SETTI FISSI UN NUOVO OBIETTIVO. E SUL FUTURO DI TUDOR…

Con il mercato la società, tenendo i pezzi migliori, ha dato un segnale: si deve concludere con dignità il campionato. Pertanto niente sbracamenti, o vacanze anticipate. C’è stato il divorzio, un po’ furtivo e improvviso, con Kalinic, però nella sostanza era chiaro da mesi che in attacco, dove c’è abbondanza, uno se ne sarebbe andato. Intoccabile Simeone, restava da piazzare uno tra Lasagna e il croato, quest’ultimo con più mercato.

Le conferme di Barak, Caprari, Casale ecc sono un buon viatico per questa seconda parte di torneo. Tuttavia non basta: sarebbe auspicabile che il presidente Setti fissasse pubblicamente un nuovo obiettivo, così da legittimare il lavoro dell’allenatore e compattare lo spogliatoio da qui a maggio. L’unico che si è esposto su traguardi più ambiziosi è stato Barak, che non si è trincerato dietro le consuete minimali banalità. Ma il coming-out di un calciatore, per quanto autorevole, non basta.   

Il resto è nelle mani di Tudor e della squadra. L’allenatore croato si gioca anche il suo futuro a Verona. Qualsiasi trattativa per il rinnovo e l’adeguamento dell’ingaggio è congelata, la qual cosa a occhi esterni può perfino apparire incredibile dato il ruolino di marcia che il gigante di Spalato ha realizzato dal suo arrivo a Verona. Il club però si è dato tempo e vuole capire bene se Tudor può essere il futuro. Pensiero razionale, liberato da qualsiasi condizionamento emotivo, che mi sento di condividere, come a suo tempo fui tra i pochi (forse l’unico) ad appoggiare il divorzio da Aglietti. Una società forte è indipendente dalla figura di qualsiasi allenatore e persino dal suo rendimento. Lo pensavo (e l’ho scritto) anche ai tempi di Juric, che pure è stato la figura più importante (tecnica-finanziaria) del Verona dell’era Setti.

SIAMO IL VERONA E CI SERVE LA BATTAGLIA! ECCO PERCHE’ NON BASTA LA SALVEZZA…

Qualche lettore si è arrabbiato per il mio articolo precedente: “Noiosa comfort zone: cosa ce ne faremo del girone di ritorno?” che seguiva la sconfitta con la Salernitana. Un pezzo deliberatamente provocatorio, scritto con il Verona a 27 punti. Be’ quelle parole assumono ancora più significato dopo le due (convincenti) vittorie con Sassuolo e Bologna e la classifica che ci vede a quota 33.

Perché, con la salvezza da tempo abbondantemente acquisita (ma possibile che dopo vent’anni siamo ancora schiavi del ricordo di Piacenza? Tra l’altro quella retrocessione con il calcio c’entra davvero poco…), il Verona deve dare un senso a questa ultima parte di torneo. Ne ha il dovere morale, innanzitutto.

Non possiamo accontentarci di raggranellare pigramente, per inerzia, altri 12-13 punti nelle quindici giornate che ci rimangono. Dobbiamo inseguire un obiettivo più alto, che non significa raggiungerlo, ma quantomeno provarci. Lo diceva Thomas Elliot: “Quello che conta è il percorso del viaggio, non l’arrivo”. Alzare la posta significa mantenere alta la tensione (della squadra) e avere un motivo valido non solo per guardare ma per vivere (i tifosi) con intensità le partite.

Vengo al punto: non è importante arrivare in Europa, ma pensarla, inseguirla, anelarla sì, eccome. Altrimenti possiamo tranquillamente già chiudere le serrande e parlare a quattro mesi dalla fine del campionato di mercato estivo, transazioni finanziarie, bilanci, cioè tutto quello che non è presente, che non è calcio e che non è l’essenza per cui si segue e tifa il Verona.

Ditemelo voi se vogliamo diventare mediocri e compiaciuti contabili di tranquille salvezze e morta lì. Ditemelo voi se volete un Verona che a metà annata non ha più un motivo agonistico valido per scendere in campo. A quel punto preferisco lottare per la salvezza fino alla fine, soffrendo come un cane.

Ok, è una provocazione anche questa, ma ribadisco: noi non siamo il Sassuolo e non siamo l’Empoli, club rispettabilissimi ma per i quali vivacchiare, quando e se ci riescono, non è un problema. Non saremo mai nemmeno il fu Chievo. L’Hellas è club espressione di una piazza passionale, stare nel comodo limbo non fa per noi. La nostra benzina è avere una meta, un “nemico” e una battaglia, magari campale, da fare. Ci piace stare sempre un po’ sulle spine, inquieti e scorbutici. Non è un caso che sentimentalmente ci siamo uniti, compattati e divertiti (sì divertiti…) come non mai negli anni di C. Stare troppo a lungo lì nel mezzo non ci si addice. L’anonimato piccolo-borghese va bene sul piano tecnico e finanziario (restiamo in A e il club diventa più ricco per restarci ancora, in un circolo che si auto-alimenta), ma potrebbe essere devastante sul piano identitario. Va tenuta alta la fiamma della passione, a costo di rompere i coglioni.

NOIOSA COMFORT ZONE: COSA CE NE FAREMO DEL GIRONE DI RITORNO?

Non c’è nemmeno rabbia. Piuttosto un (fondato) timore: che il Verona, abbondantemente fuori dalla zona retrocessione, per il terzo anno consecutivo si disunisca nella seconda parte della stagione. È il destino, spesso, delle medio-piccole che macinano punti nel girone di andata quello poi di accontentarsi e andare al piccolo trotto nel ritorno. Inutile star qui a raccontarsela: in mancanza di nuovi e reali obiettivi viene a mancare la tensione, l’adrenalina e quindi anche la concentrazione e l’animus pugnandi. Il risultato è l’errabondo undici che corricchiava in campo ieri sera contro la modestissima Salernitana. Unica consolazione non aver visto ancora una volta l’inutile maglia verde come a La Spezia (a proposito quale genio del marketing in società ha potuto decidere di far disputare la millesima in serie A con quella divisa?? Un affronto alla decenza e alla storia).

L’Hellas con ancora 17 partite da disputare deve fare appena una decina di punti per raggiungere la quota di una salvezza certa. Quasi sicuramente ne basteranno anche meno di 37 (non parlatemi più di quota 40, grazie). Ovvio che in queste condizioni le motivazioni non sono alle stelle. La società oggi non è pronta per inseguire più ambiziosi obiettivi, dunque il limbo della comfort zone è la nostra dimensione. Rassicurante, certo, ma noioso. Come un Sassuolo qualsiasi…(con tutto il rispetto per l’ottimo club neroverde).

Il rischio insomma è che per quattro mesi dovremo trovarci un nuovo significato. In questo scenario tecnico ed emotivo, non aiuta a viversela con passione la scelta del Governo (accolta obtorto collo da Figc e Lega) di fissare a 5 mila la capienza negli stadi. Pagano tutti per l’inciviltà di chi se ne è sempre fregato di stare con la mascherina (le regole sono degli sfigati, no?); pagano tutti per la debolezza delle istituzioni calcistiche e degli stessi club, forti solo quando devono spartirsi i soldi, ma manchevoli nel fissare regole serie e protocolli certi anti-covid; pagano tutti perché dopo due anni di pandemia non si è fatto nulla per organizzare gli spazi degli impianti in maniera diversa. Si è vissuto giorno per giorno, in attesa del fato e che passasse la nottata, con l’arroganza di chi da due anni crede che il mondo tornerà presto quello di prima. Il mondo invece se ne fotte dei Lotito & C.  

PROMESSA MANTENUTA, SETTI HA CONSOLIDATO: VERONA REALTÀ DELLA SERIE A

Il girone di andata conferma una tendenza in atto da due anni e mezzo: il Verona è ormai stabile realtà da media classifica in serie A. Un obiettivo che sembrava lontanissimo soltanto poche stagioni fa, contrassegnate dall’altalena tra A e B. Grosso merito, come riconosciuto con grande onestà intellettuale dal presidente Setti, va attribuito a Juric, che per il Verona non è stato solo un allenatore, ma l’uomo che ha dato l’indirizzo tecnico per stabilizzare finalmente la società (a proposito, nelle sue parole dei giorni scorsi non ci vedo pentimento, ma la coerenza di chi sa che è stata una scelta sofferta e tormentata: il suo addio, a torto o a ragione, infatti non è imputabile a motivi umani, sentimentali o ambientali, anzi, ma professionali e razionali, semplicemente lui a Verona e al Verona per una serie di ragioni sentiva di non poter dare di più). Parallelamente da un anno e mezzo sono aumentati gli investimenti del club e quindi l’entità degli ingaggi dei giocatori: solo qualche anno fa i Simeone, Kalinic, Lasagna, Barak non sarebbero arrivati; o i Lazovic e Faraoni non sarebbero stati trattenuti.

Setti, dopo nove anni e mezzo di presidenza, certamente in ritardo rispetto alla sua stessa tabella di marcia, ha trovato la strada per mantenere la promessa iniziale riassunta in una parola: consolidamento. Ora, è difficile capire se negli anni a venire ci sarà la possibilità di un ulteriore step, per certi versi è complicato anche solo prevedere se Setti – che ci ha abituato ai chiari di luna – ha la struttura e i fondi per mantenere l’attuale equilibrio. Il calcio (se fai calcio e non altro…) dà infinite possibilità al riguardo: come già detto in precedenti articoli, la crescita passa anche dalla prossima sessione di mercato estiva, quando il club avrà pedine pesantissime da muovere, da Barak e Simeone. Quelli possono essere i cavalli di Troia (sia se ceduti che confermati) per rafforzare il club, gli investimenti e il parco giocatori. Ieri sera, seppur guardando nel breve di gennaio, lo ha detto pure Tudor, che (giustamente ed educatamente) ha chiesto rinforzi: se non migliori rischi di peggiorare perché crescono gli altri. A proposito dell’allenatore croato: ha risollevato un Verona triste con Di Francesco, 24 punti in 16 partite sono un bottino ragguardevole, tanto di cappello. Con lui il Verona si è espresso per ciò che vale, tuttavia nelle ultime partite qualche scelta tecnica non ha convinto. La società farà le sue valutazioni sull’allenatore a marzo. Mi sembra una deadline giusta.

Intanto godiamoci il Verona di oggi, realtà rispettabile e rispettata della serie A (le parole di Italiano ieri, di Juric e Gasperini precedentemente non erano affatto di circostanza). Buon Natale a voi tutti!

IL VERONA A UN BIVIO CLAMOROSO DELLA SUA STORIA

Equilibrio. Lo so che può apparire una parola vuota o, peggio, stonata dopo un 3-4 di rimonta da 3-0. Però, al netto della stravagante impresa di Venezia, il Verona di Tudor conferma una costanza che non merita di essere inquinata da sbalzi di umore o pessimismi, come accaduto dopo la sconfitta di Genova con la Samp e il pari con il Cagliari. L’equilibro risiede nel fatto che i gialloblu non sbagliano (quasi) mai le partite con le squadre di fascia pari o inferiore. Con Tudor è successo solo a Genova, appunto. L’eccezione, quella, che conferma la regola.

Siamo quasi alla fine del girone d’andata e i valori si sono già grosso modo espressi: l’Hellas è squadra da metà classifica, come lo era con Juric. Siamo più forti davanti e meno dietro. Ma quest’anno c’è un vantaggio che con il vecchio allenatore non avevamo: a gennaio, se ci sarà la volontà, sarà meno difficile e dispendioso per la società alzare il livello dell’organico per provare a inseguire qualcosa in più.  Non c’è la famosa punta (ruolo costoso da sempre) da ingaggiare, ma un difensore centrale che con Dawidowicz e il ritrovato Magnani possa puntellare la terza linea. Perché Tudor forse ha il torto di cambiare troppo spesso interpreti lì dietro e certamente ieri ha sbagliato assetto difensivo, ma sono scelte che nascono dall’affanno e dall’insicurezza di non avere calibri adeguati. Poi torno su una questione a cui avevo accennato all’inizio del campionato e su cui poi avevo taciuto per carità di patria: serve  un portiere che dia più garanzie di Montipò. Scusate la franchezza e non me ne voglia l’interessato: non dovrebbe essere poi difficile trovarlo.

Ci sono infine due questioni che presto servirà affrontare: il rinnovo di Tudor e come gestire l’acquisizione di Simeone. Qual è la strada che s’intraprenderà con il Cholito? Adeguargli lo stipendio e prolungargli il contratto per tenerlo un altro anno (e cederlo in futuro a cifre ancora più importanti), o seguire lo storico comandamento settiano “vendi subito e incassa quello che puoi”?

Il Verona, inteso come società, sta ultimando il suo (accidentato e lungo) percorso di consolidamento e adesso Setti si trova a un punto interessante della sua storia. C’è la possibilità reale e sostenibile per un salto di qualità sia nel campionato in corso e sia, soprattutto, strutturale.

LA SOCIETÀ ORA SIA AMBIZIOSA FINO ALLA FINE

Il Verona è forte. Semplicemente. Non servono molte chiacchiere, o raffinata filosofia: se raccogli 19 punti in dieci giornate (quelle di Tudor), quasi due a partita, significa che hai valori individuali e collettivi decisamente superiori alla mediocrità che attanaglia chi lotta per la salvezza. E vincere con l’Empoli, squadra in salute e neopromossa brillante, paradossalmente misura il tuo standing molto più che battere la Juventus o la Lazio. Perché l’impresa con la big può anche rientrare negli effimeri eroismi di giornata di cui è piena la storia del calcio, ma il difficile è confermarsi con regolarità anche nelle tante partite “di mezzo”, quelle “anonime” che magari non danno titoli ai giornali e racconti ai nipotini. Inoltre l’Hellas ha superato l’Empoli pur non brillando e questo avvalora ancora di più la sua forza: è bastato che schiacciasse sull’acceleratore quando davvero contava per prendersi i tre punti.

Il Verona è forte. Vorrei che si partisse da questa consapevolezza, anche in società, per provare finalmente a darsi un obiettivo più ambizioso di una tranquilla salvezza. Negli anni di Juric, ma anche nel primo in A di Mandorlini, non abbiamo brillato nel girone di ritorno, vuoi per un senso di appagamento e vuoi perché nel calcio se sei un piccolo club funziona così. L’auspicio è che questo Verona possa provarci fino in fondo a togliersi qualche soddisfazione, magari anche rinforzandosi a gennaio con l’ingaggio di un centrale difensivo. Non è questione di Europa o non Europa, l’obiettivo è più modesto: darsi un senso fino alla fine.

LE (MERAVIGLIOSE) UTOPIE DI TUDOR. L’ADRENALINA DI D’AMICO

Maledetta vita degli allenatori. Condannati a non essere mai, davvero, felici, Se il popolo del Verona gode e si lascia trasportare dagli attimi di euforia, il governo Tudor, dopo il ko inflitto alla Juventus, alza la posta e butta già lo sguardo in là: “Non siamo al top, perché il top non esiste mai”, mi ha detto l’allenatore di Spalato sabato sera in sala stampa.

Mi ha colpito anche la dialettica: in dieci minuti di conferenza il tecnico quasi non ha parlato di quello che aveva appena fatto, cioè della memorabile pagina appena scritta. Sarebbe stato normale, cullarsi anche solo per una sera su quell’impresa. Tudor invece, già un minuto dopo, parlava del futuro, anche perché il croato si rende perfettamente conto che il “suo” Verona comincia a vedersi solo ora, dopo qualche settimana in cui lui ha potuto lavorare sul campo quotidianamente. La fase difensiva è migliorata e i “mammasantissima” là davanti, Simeone su tutti, continuano a infierire sui malcapitati avversari.

Eppure Tudor me l’ha spiegata la sua (meravigliosa) utopia: “Un allenatore, se è bravo, deve continuare a rompere (…) ai suoi giocatori, altrimenti si perdono anche le cose buone. Nello stesso tempo devi migliorare quello che ancora non ti piace. Ma non c’è un ideale di dove vuoi arrivare, solo il fatto di non voler rinunciare a nulla e quindi di vedere la tua squadra forte davanti e pure dietro, equilibrata in tutto”,

Poi c’è Tony D’Amico, che ha abbracciato a lungo Tudor sulle scale che dagli spogliatoi salgono verso la zona mista. L’ho incrociato fuori sul piazzale, il diesse. Due chiacchiere, la sua sigaretta che cercava (vanamente) di placargli un po’ la tensione accumulata. D’Amico è un giovane 40enne ambizioso e totalmente assorbito da questi suoi anni che vive a cento allora. Lo capisco, siamo coetanei. Non ha il cinismo o la calma di un dirigente navigato, mentre nelle movenze e nell’oratoria cogli l’energia adrenalinica del carpe diem da prendere al volo. Tudor è il “suo” allenatore, come lo era Juric. Tra loro si ritrovano tra simili, per temperamento, istinto, fame, passione, esuberanza. Grosso e Di Francesco, entrambi pescati nel suo Abruzzo ( in un certo senso nemo propheta in patria), invece con lui non c’entrano nulla. Ora, credo, lo sa anche lui.

IL VERONA HA GIOCATORI FORTI, MA IN QUESTI TRE ANNI TROPPI SE LO SONO DIMENTICATI…

Il calcio è una questione semplice che a molti piace voler complicare. Però, alla resa dei conti, il principio fondante rimane immutato: sono quasi sempre i giocatori a fare la differenza. La bravura degli allenatori – come mi disse tanti anni fa con gusto della provocazione il miglior Prandelli – è “limitare i danni”. Cesare, più realisticamente, intendeva dire che il mestiere è organizzare la squadra in modo che i suoi uomini migliori possano esprimersi.

Se Juric, in penuria di attaccanti, puntava tutto sulla fase difensiva, di cui è un maestro, Tudor, privo della qualità tattica del concittadino di Spalato nell’organizzare la fase di non possesso, ha scelto di sfruttare la cifra tecnica offensiva del Verona di quest’anno. Così si spiega il centrocampo con il doppio regista (Ilic e Veloso, ma in precedenza Ilic e Bessa), che supplisce alla carenza di mediani (Tamezé è in ritardo di condizione e Hongla è tra color che son sospesi) e che induce l’Hellas a schierarsi molto alto e a cucire il gioco, anziché agire di rimessa con contrasti, duelli individuali e fulminanti ripartenze come avveniva nelle scorse stagioni. Il resto lo fa il tasso tecnico dello stesso Ilic, dei Lazovic, Caprari, Simeone e, quando impiegato, Kalinic, e il dinamismo senza eguali di Faraoni.

D’altro canto, è evidente, che Tudor, dalla sosta in poi, sta cercando di sfruttare finalmente le settimane di lavoro che non ha avuto al suo arrivo, per dare una sistemata anche alla fase difensiva. Il Verona incassa tanto (troppo) e ha subìto diverse rimonte. Con la Lazio è andata decisamente meglio, eppure si è sofferto ancora eccessivamente. In attesa del mercato, Tudor deve approfittare della buona classifica per provare qualche cambiamento. Detto di Tamezé che può essere recuperato per dare filtro lì in mezzo accanto a Ilic, va valutata la situazione del centrale difensivo, l’eterno incerto Gunter – quello sappiamo essere il ruolo più importante del pacchetto arretrato.

Tudor ha ridato anima e vigore alla squadra, sistemato i fondamentali e messo al centro del villaggio gli hombre vertical in grado di fargli la differenza. Ora, acquisire una maggiore solidità significherebbe creare le premesse per il salto di qualità e mettere radici nella parte sinistra della classifica. Però, e qui torniamo all’incipit, va detto che da tre anni il Verona schiera squadre di livello, ieri con Juric e oggi con Tudor. In nome del cannibalismo mediatico degli allenatori (di tutti gli allenatori) in questo calcio moderno (con la complicità di noi giornalisti), questo fattore è stato troppo spesso trascurato (per la verità mai in questo blog…). Ma, come dicevamo, sono i giocatori a fare la differenza. Gira che ti rigira, si torna sempre agli antichi principi…

IL (PICCOLO) PASSO IN AVANTI DEL VERONA DI SETTI

Nei giorni caldi dell’esonero di Di Francesco e dell’arrivo di Tudor, con il Verona ultimo a zero punti, c’era un ragionamento che filtrava dall’entourage del presidente Setti: “Ci sono almeno 5-6 squadre inferiori a noi…”.

Ragionamento che serve a comprendere l’avvicendamento in panchina e, soprattutto, qual è il posizionamento del Verona nell’attuale serie A: club medio-piccolo, di terza fascia, ma posto un gradino sopra ai piccoli di quarta destinati ad affannarsi in zona rossa.  Tradotto: niente sogni di gloria, ok, ma salvezza tranquilla, quella sì.

Considerazioni effettivamente non campate in aria, alla luce di qualche investimento in più (a fronte, certo, di cessioni e plusvalenze di svariati milioni di euro) che negli ultimi due anni c’è stato. Pensiamo agli ingaggi  di Kalinic, Lasagna e Simeone, le conferme di Faraoni e Lazovic, l’acquisto di Ilic. Tutti giocatori, a livello di mercato e relativi stipendi, di fascia media, certamente da serie A stabile. Non era così, per esempio, nella disgraziata stagione di Pecchia, quando i titolari erano i Buchel e i Calvano. E’ stato così però nel biennio di Juric, che con il suo talento è riuscito nel surplus di dare qualche punto in più e trasformare in media (per un certo periodo medio-alta) una squadra medio-piccola (ma non piccola, come a modo suo ha puntualizzato alla Gazzetta Faraoni). Ora con Tudor, che come ha ricordato Tricella “non è Juric”, tuttavia è allenatore funzionale e “normodotato”, siamo perfettamente in linea con la nostra dimensione.

Non si può parlare di vero e proprio consolidamento, parola abusata dallo stesso Setti in questi anni, men che meno di progetto, termine il cui prerequisito sarebbe quello di non dover, ogni anno, vendere i pezzi pregiati o cambiare i connotati alla squadra. Per definire la piccola evoluzione della società tornerei a usare un’espressione di qualche tempo fa, che fece tanto discutere e che però mi sembra la più calzante per misurare la dimensione del Verona: piccolo cabotaggio. Che, però, al momento, sulla carta, tanto basta in questa sempre più scalcinata serie A.

CON TUDOR È UN ALTRO VERONA, ORA RADDRIZZIAMO LA FASE DIFENSIVA

Questione di manico. Perché il Verona con Tudor è già altra cosa. L’allenatore di Spalato in pochi giorni ha lavorato sulle priorità, smuovendo quel che serviva. Intanto sul piano tattico (due punte più un trequartista e Barak schierato mediano), ma soprattutto su quello dell’intensità, della corsa intelligente e del temperamento.

Non si è trattato solo di vincere, ma di farlo in rimonta e alla distanza. I secondi tempi con Di Francesco erano una pena infinita. Ieri invece contro la Roma sono stati i 45′ della ripresa a fare la differenza.

Certo, resta molto da fare e non potrebbe essere altrimenti. Ragionando e stemperando l’emotività, va detto che la fase difensiva è ancora da registrare. Tudor, alla vigilia della partita, aveva rimarcato la sua filosofia: “Innanzitutto non bisogna prendere gol”. Il Verona contro la Roma invece è stato infilato due volte e immaginiamo che l’allenatore lavorerà a fondo sulla questione. Culturalmente il croato, a differenza Di Francesco, bada alla fase difensiva, non a caso ieri ha cambiato Ceccherini (in affanno su Zaniolo) con Magnani dopo appena un tempo. Segnali precisi.

Tuttavia, al di là dei soliti errori individuali, che però vanno ridotti instillando quantomeno la giusta mentalità (nel primo gol di Pellegrini, Ilic molla l’avversario e Gunter ritarda il contrasto), ancora non funzionano a dovere alcuni meccanismi collettivi. La squadra, che fonda il suo gioco sui duelli individuali, spesso si trova con le linee difensive scoperte nel momento in cui perde palla (l’azione del secondo gol romanista è un manifesto al riguardo).

A Tudor serve un po’ di tempo e di calma per sistemare a dovere quanto non funziona. Come abbiamo scritto la settimana scorsa: la rosa è buona e lui è un allenatore congeniale all’obiettivo della salvezza. La sosta fissata dopo il 3 ottobre lo aiuterà. Prima di allora, con il trittico Salernitana-Genoa-Spezia calendarizzato nel fazzoletto di appena undici giorni, procederà con la politica dei piccoli passi. Per intanto può bastare.