, un po’ Gianroberto Casaleggio, il geniale guru di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle.

Specchio cardinalizio, anima spietata, Gardini. Il suo viso paffuto richiama alla mente l’attore Tom Bosley, lo sceriffo rassicurante di Jessica Fletcher ne “La Signora in Giallo”, o se preferite il pacioso  Howard,  ferramenta di Milwaukee e papà di Ricky Cunningham nel conformista scenario dell’America anni ’50 di “Happy Days”. In realtà l’aspetto inquietante, e affascinante insieme, è che in quel viso docile non si muove un sopracciglio. Quegli occhi freddi e gentili non tradiscono mai il disciplinato ed educato cinismo del tipo che ti “elimina” accompagnandoti cordialmente alla porta. Il sorriso affabile è più da “bacio della morte” che da brindisi in osteria e cela il cocktail perfetto di Mr Gardini: un combinato micidiale di instinct killer spregiudicato e ars politica diplomatica, a seconda dei casi, nei confronti di  qualsiasi cosa e persona che si metta dinanzi alla sua principale missione: far contare e proteggere il Verona a “palazzo”. Politicamente ed economicamente.

E’ questo, in primis, il compito che gli ha affidato Maurizio Setti.  Nell’organigramma Gardini risulta direttore generale, di fatto è il numero 2 di Via Torricelli, per certi versi addirittura il numero 1, dal momento che il presidente è spesso fuori sede per seguire le sue aziende e ha dato ampia delega operativa a questo esperto dirigente padovano, nato a Londra da famiglia piuttosto facoltosa e signorile, amante delle Jaguar e del potere, unici suoi vezzi di una vita morigerata e dedita al lavoro, di sicuro meno movimentata e interessante dei suoi sottoposti Sogliano e Mandorlini. Missione che il dg sta compiendo con soldatesca abnegazione e chirurgica precisione. E la sua longa manus, discreta ma incisiva, sta dando i suoi frutti. Checché se ne dica (da tifosi possiamo passare una vita a lamentarci), il Verona è maggiormente tutelato dalla Lega e dagli arbitri. E sta recuperando grande terreno anche a livello commerciale, nel campo del marketing e della “torta” dei diritti televisivi.

Merito senza dubbio del “Cardinale Richelieu” tutto gialloblù, dominus dietro le quinte, eppure anch’egli capace di cedere ai sentimenti in mondovisione il 14 aprile scorso a Pescara, pochi istanti dopo la disgrazia di Morosini, allora suo giocatore al Livorno. Gardini viene immortalato a piangere come un bambino abbracciato al presidente del Pescara Sebastiani. L’immagine fa il giro del mondo e rivela (nella terribile disgrazia) l’affascinante contrasto tra il dirigente chiamato dalla professione a vestire quotidianamente il doppio petto del potere e della discrezione, e l’uomo che si abbandona senza contegno ma con molta dignità al sentimento più vero con l’amore: il dolore.  Anche i “boiardi” si commuovono e ricordano.

P.S. Ricordiamo anche noi.  Sabato, guarda caso, si va a Livorno, partita per mille motivi con un “carico” di tensione per i ragazzi della curva e Mandorlini. Io sono per tutti gli sfottò (anche volgari) del mondo e contro i minuti di silenzio, tuttavia mi piacerebbe che ognuno di noi ricordasse, a suo modo e anche per un solo attimo, Piermario.