MR MANDORLINI

Gli occhi non sono lo specchio dell’anima. Non l’ho mai pensato e Andrea Mandorlini me l’ha confermato. Ha gli occhi di ghiaccio l’allenatore del Verona. Quegli occhi da spietato e cinico condottiero senza macchia e senza paura che nascondono in realtà tutt’altra persona: fumantina, sanguigna, poco fredda e molto emotiva. A tratti leonina, a momenti timorosa. Anche fragile e romantica, per certi versi. Molto contradditoria e altrettanto affascinante.  Mandorlini è uno che non se ne frega, cova e poi sfoga. I detrattori lo accusano di essere un capopopolo un po’ ruffiano. Lo è, ma non per ipocrisia (che il tecnico non ha nel dna), direi piuttosto per narcisismo. Mandorlini necessita di essere amato, adorato, addirittura venerato dalla sua gente. Lui, in cambio, per la gente ci mette la faccia, gli piace ergersi a paladino del suo popolo, fino a prendersi insulti da mezza Italia e un deferimento per un coretto ironico, e a rischiare botte da orbi a Salerno per aver osato parlare male degli avversari meridionali nei giorni precedenti alla partita.

Mandorlini queste azioni non le compie per ingenuità, o per puro istinto. Mica è scemo, l’uomo. Agisce così semplicemente perché non ne può fare a meno. Determinati gesti lo fanno sentire vivo, se stesso, lo gratificano. Se fosse diplomatico magari avrebbe avuto ben altra carriera, ma non starebbe bene. Sfogare il proprio ego vale più di mille trofei. Mandorlini, quindi, ha preferito essere “re in Gallia che “servo a Roma”. Meglio numero 1 a Verona, che uno qualunque altrove.

Anche il popolo dell’Hellas lo ama perché ne ha bisogno. Ha bisogno di avere un rappresentante che ci metta voce e faccia. Ha bisogno che le frustrazioni, i torti, gli arbitraggi vessatori, le eventuali discriminazioni nazionali trovino sfogo e un contraltare pubblico e autorevole. Ha bisogno di sentirsi protetto da un leader e un referente ben definito.  Per questo Mandorlini non è solo un semplice allenatore qui a Verona. Per questo “non si tocca”, come tanti hanno scritto in questi giorni anche su questo sito. Al di là dei risultati. Al di sopra delle questioni tecniche. Prescindendo da eventuali nuovi equilibri societari.

Questo però, permettetemi, portato all’eccesso è pericoloso. Credo che l’Hellas venga prima di tutto: prima di presidenti, allenatori e giocatori, come da anni la Curva Sud canta convintamente. Mandorlini è stato un discreto giocatore che ha fatto una grande carriera (grazie al carattere) ed è un grande allenatore che ha fatto una discreta carriera (per colpa del carattere). Teniamocelo stretto, quindi, per le sue qualità (un lusso per la B) e anche per il suo feeling con la piazza e la città. Ricordandoci, altresì, che il solo totem è l’Hellas, l’unica cosa che “non si tocca” sono i colori gialloblù. Non Mandorlini, non Martinelli, non Setti. “Cambieranno i giocatori, il presidente, l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”, è un canto pieno di significato. Non sconfessiamolo.

 

STORIE DA SCOMMESSOPOLI

Piange il telefono, cantava Modugno. Solo il suo, pare. Quello di decine di giocatori di serie A e B bolliva da anni di proposte e affari indecenti. Partite truccate, a sentire tre procure della Repubblica e due (ex) calciatori pentiti (forse adesso tre con Gianello). Piangono in compenso gli indagati di tutta la vicenda. Che lamentano la “gogna” mediatica, non si sa a quale titolo, dacché sono personaggi pubblici e si tratta di notizie già pubbliche, ricordo, agli atti giudiziari (quindi nessuna fuga di notizie). Ma non si difendono nel merito.

Il più “piangini” di tutti è un allenatore di bianconero strisciato, da poco scudettato, che lamenta di aver ricevuto l’avviso di garanzia (che è appunto un atto a garanzia dell’indagato, mica una pistola puntata) senza essere stato ascoltato dai pm (come se i magistrati fossero obbligati a farlo), mostrando un’ignoranza giuridica mica da scherzo. Ma questo signore un tempo stempiato e ora dal ciuffo rigoglioso, un po’ lo capisco. S’impegna allo spasimo per accampare scuse tirate per i capelli (capelli, sì insomma ci siamo capiti) e poi arriva il suo presidente, dal cognome importante, ma dall’intelligenza meno importante, che per difenderlo, in un attimo lo sotterra,asserendo grave: “Il ruolo del nostro allenatore è marginale in tutta questa vicenda”. “Marginale”, avete capito bene. E’ come se uno vi beccasse a rubare e vi difendesse dicendo: “Ma ha rubato solo un po’”. Geniale, direi. Questo pover’uomo non fa tempo a ripigliarsi dal cosiddetto “fuoco amico”, che accorre in suo soccorso il radiato Luciano Moggi, il quale dichiara restando serio: “Per Conte garantisco io”. Una mazzata!

Poi c’è il portiere e capitano della nazionale, che in conferenza stampa, senza che nessun dirigente federale fermi in tempo il noto giurista, attacca confusamente la magistratura. Un tizio più importante di lui, non tanto alto, asfaltato in testa, con tanti “danè”, l’ha fatto per anni e chissà che anche Buffon non possa ambire a diventare premier. La stoffa c’è.

Tralasciando il giocatore simbolo del Chievo, che lacrima a nove colonne nell’intervista in ginocchio pubblicata dal quotidiano locale. Intervista senza una domanda vera, un concentrato di piaggeria e compiacenza. Salvo poi, il medesimo, rifiutare tracotante le interviste dagli altri media, che forse qualche semplice e legittima domanda volevano farla.

E i calciatori arrestati? In silenzio per mesi, chi per omertà, o connivenza, chi magari anche solo per paura, adesso tutti smaniosi di parlare coi magistrati. Già, la cantilena più in voga di questa tarda primavera è dei loro avvocati: “Il mio assistito non vede l’ora di chiarire la sua posizione con gli inquirenti”. Shakira ha materiale per il prossimo tormentone estivo.

E poi c’è il popolo. Che reagisce accalorato in base alle evenienze e alle convenienze di tifoso. Sarebbe divertente se non fosse in realtà tristissimo. Il tifoso si sveglia alla mattina ipergarantista perché vede indagato un suo beniamino, ma al pomeriggio ha improvvisamente un attacco di accalorato giustizialismo se legge che di mezzo c’è il giocatore della squadra odiata. Salvo poi, alla sera, trovarsi al bar e gattopardoscamente riuscire a essere, in base all’interlocutore, per cinque minuti un novello Torquemada, e per altri cinque un raffinato cultore dello stato di diritto. Una cosa da mal di testa, il rischio svenimento c’è.

Eppure è una cosa molto italiana. Una penna raffinata ed emarginata come Oliviero Beha lo sostiene da anni nei suoi libri: il vero scandalo in questo Paese è che siamo tutti molto tifosi e molto poco cittadini.

 

MA E’ SETTI O RANZANI?

Lo ammetto, la prima volta che ho sentito e visto Maurizio Setti, ho pensato al classico personaggio che a Milano definirebbero “bauscia”. Sì il classico tizio “splendido”, arricchito e un po’ sbruffone. Sarà stato per quella parlata, l’eloquio aggressivo, la logorrea incessante. E poi quella camicia bianca aperta, con la collanina d’ordinanza… E le foto con Danny Mendez ed Elena Santarelli. A vederlo, immaginavo divertito anche il resto. Chessò magari un pantalone colorato e acceso, stile casual-elegante, con la scarpa da ginnastica vistosa ma di tendenza. O l’incedere sicuro con tanto di “pacca sulla spalla” d’ordinanza all’interlocutore di turno, e il cellulare sempre all’orecchio. Poi quando ho saputo del suo Porsche Cayenne e dell’aereo personale, be’, ho pensato immediatamente al “Marco Ranzani di Cantù”, il personaggio inventato a Radio Deejay da dj Angelo e interpretato da Albertino a Zelig. Ranzani ricco imprenditore proprietario un po’ di tutto, dalla squadra di pallacanestro locale, all’aeroporto di Cantù. Non bastasse quando Vighini l’ha chiamato, il Nostro se l’è “tirata” immediatamente: “Eh scusi ma sono in riunione”. Salvo poi concedersi col consueto cipiglio per cinque minuti buoni.

Sia come sia, è un fatto che a Verona, a certi livelli, manchino personaggi così. Setti dice che gli emiliani sono più esuberanti dei veneti. Sarà, di sicuro a Verona i grandi imprenditori sono una sorta di fantasmi. Degli E.T non meglio identificati. Fuori dai loro circoli, dalle loro personali feste di beneficenza, dai loro congressi aziendali o confindustriali, non li vedi e non li senti. Spesso non sai manco dove abitano. Giocano ai loro affari a fari spenti, equidistanti, anzi “equivicini”, mai una presa di posizione, o un iniziativa davvero sociale. Al limite impegnano risorse per un evento di due giorni (Giro d’Italia, Mondiali di Ciclismo). In loro impera il basso profilo, declinato all’ennesima potenza dal proverbiale “laora e tasi”. Figuriamoci se entrano nel calcio. Non esistono visionari, da noi. Comunicatori ancor meno.

Setti lo è? Non so. Però dopo anni di deserto attorno all’Hellas, di “Inferno” calcistico, di depressione da Lega Pro, mi piacerebbe un presidente un po’ smargiasso. Fatta salva la competenza, perché di “Ranzani”  qui a Verona non ne abbiamo bisogno. Per quello basta accendere Zelig.

OSCAR WILDE E IL PESSIMISMO ATTORNO ALL’HELLAS!

Vorrei dimenticare, per un attimo, Oscar Wilde. “L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero”, recita uno dei suoi geniali paradossi. Vorrei dimenticarlo perché non mi piace il clima che gravita da settimane attorno all’Hellas.

I pessimisti sono perennemente all’opera, open door, 0-24. “Ai play-off non andiamo in A, bisogna salire diretti”, sentivo dire da tempo. E lunedì sera, quando (probabilmente) il sogno della promozione diretta è svanito, ecco che i “vedo nero” sono tornati a guaire di gran carriera: “Basta, è finita. Abbiamo dato tutto, dobbiamo pensare all’anno prossimo”. “Ai play-off fanno passare la Sampdoria che ha peso politico”. “Arriviamo ai play-off scarichi”.

Dimentichiamo Wilde, per cortesia. “Il migliore dei mondi possibili” non è andare ai play-off per partecipare da vittime designate. Smettiamola di fissare afflitti le suole delle scarpe e guardiamoci negli occhi: l’Hellas ha tutto per giocarsela. Il buon Mandorlini rimedierà ai recenti errori, Halfredsson tornerà a ruggire e D’Alessandro sarà l’arma in più. E non è vero che arriviamo agli spareggi psicologicamente scarichi: i giocatori sapevano che era nel ventaglio delle possibilità e, aggiungo, non siamo mai stati a lungo nelle prime due da poter dare per scontata, o acqusita, la promozione diretta.

Non pensiamo al “palazzo”, agli arbitri e agli equilibri geopolitici. Pensiamo a tornare a essere l’Hellas. Io ho deciso, da qua a giugno dimentico Wilde e mi fido solo di Victor Hugo. Non lo scrittore, ma il nostro sgraziato difensore, Mareco, che in tempi non sospetti me l’ha garantito: “Se arriviamo tra le prime quattro, saliamo sicuri”.  Alla faccia della scaramanzia (non siamo napoletani!),  inoculiamoci una scarica di ottimismo. Fa bene.

COM’E’ TRISTE DIRSI ADDIO

Mark Van Bommel piange: “Il Milan è come una famiglia, mi spiace lasciarlo, ma devo”. Pippo Inzaghi sospira: “Milan nel cuore, avrei voluto non finisse mai”. Marco Di Vaio singhiozza affranto: “Lascio Bologna, ma è un arrivederci”.

Com’è struggente dirsi addio. Per gli interessati e anche per noi, cui tocca sorbirci queste lacrimanti pantomime. Molto retoriche e sempre televisive. Lo confesso, ci mancava poco e  veniva da piangere anche a me. Era dai tempi di “Stranamore” e del “dottor Castagna” che non mi commuovevo così. Neppure il Barbareschi d’antan e il suo “C’eravamo tanto amati” avrebbero saputo far meglio.

Ero già con un kleneex in mano, disperato e inconsolabile, che poi è arrivato quel cinico barbaro  di Rino Gattuso, che ha ringhiato fino alla fine: “Milan non sono un gagliardetto, me ne vado”. Ci sono rimasto male e ho buttato via il fazzoletto, non serviva più. Non bastasse, l’ha seguito a ruota quel maleducato irriconoscente di Alessandro Del Piero, che non ha voluto nessuna festa d’addio ufficiale per  il suo epilogo con la Juventus. E la delusione è diventata shock.

Ho dovuto riprendere il kleneex, ché stavano diventando lacrime di rabbia per tale ingratitudine. Ma probabilmente non era destino che dovessi usarlo. Infatti dalla Spagna mi ha tranquillizzato Pep Guardiola: “Lascio il Barcellona perché sono stanco”. Poi da Roma ci ha pensato il suo amico asturiano, Luis Enrique a fargli eco: “Anch’io lascio perché stanco”. Ho sorriso sollevato, pensando: “Che bello, almeno loro possono riposare dalla tirannia del lavoro quotidiano, ribelli bolscevichi contro la schiavitù padronale”. Poi ho letto del loro contratto: certo milionario, ma saranno di sicuro “indennità per lavoro usurante” ho riflettuto, tuttavia a tempo determinato. Pure precari sono, poverini! ho esclamato allibito. Trattati peggio dei metalmeccanici sindacalizzati, o alla stregua di insignificanti insegnanti fancazzisti! Un pacchetto di kleneex mi ci sarebbe voluto, altroché.

Perlomeno, ora, percepisco l’essenza del ruolo di Damiano Tommasi e Renzo Ulivieri, sindacalisti rispettivamente dei calciatori e allenatori, nuove classe sottoproletaria degli anni Duemila.

Non ho ancora  capito, invece, se il mondo è assurdo, o solo relativo.

 

 

 

 

 

MA E’ OSVALDO BAGNOLI O WOODY ALLEN?

Geniale, Osvaldo Bagnoli. Gianni Brera lo ribattezzò “Shopenhauer”, ma la corrosiva freddura dell’altro giorno è degna del miglior Woody Allen o di un Groucho Marx.

Il tanto bravo quanto furbo tecnico della Juventus Antonio Conte l’ha buttata lì: “Se dovessimo vincere lo scudetto sarebbe un impresa come quella del Verona di Bagnoli”. Paragone assurdo – sebbene creato ad arte da Conte per ingigantire oltremisura i suoi (indubbi) meriti – e che pertanto ha fatto scalpore. Le reazioni della piazza veronese sono state di ovvia indignazione, per la acclarata bestemmia calcistica di mettere sullo stesso piano due imprese diversissime per evidenti motivi. Ma purtroppo anche di malcelato orgoglio. Dico purtroppo, perché sembra quasi che alcuni di noi si siano sentiti in dovere di essere pure lusingati da simile azzardo. Segno di sudditanza psicologica molto provinciale, che mi ha fatto venire in mente, per larga scala, una bellissima frase di Indro Montanelli: “La servitù in molti casi non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”.

In mezzo a tutto questo can can, tra blog e banconi del bar, se n’è uscito l’Osvaldo, ancora in gran forma a 76 anni. “La Juventus come noi? No noi avevamo più classe, loro sono una squadra operaia”. Fantastica. Mi sono sentito per cinque minuti metropolitano, classe padrona, portatore sano di complesso di superiorità. Perché Bagnoli, per quanto sembra incredibile (noi siamo pur sempre il piccolo Hellas, loro la grande Juve), ha detto una grande verità. Quindi la sua involontaria irriverenza risulta ancora più irriverente.

Chapeau, grande e immenso Osvaldo.

 

 

 

NON DIMENTICHIAMO CARLO PETRINI

Perlomeno è riuscito a risparmiarsi gli ipocriti, Carlo Petrini. E quegli odiosi e laudatori cori delle “prefiche” che seguono ogni morte di un personaggio pubblico. Il controverso “Pedro”, ex attaccante di Genoa, Milan, Roma, Bologna e Verona,  è rimasto solo fino alla fine. Anzi, oltre. Pure al funerale erano in pochi a ricordarlo. Delle sue ex società solo la Roma, col dg Franco Baldini (suo amico vero), era presente alla cerimonia. Nessun dirigente federale, solo due vecchi compagni di squadra, Hamrin e Fogli, la vedova dell’ex calciatore della Fiorentina Bruno Beatrice (morto di leucemia linfoblastica si sospetta per uso di doping) e la mamma di Denis Bergamini, il difensore del Cosenza “suicidato” dalla ‘ndrangheta calabrese nel 1989, secondo le ricostruzioni della Procura di Castrovillari, che ha riaperto l’inchiesta dopo vent’anni grazie anche al libro dello stesso Petrini (“Il calciatore suicidato”, pag. 148, Kaos ed.).

E il resto del mondo del calcio? Silenzio tombale. Silenzio di imbarazzo, ripicca, timore. Ma non di indifferenza. Un silenzio chiassoso, che troneggia, dispiega e parla. Un trafiletto di poche righe sulla Gazzetta il giorno dopo il funerale. Una notizia flash senza servizio e senza inviati il giorno della sua morte sulle tv nazionali. E rari e generici accenni all’attività di denuncia dei mali del calcio (doping e scommesse) che Petrini ha compiuto negli ultimi vent’anni. Decisamente meglio spendere fiumi di inchiostro e di giaculatorie post mortem per il latitante Chinaglia.  O versare litri di retorica per il funerale “celebrato” da Ligabue del povero e incolpevole Morosini (si parla quando bisognerebbe tacere, e viceversa).

Chiariamoci, Petrini come ho ricordato sopra è personaggio controverso. Che in quel calcio chiacchierato degli anni ‘70 ci ha navigato comodamente tra “siringhe, punture e scommesse” (parole sue). “Ero un mercenario, che pensava solo a drogarsi, scopare, incassare assegni e alterare i risultati. Un presuntuoso. Un coglione. Uno che credeva di essere un semidio e morirà come un disgraziato. Ero bello, forte, ricco, invidiato. Avevo tutto e ora non ho niente”, diceva il 28 dicembre scorso al Fatto Quotidiano, nella sua ultima intervista. Raccontava che lui, come molti altri, accettava volutamente quel sistema: “Venivamo da famiglie poverissime e rifiutare le punture, le pastiglie di Micoren, le terapie selvagge ai raggi X significava essere eliminati. Fuori dal circo. Indietro, in cantina, senza ragazze e macchine di lusso. Nei nostri miserabili tinelli, con la puzza di aringa che mia madre metteva in tavola un giorno sì e l’altro pure”. E anche dopo, una volta smesso col calcio, “Pedro” è entrato in giri finanziari con la malavita ed ha dovuto rifugiarsi in Francia per scappare alla giustizia. Spingendosi addirittura alla miseria umana di non voler andare a trovare il figlio morente, nonostante i disperati appelli di quest’ultimo, pur di non tornare in Italia ed essere arrestato. E’ evidente che non stiamo parlando di un monaco tibetano.

Ma Petrini è anche quello che ha pagato tutti gli errori fatti. Petrini si è ammalato di tumore al rene, al cervello e al polmone. Ha sofferto di un glaucoma che lo rendeva cieco. Tutto a causa del doping, sosteneva lui. Fino a morire a 64 anni. Petrini è stato squalificato per il calcio scommesse. Petrini ha vissuto anni nel senso di colpa per il figlio. Petrini, soprattutto, ha fatto nomi e cognomi nei suoi libri (in primis “Nel fango del Dio pallone” pag. 168, Kaos ed.), anche importanti, e raccontato fatti circoscritti. Senza, per inciso, ricevere mai una querela. Un pentimento tardivo, certamente, forse da persona ferita e inacidita, ma reale e non sospetto.

Voglio dire, la sua testimonianza non va accettata acriticamente. Tuttavia va colta, discussa, registrata, approfondita. Snobbarla invece significa lavarsene pilatescamente le mani, quasi si volesse dimenticare, così che il circo vada avanti. Facile poi che venga in mente la sibillina frase di Marcello Lippi, qualche anno fa, alla partita per Borgonovo, l’ex centravanti di Milan e Fiorentina malato di SLA: “A Stefano dobbiamo stargli vicini, perché lui non ha sparato fango sul mondo del calcio”. Carità pelosa. Omertà fastidiosa. Siamo tutti una grande famiglia, no?

“Pedro” invece ha parlato. “Non insinuo. Affermo, ma non ho prove, nonostante l’impegno del procuratore Guariniello hanno nascosto tutto”. “Pedro”, che non è stato un grande uomo. Anzi. Ma è un uomo che ci ha raccontato e lasciato qualcosa di importante. Preferiamo dimenticarlo?

RIVOGLIO IL LESSICO POPOLARE

Il dubbio sovvenne quel giorno. A una conferenza sentii un vecchio allenatore alto e coi baffi, anche un po’ commentatore, piuttosto logorroico, ma pure un po’ osservatore, chiamato con rispetto Professore, dire: “I terzini e le ali non esistono più, ora dobbiamo chiamarli esterni bassi e alti”. E allora cominciai a non capire: era cambiato il calcio o la lingua italiana? Tornai a casa e piuttosto confuso accesi la tv. Davano una partita. Andò pure peggio! Colsi che i contropiedi erano diventati ripartenze, o addirittura “attacchi a campo aperto”, che il regista era – non si sa a che titolo – diventato anch’egli “regista basso” o “alto”, come se fosse necessario distinguere l’assoluto, e che le sintesi ora si chiamavano highlights. I vecchi guardalinee erano divenuti più pomposamente “assistenti di linea”, gli arbitri – abbandonata l’allegorica “giacchette nere” – venivano definiti “direttori di gara”. Pure l’abbigliamento  aveva cambiato nome, le scarpe non erano più scarpe, ma “scarpini”.

E’ come se il calcio avesse perso quella sua connotazione popolare, anche lessicale. Ma ve li immaginate due tifosi al bar discutere di “esterni bassi che non spingono”, o di “ripartenze sprecate”? Certi termini sembrano fuoriusciti da una circolare ministeriale, tanto sono ridondanti e brutti (anche nel suono). Lo dico agli addetti ai lavori: tornate a parlare di terzini e contropiedi e vi farete amare di più!

Voglio però rassicurarvi. Il mio dubbio amletico è morto di recente nel breve volgere di una conversazione. Un giovane tecnico mi ha spiegato: “La ripartenza sta a significare una ripresa del gioco d’attacco veloce, rapida, sul breve, anche nella trequarti avversaria, della squadra prima difendente. Il contropiede invece è legato al gioco all’italiana: catenaccio, recupero del pallone e controattacco partendo dalla propria area di rigore”. Era un allenatore, o un fisico nucleare? Boh. Lì tuttavia ho compreso l’essenza di tutto: il calcio non è poi così cambiato, la lingua italiana sì.

QUANDO LE INTERVISTE AVEVANO (ANCORA) UN SENSO

«Oggi se un calciatore deve dire qualcosa, indice una conferenza stampa. All’epoca andava in trattoria coi giornalisti. Un giorno papà fece una lunghissima intervista a Rivera in tram, da casa sua a San Siro: s’immagina una cosa del genere oggi con Totti? Credo che fosse questa la cosa del suo lavoro che gli piaceva di più». Parole di Anna Viola, terzogenita del compianto Beppe, “giornalista sportivo perché tengo famiglia”, come  diceva di sé con una buone dose di autoironia mischiata a un pizzisco di snobismo.

Aggiungo io: raramente un calciatore ha da dire qualcosa. “Non è cambiato il calcio, è cambiata la società, sono cambiati gli uomini”, mi ha confessato di recente Giussi Farina, ex presidente del “Real” Vicenza e del Milan. “Oggi ci sono troppi intermediari tra il calciatore e i tifosi. Il calciatore medio, poi, ormai è come un attore, smaliziato, sa stare davanti alle telecamere e sa quello che deve dire e quello che non può dire”. Insomma, calciatori telecomandati dallo show businnes. Risultato? Banalità e nulla cosmico a nove colonne. Un gioco, questo, troppo spesso accettato anche da noi giornalisti. Per comodità e pigrizia, a volte: il giornalista “chiude” la pagina senza troppo sbattersi. Per “ragion di Stato”, anche: si compie il lavoro senza troppo infierire. Per costrizione, soprattutto. Gli addetti ai lavori, tra interviste a pagamento in esclusiva, addetti stampa, conferenze preconfezionate, giocatori imbeccati dai procuratori, ce lo impediscono ed è sempre più difficile “raccontare” qualcosa.

Così la pura cronaca sportiva è come il Panda del WWF. La narrazione è un genere ormai desueto, polvere celata dal tappeto della prosopopea. Eccezioni ce ne sono, leggi alcuni giganti del mestiere: Beha, Clerici, Mura, Terruzzi, Beccantini. Anche a livello locale, tra molti “notai”, c’è ancora chi ci mette del suo. Tuttavia sono, appunto, eccezioni. Tutto il resto è noia, per dirla col Califfo. Ergo pagine stantie, per certi versi surreali. Calciatori e allenatori che recitano sempre lo stesso spartito, malcelando loro stessi scarsa convinzione per le loro stanche chiose. Ricordo anni fa Luciano del Chievo, prima della rituale conferenza stampa del martedì, rivolto a un suo compagno, credo: “Aspettami, dico le solite cazzate e poi arrivo”. Beata sincerità, seppur inconsapevole.Così scorri le righe e sfogli le pagine ed è tutto un susseguirsi di frasi grottesche, di nonsense ridicoli, di annoiate e noiose banalità. “Andremo in campo per fare la nostra partita” (e che vuoi fare quella degli altri?). “Daremo il massimo” (pensavo voleste dare il minimo). “Scendiamo in campo per vincere” (ah io pensavo per perdere, Masiello docet). O ancora, un attaccante fa tre gol: be’ te lo immagini accorrere in sala stampa tutto eccitato, presumi che stia godendo “come un riccio” e voglia (legittimamente) urlarlo al mondo. E invece tocca sorbirti la sua chiosa da fedele pretoriano: “Non conta il singolo, ma la squadra. Non importa chi segna”. Per non parlare delle infinite ipocrisie: “Non penso al mercato, ma solo alla prossima partita”. O l’ecumenica: “Non esistono titolari e riserve”.

Sia chiaro, non chiedo nuovi Best, Meroni, Zigoni, Vendrame e compagnia. Non servono necessariamente “matti” e personaggi. Chiedo solo un po’ intelligenza in più e una dose di paranoia in meno . E’ troppo?

 

 

Una tiepida sera di fine estate…

Di Piermario Morosini ho sentito parlare la prima volta otto anni fa. Era il settembre 2004, a Zevio si giocava il “Memorial Pasquali”, torneo giovanile di preparazione al campionato Primavera. Tra le partecipanti c’era anche l’Atalanta, che l’anno prima aveva sfornato, come da tradizione, talenti di primo piano quali Pazzini, Montolivo e Guarente. Era il secondo anno che seguivo il torneo per l’Arena e appena arrivatemi le distinte delle formazioni, come avevo fatto l’anno prima mi avvicinai con bramosa curiosità a Mino Favini, tutt’ora responsabile del settore giovanile dell’Atalanta, per farmi dire chi, tra quella lista di nomi, era da tenere d’occhio. Era un rituale per me, quello. Favini non ebbe dubbi: “Di questa covata, Morosini, Motta, Defendi e Consigli hanno un futuro”.

Il destino, o chissà ché, a Piermario gliel’ha spezzato oggi pomeriggio all’Adriatico di Pescara. Appena ho saputo, dal confuso passaparola in curva sud, ho ripensato a quella tiepida serata di fine estate.