UN APPELLO A SETTI E ALLA QUESTURA: RICONSEGNIAMO LA CURVA NORD AI VERONESI

Lande desolate a… nord. Gradoni tristi, grigi e vuoti, che stridono con l’altra metà del cielo, quella “Sud” da sempre così piena di calore. Il problema del (mancato) utilizzo della curva Nord del Bentegodi è annoso, eppure se ne parla troppo poco. Passi (ma neanche tanto) per le parterre, inagibili perché fuori norma (metterle a norma, no?) e comunque settore storicamente poco appetibile per la bassa visibilità. Passi (ma neanche tanto) pure per la tribuna Est superiore, sovrastata come “fascia” dalla Ovest. Ma su quei 6 mila posti… a nord da troppi anni orfani non si può soprassedere.

La Questura, adducendo il (nobile) motivo del mantenimento dell’ordine pubblico, decise a suo tempo di chiudere un settore storico per tutti quei veronesi “moderati” e di ceto popolare che preferivano la tranquillità della Nord, alla rumorosità della Sud, non potendo al contempo permettersi un biglietto di tribuna.  Ricordo negli anni ’80 e primi ’90, quando la violenza negli stadi era forse più diffusa di adesso: i tifosi ospiti venivano messi in parterre, mentre la curva era aperta ai veronesi. Da tempo non è più così, la presenza di poche centinaia di tifosi ospiti monopolizza un intero settore dello stadio. Cosa che non succede in nessun altro grande stadio italiano. Questo preclude al Verona di avere un secondo settore popolare e, mediamente, tre-quattro mila persone in più allo stadio. Mica pizza e fichi.

Qualcuno dirà, dagli anni ’90 tante cose sono cambiate. Sì, ma i “talebani” della sicurezza negli stadi sostengono “sono cambiate in meglio”, grazie alle loro norme introducenti i tornelli, i biglietti nominali e le tessere del tifoso (i famosi decreti d’urgenza da me definiti “post mortem”, dacché vengono varati sempre dopo fatti tragici e quindi senza ratio e molto pathos, l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere l’humus di una buona legge). Perché dar loro torto?

Chi conosce la questione sostiene che il problema siano le “vie di fuga”. Un addetto alla sicurezza mi spiegava tempo fa: “Agli ospiti il parterre non si può dare perché non a norma, per l’assenza dei bagni e di altri parametri. Così vengono sistemati nella Nord superiore, con la conseguenza che sei costretto a chiudere l’inferiore, per evitare una commistione dei tifosi dei due settori all’entrata e all’uscita dello stadio, dal momento che i cancelli sono gli stessi “. E’ così difficile regolarizzare il parterre, almeno in quel settore?  E pensare a un progetto che ridisegni le recinzioni e le vie di fuga? Domande…

Domande forse ingenue. Domande, lo ammetto, di un profano in materia di sicurezza che tuttavia sollecita una risposta degli e dagli esperti. Domande rinsavite la scorsa estate, quando è stato fatto il restyling in alcuni parti del Bentegodi. Sistemare, o perlomeno mettere in agenda anche la “questione curva Nord” era (è) impensabile? Progettare un piano tra Hellas, Chievo e Questura in modo da far convivere la doverosa esigenza di sicurezza con la riapertura del settore era (è) impossibile? Perché altrove succede e a Verona no? Costa troppo? O non ci sono altre vie? Be’ così fosse, sarebbe un fallimento, di civiltà in primis. Perché una civiltà che per renderti sicuro esclude, è semplicemente incivile.

CAMPEDELLI ESONERI SE STESSO

L’esonero di Mimmo Di Carlo è il canto del cigno della “favola di quartiere”. Virgolette d’obbligo ovviamente, dal momento che di favola non si tratta, come  già spiegato dettagliatamente nel topic “Chievo: sottoprodotto del calcio moderno” (http://blog.telenuovo.it/francesco-barana/2012/07/25/chievo-sottoprodotto-del-calcio-moderno/).

I segnali del tramonto sono evidenti. Il Chievo degli ultimi anni ha venduto benissimo (Constant e Acerbi le plusvalenze più importanti) e comprato malissimo. Risorse economiche  limitate rispetto al passato, ergo ricavi non reinvestiti perché messi a bilancio? La chiusura di qualche “rubinetto” finanziario? Chissà, quale che sia il motivo, dichiarare ai quattro venti che “è il Chievo più forte di sempre” quando eleggi come leader della squadra ultratrentenni come Luciano, Pellissier e Di Michele – buoni giocatori ma non fuoriclasse nemmeno nell’età più verde –  e sconosciuti come Papp, lascia perplessi sull’attuale solidità del club. Senz’altro più debole  da quando, scongiurato il pericolo fusione (il sogno di Campedelli, al quale pure il nostro Martinelli stava cedendo per poi redimersi), il Verona è risalito dalla melma della Lega Pro.

E’ chiaro, con un Verona che si riaffaccia ai massimi livelli, il “marchio” Chievo perde facilmente il suo appeal. Un appeal già debole in partenza “anche a causa della poca lungimiranza di Campedelli” – mi confidò qualche mese fa a Tuttocalcio l’ex responsabile commerciale del club. Campedelli, che “finita l’epoca in cui il prodotto si vendeva da solo, proprio per questa storia del miracolo, della favola di quartiere in serie A, e tutto il mondo parlava del Chievo, non ha proposto qualcos’altro per differenziarsi, per far in modo che si continuasse a parlarne”.

Anzi, più che a “differenziarsi”, l’Harry Potter dei pandori ha pensato bene di assimilare. Cosa? Le identità delle due squadre cittadine (la storia dei simboli è nota), subendo tuttavia l’effetto boomerang:  il Chievo ora sta sulle scatole anche ai moderati. Geniale, direi.

In parallelo (ma neanche tanto) il cattivo rendimento della squadra, affidata da poche ore al debuttante Corini, allenatore dal curriculum sconosciuto eppure già in serie A (a proposito del Iachini dixit all’ultimo “Vighini show”). Il simpatico Di Carlo intanto saluta la compagnia, ma si consoli, Campedelli non ci ha dormito la notte. Raccontano di un presidente annebbiato da un tormento: forse non era il caso di esonerare se stesso? E freddato da un pentimento: “Verona non può sostenere due squadre ai massimi livelli”, disse qualche anno fa. Vero, ma la domanda è lecita: presidente è ancora convinto che quella in più sia l’Hellas?

I MANDORLINISTI? PIU’ MANDORLINIANI DI MANDORLINI

C’era una volta Carlo X di Borbone, il re di Francia che tentò di restaurare l’Ancien Régime dopo la Rivoluzione Francese. Uomo reazionario, fu capostipite de “realismo”. Chi erano i “realisti”? Coloro che difendevano il re e i suoi interessi con un intransigenza ben superiore al re stesso, da lì la locuzione “essere più realisti del re”. Un po’ come i mandorlinisti, mi vien da dire, più mandorliniani di Mandorlini. Il quale, rinvigorito dalla vittoria (la “sua” vittoria ancor più di quella del Verona) e dai soliti insulti piovutigli fuori Verona, sta riacquisendo la sua consueta arroganza e idiosincrasia per chiunque osi, anche lievemente, criticarlo (chiedere a Vitacchio o Fontana). Per fortuna, aggiungo io. Gliel’avevo pure augurato, sia pubblicamente che di persona: si sa, un Mandorlini antipatico e greve è la migliore garanzia di un Verona vincente. Il Mandorlini moderato e un po’ molle di inizio stagione, invece, non era un buon segno.

Aggiungo: il Mandorlini arrogante non fa rima col Mandorlini ottuso. Lui, in cuor suo e anche se non lo ammetterà mai (fa parte del gioco), da uomo di calcio consumato è il primo a sapere che la critica è più utile della piaggeria, o del “realismo”. La critica fa pensare, se la cogli con intelligenza. Ancora l’8 agosto mi domandavo (come si domandavano in tanti, ma sottotraccia): “E’ davvero il Verona di Mandorlini?”. Spiegavo che non lo era e concludevo: “Mandorlini come tutti gli emotivi necessita di sentirsi sulla pelle la creatura che ha in mano. Come? L’allenatore DEVE trasformare in “suo” ciò che adesso “suo” ancora non è”.

Be’, gradualmente il nuovo Verona di Setti e Sogliano, rivoluzionato nel mercato estivo, sta diventando il Verona di Mandorlini. Per questo la vittoria di Varese è in primis la vittoria del suo allenatore. Un allenatore che sta gradualmente trovando il “suo” gruppo, i “suoi” giocatori. Scelte scomode ma vincenti: fuori Bacinovic  e dentro Laner, con Jorginho (il miglior centrocampista della B, statistiche alla mano) in regia. Fuori Fatic e dentro Martinho. Fuori Crespo e dentro Cacciatore. Giocatori di quantità (ma anche qualità) a far legna per i “geni”. Sciabola e fioretto. Conseguenza? L’equilibrio che pian piano arriva. La buona stella ha pure aiutato il mister (Bacinovic in nazionale ha fatto emergere Laner, Crespo infortunato ha dato spazio a Cacciatore nel suo ruolo naturale), ma la fortuna bisogna anche saperla cogliere. Non è scontato, ci vuole coraggio, specie quando sai (tanto per fare un esempio) che Bojinov e Crespo sono uomini del presidente e Bacinovic del diesse. Coraggio (ma anche buon senso) da mantenere nonostante, appunto, le pressioni “interne”.

Lo stesso coraggio che occorre nel muovere delle critiche, a costo di far storcere la bocca ai “realisti” del mandorlinismo, appunto più mandorliniani di Mandorlini. Loro legittimamente difendono il loro Re, forse però dimentichi di una cosa: il tifoso fa il tifoso, il giornalista informa e, se necessario, critica.

IL SOGNO DI MR SETTI: LA COPPA DISCIPLINA

Dormo poco e male. Colpa dei bagordi? Ma va. Qualche donna? No, siete fuori strada. La causa è Maurizio Setti. Sì proprio lui, il presidente del Verona. “Ho un sogno” ha chiosato il 13 settembre davanti alle telecamere del “Vighini show”. Quale? “Vincere la Coppa Disciplina intitolata a Scirea, quale tifoseria più corretta d’Italia”.

Sarà stata la frase intrisa di gloriosa retorica – vabbé un tantino inflazionata dopo Martin Luther King (il quale peraltro barbaramente assassinato non può nemmeno chiedere i diritti d’autore), ma sempre efficace. Sarà, forse, l’attuale ascendenza di Carlos Castaneda e del suo libro su sciamani e spiritualità “Gli insegnamenti di Don Juan” che mi ha empaticamente aiutato a entrare nel mondo interiore di Mr Setti. Sarà che mi son chiesto: come si fa a vincere la Coppa Scirea? Quale che sia il motivo, da qualche notte a questa parte faccio sempre lo stesso sogno.

Sono allo stadio, ma non bevo la solita birretta prepartita, non incrocio le solite facce di chi è già più o meno sbronzo, al Nilla o al chioschetto del parcheggio non sento le consuete bestemmie e le urla sguaiate. Tutti bevono Ben Cola (la Coca Cola è troppo capitalista e non sia mai che incida sulla classifica fairplay) e sussurrano. Qualcuno prega, ognuno il suo dio, perché è chiaro siamo tutti tolleranti. Rimango perplesso, ma non ho tempo di pensare. Guadagno lentamente l’entrata e la perplessità muta in stupore: in curva sono tutti seduti, nessuno fuma, canne niente, battono tutti le mani come i boy scout e cantano come al grest. Sono solo famiglie o coppiette, quasi fosse una domenica pomeriggio scazzata sul lago, col plaid e il cuscinetto riposto sul seggiolino perfettamente numerato. Famiglie piccolo borghesi, quindi proletarie visti i tempi, ma non si dice che poi da fascisti e razzisti passiamo a essere etichettati bolscevichi (e anche quello non è in linea col nuovo fairplay pallonaro). Famiglie che coi loro eleganti cestini di vimini improvvisano un innocuo picnic sugli spalti, forse invidiose, o emulanti i vips che poco più in là – al nuovo ristorante sito sul parterre – consumano un romantico pasto giaccaincravattato con vista mozzafiato sul terreno del Bentegodi (che in inverno ghiaccia e sarà ancor più uno spettacolo della natura)

Comincia la partita, ma noto che la curva è mezza vuota, quelli “cattivi” li hanno lasciati fuori. Non sento cori di scherno,offensivi o sarcastici che siano, contro gli avversari, anzi vengo a sapere che siamo gemellati più o meno con tutti e che dopo la partita ci sarà un “terzo tempo” cogli amici tifosi ospiti. Un avversario rimane a terra per un semplice sgambetto, ecco mi dico: “adesso canteranno ironicamente morte”. No, non si fa più, anzi, qualche tifoso mostra viva preoccupazione, qualcuno addirittura piange. I giocatori di colore si applaudono (a prescindere), quelli bianchi si fischiano (ma lievemente, sia chiaro) se baruffano con quelli di colore, così anche Blatter, Platini e Thuram saranno contenti con la loro pelosa campagna “no racism” (mentre si gioca con palloni fabbricati da chissà chi, magari bambini schiavizzati, ma quello non è razzismo, perché non si vede e non si sente).

Ecco il triplice fischio dell’arbitro, ma prima c’è ancora tempo per qualche coro a favore dei terremotati, ma solo a telecamere e microfoni accesi, ché quando si spengono non conta, chissenefrega, continuiamo a costruire case di sabbia e acqua per risparmiare e speculare… Scendo le scale ed è cambiata pure la colonna sonora post-partita. Non più gli ACDC o i Guns n’ Roses, ma Jovanotti, perché “siamo tutti una grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa”. Insomma ci vogliamo tutti bene, mettiamo dentro tutto in un bel minestrone, buoni propositi e intenzioni.

Fine, buio, luce, cuore a tremila battiti. Il fatto è che  quando arrivo a Jovanotti mi sveglio sempre di soprassalto (c’è un limite a tutto). Il libro di Castaneda è lì sul comodino, maledetta empatia da sciamani, le parole del Setti-King ancora mi ronzano intorno, e la risposta che cerco ahimé è lucidamente nell’aria: come si fa a vincere la Coppa Scirea? Bisogna forse… no non voglio saperlo, fa male. Bisogna forse… essere il Chievo?

“Ho un sogno” dice Setti. Ok caro presidente, ma il tuo sogno è il mio incubo, dannazione. Avete capito, adesso, perché dormo poco e male?

IL MIO VERONA

Non tutti campioni. Qualcuno non il più forte in assoluto. Semplicemente i miei campioni, quelli a cui mi legano i ricordi più vividi. La mia top 11 del cuore racconta di un Verona che ha attraversato la mia infanzia e adolescenza. Attraversa gli anni ’80 in cui sognavo di fare il calciatore o il benzinaio (quando ancora la figura del benzinaio non era stata uccisa dal self service), per arrivare ai ’90 e ai primi ’00, cotte, primi amori, amicizie, i prodromi dell’età adulta, con l’Hellas un po’ sullo sfondo e un po’ al centro di tutto. Il mio “undici” passa da GIULIANI in porta (di cui ho già scritto in uno dei primi post) e poi in ordine dal 2 all’11 (scusate ma a 32 anni ho fatto in tempo a godere della mitica vecchia numerazione): CAVERZAN, DE AGOSTINI, IACHINI, PIN, TRICELLA, FANNA, MARASCO, DE VITIS, MORFEO, ELKJAER. Di questi, nella top 11 assoluta (quindi secondo esclusivi parametri tecnici) rientrerebbero probabilmente solo Tricella, De Agostini, Fanna e ovviamente il “cavallo pazzo” danese, ma il calcio, si sa, è fatto di tante altre componenti. In primis la visceralità, la sola che ti fa amare un giocatore, al di là delle sue capacità. Eccoli uno a uno le mie “figurine” gialloblù più preziose:

Giuliano Giuliani (1985-88). Di “Giulio” ho già scritto. Ma qua più che la sua triste vicenda, vorrei ricordare le caratteristiche: stilisticamente perfetto, Giuliani dal punto di vista tecnico era un portiere completo, senza grandi difetti. Mancava solo di quel proverbiale carisma che l’avrebbe reso un grande estremo. Memorabili alcune sue prestazioni nella Coppa Uefa 1987-88, ma anche quel gol che gli fece Maradona da centrocampo. Indimenticabili i suoi riccioli e quel fare da uomo di mondo. Intelligente, viveur, appassionato d’arte e dotato di spiccato senso estetico e di un eloquio affascinante. Brillavano i suoi occhi.

Diego Caverzan (1993-98). Il terzino trevigiano può vantare (tra i pochi) un coro personale della Curva: “Ma dove casso valo Caversan?”. Una presa in giro affettuosa, per un giocatore comunque che a Verona ha vinto un campionato di B e ha sempre fatto il suo con onore. E’ stato il nostro ultimo terzino marcatore. Arcigno cappellone, Caverzan per me era il Jimmy Page del Verona. Un terzino rock.

Luigi De Agostini (1986-87). Grande terzino sinistro, a mio modo di vedere il più forte in gialloblù e uno dei dieci più bravi di tutta la storia del calcio italiano. Cross taglienti, bravo anche da mediano di spinta, classe e corsa da vendere e tanta umiltà. Rimase un solo anno, ma lasciò il segno.

Giuseppe Iachini (1987-89). Mediano di corsa e sostanza, tantissima quantità (si attaccava ai polpacci dei 10 avversari) ma anche qualità, dote in lui sottovalutata, non per niente finì la carriera a 37 anni da regista. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, persona squisita, sebbene un po’ noiosa perché dedita esclusivamente al calcio. Educato, ma non ruffiano, sanguigno marchigiano, l’uomo del “piglio giusto” per pochi centimetri non divenne l’eroe di Brema, quando una sua traversa dalla distanza segnò l’eliminazione del Verona di Bagnoli dai quarti di Coppa Uefa e di fatto la fine del leggendario ciclo dell’Osvaldo. Calzettoni abbassati, polpacci da paura, basso e tozzo, capelli al vento, con Galia faceva un coppia di fatto lì in mezzo al campo.

Celeste Pin (1991-95). Stopperone, uno dei pochi sempre puntuali e positivi in un periodo di alti e bassi per il Verona. Mi esaltava nei duelli rusticani coi centravanti avversari, ricordo i suoi capelli quasi mohicani e la sua corsa da guerriero, il suo senso dell’anticipo e il suo numero 5. Pin mi riporta al calcio della marcatura a uomo, dei difensori con pochi fronzoli e a cui non veniva chiesto di impostare.

Roberto Tricella (1979-87). Giocatore sontuoso, primo libero che sapeva anche sganciarsi e offendere. Tecnica e carisma a chili, ebbe solo la sfortuna di giocare nello stesso periodo di Scirea e Baresi, i due monstre nel ruolo. Capitano dello scudetto, Tricella era con Di Gennaro, Briegel, Elkijaer e Fanna uno dei 5 fuoriclasse di quello squadrone.

Pietro Fanna (1982-85 – 1989-93). Pierino accendeva il “Turbo”, come raccontano le cronache dell’epoca. Ambidestro, giocava indifferentemente a destra e a sinistra, ala-tornante classica  come non ce ne sono più. Diceva Mandorlini l’altra sera in un fuorionda: “Pierino aveva un cambio di passo che io ho visto a pochi, ed aveva anche grande struttura fisica, nel calcio di oggi sarebbe un top player”. Quel gol al Napoli al San Paolo poi è da album dei ricordi, non poi così diverso da quello di Maradona contro l’Inghilterra o di Baggio in Napoli-Fiorentina. Fanna è stato un grandissimo, ma fuori da Verona ha pagato il suo carattere troppo perbene e remissivo.

Antonio Marasco (1998-00). Ho amato questo giocatore, che per me incarnava il Verona prandelliano. Lui e Pin sono i motivi per cui a calcetto gioco col 5. Mediano di quantità e qualità, centrocampista moderno, ha cambiato il primo Verona di Prandelli, che col suo arrivo sistemò il centrocampo e iniziò la marcia verso la serie A. Lui, fuori dalla classica retorica, davvero non mollava mai. E’ stato poi squalificato per calcioscommesse, ma io voglio ricordarlo per quello che ha dato al Verona in quegli splendidi due anni.

Totò De Vitis (1995-99). Il bomber, il mio bomber. Io, per motivi di età, non posso inserire i vari Luppi, Clerici, Bui e Zigoni. Per me c’è De Vitis, attaccante all’antica, devoto solo al gol e all’area di rigore. Seppur dotato di grande tecnica, partecipava poco volentieri alla manovra, lui mero finalizzatore, lui slegato dagli altri dieci. Tuttavia ogni pallone vagante in area, con De Vitis era un pericolo per gli avversari. Destro e sinistro, colpo di testa e agilità acrobatica. Totò è stato l’essenza del centravanti.

Domenico Morfeo (2000). L’impronta dell’artista, quei geni a cui tu ti leghi  anche se loro non si legano a te. A prescindere. Morfeo ha cambiato il secondo Verona prandelliano, portandolo a un nono posto eccezionale se escludiamo l’epopea di Bagnoli. Brutto carattere Morfeo, iroso, lunatico, irascibile con compagni ed avversari. Il più grande talento inespresso del calcio italiano, con buona pace di Cassano & C.

Preben Larsen Elkijear (1984-88). Be’ ha bisogno di presentazioni? Il più forte giocatore della storia del Verona, con Platini, Mattheus e Lineker il migliore giocatore europeo degli anni ’80. “Cavallo Pazzo”, “Vichingo”, chiamatelo come volete. Per me è Preben e ho avuto la fortuna di viverlo. Il gol senza scarpa, il finto assegno firmato a Wurz, ognuno ha il suo ricordo. Il mio? Quel fantastico gol a San Siro l’11 ottobre 1987 e la sua esultanza vergine. Finì 1-1 (l’Inter pareggio con Scifo su assist di testa di un certo Mandorlini). Fu con Preben che battezzai la mia prima trasferta.

Ho lasciato fuori, con dispiacere, altri “miei” protagonisti, penso a Peruzzi e Frey, Falsini e Vanoli, Calisti e Pusceddu, Galia, Ficcadenti e Valoti, Gaudenzi e Davide Pellegrini. Dovevo sceglierne 11 e ne ho preferiti altri. Voi chi scegliete? Quali sono le vostre “figurine” gialloblù?.

 

 

STOP ALLE CONFERENZE STAMPA DEI NEOACQUISTI

Valeri Bojinov è un ragazzo poco furbo, che crede di essere furbo. “Il Verona vale la Juve” dice ammiccando qua e là. Un complimento, nelle intenzioni, in realtà una gaffe non da poco. Perché paragonare, come “piazza” e “tifo”, il Verona alla Juve, storicamente la tifoseria più distante da quelle che erano le Brigate, come stile e modo di tifare, non è proprio un bel biglietto di presentazione. Augurandomi che Bojinov torni presto a fare gol, come prima cosa potrebbe cambiare l’entourage che lo consiglia. Ecco, magari prenda in prestito quello del suo nuovo compagno Fabrizio Cacciatore, un ragazzo molto furbo, che non vuole dare l’impressione di esserlo. “Verona come piazza vale la Fiorentina e la Lazio”, guarda a caso le squadre a noi “gemellate”. Bravo Cacciatore, avanti così e presto la gente ti amerà.

Per Daniele Cacia la strada invece è in salita. Nei suoi rapporti con la lingua italiana, intendo,  fra passati remoti… molto remoti (“io potti”, è una perla) e timidi avvitamenti a congiuntivi sconosciuti, tentati invano e repentinamente abbandonati per il porto più sicuro dell’indicativo. La “supercazzola” del conte Mascetti alias Ugo Tognazzi, in confronto, era nulla.  Ma che volete… “sono calciatori” mi è stato detto; “l’importante è che parli la lingua del gol” si è aggiunto.

Importante sarebbe anche abolire le conferenze stampa di presentazione, stucchevoli e scontate, banali e noiose, ruffiane e grossolane. O non andarci proprio. O “pubblicarle” sui giornali prima che avvengano, così per protesta, o per vedere l’effetto che fa. Qualche anno fa feci un esperimento: scrissi un “pezzo” poche ore prima della presentazione di un calciatore, anticipandone i virgolettati. Immaginai una serie di “ho sposato il progetto”, “arrivo in una piazza importante” e “ho detto subito di sì”. Fui facile profeta, anche perché non mi arrischiai suI confini del paraculismo estremo del “sognavo fin da bambino di indossare questa maglia”. C’è un limite a tutto, eppoi quel giorno non presentavano mica Pippo Inzaghi.

PERCHE’ NON JORGINHO DAVANTI ALLA DIFESA?

Ha il calcio nel sangue, Frello Filho Jorge. Qualcuno l’ha definito il “piccolo Falcao”, a me ricorda più Dunga, ma per tutti al momento è solo Jorginho. “Lui vede il calcio in anticipo, sa già cosa fare prima di ricevere palla” diceva del brasiliano, in tempi non sospetti (un anno fa, prima che si rivelasse), Mauro Gibellini. E Andrea Mandorlini, in quello stesso periodo, ebbe la geniale intuizione di schierarlo da “finto” trequartista, in realtà regista avanzato nel 4-3-1-2 che, la scorsa stagione, è stato lo schema di gioco del Verona migliore (quello delle otto vittorie consecutive). Un ruolo che adesso non gli si adatterebbe avendo alle sue spalle non più l’amico Tachtsidis, dalle caratteristiche complementari, ma il (per ora) compassato Bacinovic. Eppoi Jorginho, già nella seconda parte della scorsa stagione, quando Mandorlini ritornò al 4-3-3, si è rivelato abile anche da mezz’ala destra, ruolo che ricopre tutt’ora.

Eppure l’impressione è che lì da interno Jorginho sia… “sprecato”. Il suo talento, la sua intraprendenza, la sua velocità di esecuzione forse meriterebbero di essere messi alla prova nel cuore della manovra: in regia davanti alla difesa, ruolo d’origine del centrocampista di Imbituba. E in effetti il mister ci ha pensato e ci pensa, tuttavia ci sono degli equilibri, non solo tecnici, che lo frenano.

Chi al momento ricopre quel ruolo, Bacinovic, seppur in prestito, è un po’ il fiore all’occhiello del mercato dell’Hellas. E’ il giocatore più pagato (sebbene l’ingaggio sia coperto anche dal Palermo, titolare del cartellino), voluto a tutti i costi da Sogliano. Non si può mettere in panchina con leggerezza, significherebbe smentire la società. Preferibile, quindi, e anche comprensibile, lavorarci un po’ sullo sloveno secondo il principio (condivisibile) che chi ha qualità va aspettato. L’errore, tuttavia, sarebbe attendere troppo. Resta poi un dato di fatto: finora con Jorginho in regia e il mediano Laner (riserva di lusso) al suo fianco si è visto un Verona più equilibrato, penso al secondo tempo col Palermo e l’ultimo spezzone di gara a Modena.

Premesso che i moduli nel calcio non sono il Vangelo, ma solo uno strumento per mettere i giocatori nelle migliori condizioni di esprimersi, lo stesso modulo (nel caso del Verona il 4-3-3) può avere una sostanza diversa a seconda degli interpreti. Jorginho l’hanno scorso non era ritenuto pronto a giocare davanti alla difesa in serie B. Troppo leggerino, si diceva, e poi c’era Tachtsidis. Oggi Jorginho è leggerino solo nella corporatura, ma non lo è assolutamente nel modo di giocare, per questo piace da matti a Mandorlini. Ha gamba, contrasto e sa farsi rispettare contro chiunque. Ed è capace di far girare la squadra come pochi. Proprio sicuri che, Bacinovic o meno, il sostituto di Tachtsidis non ce l’avessimo già?

NON SOPPORTO MANDORLINI, MA LO DIFENDO

Premetto: Andrea Mandorlini mi è antipatico, perché io, caratterialmente “anarchico” da sempre , provo antipatia per tutti i capipopolo, specie se  ruffiani. Mi è antipatico perché si tatua la scala come fosse un tifoso, ma un tifoso lui non è. Il tifoso è sacro, i simboli pure e ci vorrebbe un po’ di pudore prima di legarli a sé (so di essere tra i pochi a pensarla così, eppure credo che il mio pensiero non sia troppo distante da quello degli ultras storici). E, ricordo, che il Mandorlini da pochi mesi tatuato, poco più di un anno fa (giugno 2011), prima di Salerno, era pronto a lasciare la baracca e a firmare per lo Spezia.  E  l’anno scorso alcuni suoi errori sono stati determinanti nell’arrivare col fiato corto a primavera.

Eppure voglio, anzi, devo difenderlo dopo il brutto esordio del Verona a Modena. Per amore della verità e dell’obiettività. L’ho scritto l’8 agosto (sono stato l’unico): “E’ veramente il Verona di Mandorlini?”.  Nel “pezzo” sottolineavo le contraddizioni di un organico costruito dalla società non sulle corde dell’allenatore. La mia tesi era che questo non è il Verona del mister. Le amichevoli estive, a differenza di molti entusiasti, mi avevano lasciato perplesso. Perplessità confermate a Modena. Nell’attesa (e soprattutto nella speranza) di essere smentito dai fatti, torno sull’argomento.

Sogliano ha portato a Verona giocatori scelti da lui. Ed è giusto, i giocatori sono patrimonio della società, ergo li deve scegliere la società. Tuttavia il ds non ha consultato l’allenatore sulle caratteristiche tecniche e fisiche dei giocatori da inserire. Ed è sbagliato. Pure il vituperato Pastorello, che faceva e disfaceva a suo piacimento, comprava giocatori adatti al modulo dell’allenatore di turno. L’ho scritto e lo ribadisco: Mandorlini, da trapattoniano puro, da sempre predilige giocatori fisici, aggressivi, di corsa e sostanza, specie in mezzo al campo. Perso Tachsidis è arrivato Bacinovic. Lo sloveno, a differenza del greco, è “leggerino”, lezioso, statico e con poco mordente. Sembra un dettaglio, in realtà stiamo parlando del ruolo chiave della squadra, del vecchio numero “4”, del giocatore, per capirci, da cui dipendono la fase difensiva e offensiva. Aggiungo: Mandorlini, che coerentemente col verbo trapattoniano  innanzitutto pensa a non prenderle, ama giocare con terzini marcatori bloccati dietro, vedi gli Abbate e i Scaglia dell’anno scorso. Quest’anno abbiamo Crespo (peraltro bravo) e Fatic, che sono terzini-ala, fluidificanti, bravi a spingere, meno a coprire. Ieri sera al Braglia ho visto spesso Moras e lo stesso Maietta in difficoltà, sottopressione e in inferiorità numerica, a causa delle praterie lasciate dai due terzini sulle fasce e da Bacinovic in mezzo. Ed è bastato che il modesto Modena nella ripresa alzasse il ritmo di gioco (come fatto dalla Virtus Entella e dal Genoa nel primo tempo, ma non da Fiorentina e Palermo) per mettere in crisi un squadra di palleggiatori piuttosto sbilanciata.

Ho come l’impressione che Sogliano abbia fatto 30 e non 31… Ha cambiato il dna del Verona mandorliano senza cambiare Mandorlini. Per questo non può essere (ancora?) il Verona di Mandorlini. E di questo Mandorlini, paradossalmente, è il meno colpevole. Perciò lo difendo.  Mi è antipatico, ma lo difendo, anche se non vorrei. Non vorrei, non per l’antipatia, ma perché si difendono le persone in difficoltà e io spererei che Mandorlini non lo fosse. Adesso è quasi irriconoscibile, tra il malinconico e l’inquieto, senza il suo solito cipiglio non ispira nemmeno antipatia. Io invece lo rivoglio vincente e arrogante, presuntuoso e insopportabile. Spero, insomma, che torni al più presto a starmi sulle balle. Già da sabato con lo Spezia.

LE CATENE DI PESOLI

“M’incateno e faccio lo sciopero della fame, devo far valere le mie ragioni”. Fin dal principio Emanuele Pesoli, difensore di Anagni, città dei Papi, l’aveva deciso: “Se mi condannano questa sarà la mia protesta” aveva confidato alla moglie, agli amici e al suo avvocato. Accusato nell’inchiesta “Last Bet” da Carlo Gervasoni di tentata combine (non riuscita) di Siena-Varese del 21 maggio 2011 ( finita 5-0), Pesoli è stato condannato in primo grado a 3 anni di squalifica. E per cinque giorni ha tenuto fede alla sua promessa: si è  incatenato davanti alla Figc facendo lo sciopero della fame.

Ecco uno stralcio della deposizione di Gervasoni: ” Quanto a Siena-Varese del 21 maggio 2011 conclusasi 5-0 preciso quanto segue… Il Pesoli mi chiese se conoscevo qualcuno del Siena per verificare se loro fossero disposti a pareggiare con il Varese. Pertanto contattai Carobbio per verificare questa possibilità ma lui mi disse subito che non potevano fare nulla in quanto si trattava dell’ultima partita casalinga del Siena con Conte allenatore…”. La stessa partita è incriminata per la parallela tentata combine del presidente del Siena Mezzaroma che, secondo l’altro pentito Carobbio, chiese ai suoi di perdere ricevendo il rifiuto degli stessi giocatori e dello staff tecnico, in particolare Conte e il suo vice Stellini.

Aitante, belloccio, un po’ tamarro, Pesoli non è il tipo che penseresti incatenato e affamato per far valere delle ragioni. Lo immagineresti più “tronista” che pasionario, più vacuo che incazzato. Eppure le sue catene ci devono far riflettere su come funziona la giustizia sportiva in Italia. Il mio è un ragionamento prettamente formale, in punta di diritto, perché poi, se andiamo alla sostanza delle cose, metterei la mano sul fuoco su pochi giocatori al mondo (e Pesoli non fa parte di questi) e quel Siena-Varese è possibile sia stato tentativo di combine. Parliamo infatti della classica partita di fine stagione, col Siena già promosso in A e il Varese certo dei play off da quinto classificato e, piaccia o non piaccia, sappiamo (sebbene non si possa dimostrare) come funzionano le cose in Italia nel mondo del calcio.

Il mio ragionamento tuttavia è appunto prettamente formale rispetto alla presunta o reale colpevolezza di Pesoli & C. Ciò non significa che sia meno importante – in giurisprudenza spesso la forma è anche sostanza – perché va a incidere sul funzionamento della giustizia sportiva, opposto a quella ordinaria. Nel processo sportivo l’onere della prova è invertito: non è l’accusatore che deve dimostrare la colpevolezza dell’accusato, ma l’accusato che deve dimostrare di essere innocente. Non è un dettaglio, è tutto. Ergo: il diritto sportivo è permeato da un principio fondante (l’onere della prova, appunto) “giustizialista” e non “garantista”. E’ giusto questo se di mezzo ci sono persone, con una carriera, una famiglia e delle legittime ambizioni?

Altresì nel processo sportivo, come in quello civile (ma non penale), la pena è immediatamente esecutiva. Ma nel civile in ballo ci sono “solo” soldi, non la libertà di una persona (come nel penale, dove infatti per questo motivo la condanna è giustamente esecutiva solo dopo il terzo grado). E nello sportivo? Anche qua, per certi versi, a mio parere c’è di mezzo un principio di libertà (di lavorare, di carriera ecc). Pertanto dovrebbe funzionare come nel penale: condanna esecutiva  dopo il Tnas del Coni.

La tara giustizialista del ordinamento sportivo, infine, non prevede l’obbligo, se richiesto dalla difesa, di contradditorio tra le parti in aula, che è a discrezione dell’accusa. Mi sembra un “vuoto giuridico”, una mancanza volutamente arbitraria, da giustizia sommaria. In un processo dove l’accusato parte già in svantaggio (appunto per l’onere della prova invertita rispetto alla giustizia ordinaria), non puoi mettergli al cappio pure l’impossibilità di difendersi da un pentito, il cui parere così facendo ha più valore.

Ecco, le catene di Pesoli non devono commuoverci. Le catene di Pesoli non devono nemmeno condizionare il nostro giudizio, troppo spesso “tifoso” e non da cittadini maturi e informati (voglio dire Conte non è un criminale perché juventino e Pesoli e Ferrari innocenti perché del Verona, e viceversa). Le catene di Pesoli dovrebbero semplicemente farci riflettere su queste oggettive storture giuridiche. E insinuare un dubbio:  la giustizia è davvero giusta?

 

 

 

 

 

 

E’ VERAMENTE IL VERONA DI MANDORLINI?

“Mister non le chiedo il primo o secondo posto, può anche arrivare terzo purché a dieci punti dalla quarta”. Questa, mi riferiscono, la battuta in privato fatta da Maurizio Setti ad Andrea Mandorlini al raduno. Traduzione: serie A diretta obiettivo unico. L’allenatore, sebbene non abbia mai finora sbandierato pubblicamente la parola promozione, è consapevole come la società (più che la piazza che lo ama a prescindere) gli abbia messo determinate pressioni addosso. D’altronde, la campagna acquisti e gli investimenti fatti autorizzano a pensare in grande e Mandorlini sa che quanto compiuto negli ultimi due anni, seppur gli sia valsa la riconferma, è già storia e non ha più valore nelle valutazioni presenti e future di Setti  & C.

Anche il gruppo è stato rivoluzionato. Sean Sogliano ci ha messo i “suoi” giocatori, gente che è venuta qua, oltreché per l’offerta economica e professionale, perché c’è lui (e non l’allenatore). Questo la dice lunga su chi ha in mano lo spogliatoio. Un organico indiscutibilmente di grande qualità ma di cui nessuno, sinora, ha sottolineato la discrepanza con la tipologia di giocatori che ha sempre amato l’allenatore. La rosa è composta, dal centrocampo in su, perlopiù da elementi tecnici, leggeri, abili palleggiatori, quando l’humus del Verona di Mandorlini è sempre stata la fisicità, la corsa, le verticalizzazioni e le incursioni di forza.

Ecco è proprio questo il punto. Non voglio recitare la parte di quello che rovina la festa spegnendo la musica mentre tutti ballano. Non voglio, altresì, calmare  il mare agitato di entusiasmo (anche della testata che gentilmente mi ospita) che si è creato attorno all’Hellas. Tuttavia l’onestà intellettuale mi impone una riflessione. Non basta un (pur ottimo) assembramento di giocatori per vincere un campionato, bisogna essere “squadra”. Ed è questo il punto: siamo sicuri che “questa” sia effettivamente la squadra che avrebbe voluto Mandorlini?

Mettiamo che non lo sia (e per me, l’avrete capito, non lo è), be’ sarebbe un problema fino a un certo punto e teoricamente risolvibile. In fin dei conti il mondo del calcio è pieno di società con allenatori che si limitano ad allenare  e a gestire un gruppo di giocatori scelto dai dirigenti. Ma qui scatta la seconda domanda. Mandorlini, emotivo, dittatoriale, “padre padrone”, per indole anarchica e solitaria  poco aziendalista, lui stesso essenza del “potere carismatico e non democratico” (cit.) per dirla col sociologo Max Weber, è capace di fare “solo” il tecnico? Di “limitarsi” ad allenare giocatori non scelti da lui? Be’ sono perplesso. Mandorlini come tutti gli emotivi (razza che conosco bene) necessita di sentirsi sulla pelle la creatura che ha in mano. Mandorlini, per inciso, non è e non potrà essere mai un mero esecutore.

Anche questo è un nodo risolvibile. Come? L’allenatore DEVE trasformare in “suo” ciò che adesso “suo” ancora non è. Col Palermo, infatti, il Verona non mi ha convinto, anche se a sentire commenti e interviste sembrava la squadra perfetta. Non vorrei, in sostanza, si sottovalutassero gli aspetti che ho ricordato con l’ottuso entusiasmo che si dispiega nel (sbagliatissimo) concetto “ coi giocatori che abbiamo possiamo solo vincere”. Io sostengo invece che, viste le premesse, il ruolo del tecnico quest’anno è ancora più determinante che negli anni scorsi. In sintesi:  è quest’anno che Mandorlini è chiamato al suo vero capolavoro.