RAUTI, FINI E ALTRI FUNERALI

Dovevano essere solo i funerali di Pino Rauti, quelli celebrati in piazza Venezia a Roma: sono diventati anche i funerali politici di Gianfranco Fini. Il popolo di destra lo ha infatti accolto con sputi, schiaffi e grida “Traditore! Sei come Badoglio!”. Si può pensare che fossero solo i nostalgici della destra neofascista che fu, gente che non capisce come ci sia l’esigenza di rifondare una moderna destra europea anche in Italia.
Peccato che Fini abbia abiurato il passato (“fascismo, male assoluto”) senza però riuscire a far nascere questa nuova destra europa. Ed è quindi tempo di esequie anche per lui.
D’altra parte qual è il leader della Prima o della Seconda Repubblica che non stia per diventare cliente delle pompe funebri? Berlusconi è già inumato ad Arcore. Casini vi sembra in buona salute? Di Pietro è sepolto dal crollo dell’Italia dei Valori Immobiliari. Per Vendola è pronto un posto nell’ala di sinistra del Vittoriale. Bersani forse sopravviverà, magari perchè leader davvero non lo è mai stato…
Intanto Libero scrive che Flavio Tosi potrebbe essere il Renzi del centrodestra. Di certo il sindaco di Verona è l’uomo nuovo che ha rifondato la Lega. E non è una questione anagrafica: lo stesso dicasi dell’altro Flavio, il sindaco di Padova Zanonato.
Stringendo l’orizzonte al nostro Veneto solo i due Flavi sembrano avere la capacità di guardare al futuro, ai nuovi assetti di governo del territorio: dar vita alle due grandi aree metropolitane Orientale e Occidentale.
Un progetto che non solo porterebbe alla cancellazione completa di tutte e sette le vecchie province venete, ma allo svuotamento della stessa Regione. Innovazione politica autentica.
Concludendo con una battuta (ma non troppo) potremmo dire che oggi i due Flavi sono vivi e uniti nella lotta…per rottamare Luca Zaia!

PERCHE’ IL VENETO NON E’ LA SCOZIA

Gli amici venetisti si sono sdegnati ed offesi per una mia opinione dove osservavo che il Veneto non è la Scozia. Mi hanno scritto diverse mail piene, oltre che di rimostranze, di dati storici sulla Serenissima.
Iniziamo col dire che i sogni non sono la realtà e, guardando alla realtà, mi sembra indiscutibile che il nostro Veneto sia oggi assai poco scozzese. Nel senso che l’idea indipendentista è portata avanti da un gruppo di filologi della storia e cultura veneta ma è ben lungi dall’essere un’istanza di massa.
Lo diverrà quando vedremo qualcosa di simile al Camp Nou dove centomila tifosi hanno smesso di tifare Barcellona contro il Real, hanno composto la bandiera catalana e si sono mesi a gridare all’unisono “indipendenza, indipendenza!”. Lo diverrà quando la maggioranza dei veneti voteranno per un partito indipendentista, come hanno fatto gli scozzesi con lo Scottish National Party.
Nell’attesa siamo, appunto, fermi ai sogni. Magari suadenti, ma sogni. Se mi domandano cosa penso di un Veneto indipendente, rispondo “magari”! E aggiungo che mi piacerebbe ancora di più un Veneto che scelga l’annessione all’Austria…Però sono solo sogni, non realtà.
D’altra parte quanto manchi di presupposti consistenti la battaglia per l’indipendenza lo dimostrano proprio le vicende dei movimenti venetisti: sono un pulviscolo che aveva generato quello che sembrava un partito (nome esatto, un partitino) ,Veneto Stato, che immediatmente si è spaccato in due: da una parte Indipendenza veneta, dall’altro ciò che resta di Veneto Stato. Una spaccatura netta, impensabile tra gli indipendentisti scozzesi, catalani o baschi.
Volendo si può spiegarla con le piccole miserie umane, cioè col desiderio di essere comunque il segretario o il portavoce o il presidente onorario non importa se del nulla o quasi. Penso però che la ragione sia più profonda: scozzesi e catalani non si dividono perchè hanno una consapevolezza culturale e storica della loro unità e, di conseguenza, della comune battaglia per l’indipendenza. Mancando la quale i venetisti son qui a testimoniare, non l’indipendenza del Veneto, ma l’eterno ritorno dei capponi di Renzo.
Avessino l’esempio di un partito piccolo ma compatto, potremmo credere che i veneti – con tempo – si convincano a vortarlo facendolo diventare una forza politica decisiva. Ma, al momento, i venetisti non si arrabbino se guardo la realtà: il Veneto è lontanissimo dal diventare la Scozia. E, se non nasce nemmeno il presupposto, dipende anche (non solo) dalle loro baruffe chiozzotte. Non certo da chi le osserva.

LA SOFFERENZA DI UN BAMBINO

A Cittadella un bambino di 10 anni è stato prelevato all’uscita da scuola e caricato a forza dal padre e da alcuni agenti sull’auto, per sottrarlo alla madre cui il tribunale dei minori aveva tolto l’affidamento. Lo stesso ragazzino, per otto anni, aveva assistito ai litigi tra i due genitori (allargati anche ad altri famigliari), litigi degenerati pure nelle lunghe dispute giudiziarie.
Secondo voi qual’è la causa della sua indiscutibile sofferenza: alcuni attimi di prelievo forzato o la guerra continua tra le due figure di riferimento? Uno scontro lungo anni tra quei genitori che per i figli piccoli sono le divinità; e risulta loro dunque inconcepibile, traumatico, assistere alla guerra tra gli dei.
Eppure gran parte dell’opinione pubblica (oltre ai media e alle istituzioni) ha messo sotto accusa la “violenza della polizia”.
Una giustizia tesa alla tutela dei minori dovrebbe togliere la patria potestà ad entrambi i genitori che coinvolgano i figli nelle battaglie che spesso accompagnano le separazioni. Varrebbe come deterrente sapere che questo può essere il risultato finale, veder sottratto il figlio ad entrambi? Se non valesse avremmo la riprova che l’affidamento del figlio è solo un alibi: cioè che interessa di più usarlo come arma impropria nelle rancorose dispute tra patner che non vederselo affidato per accudirlo con amore.
Come sappiamo il cosiddetto “video choc” è stato ripreso da una zia materna del bambino. Auguriamoci che qualcuno riesca a riprendere anche uno de tanti pedofili che quotidianamente sodomizzano i ragazzini. E che mandi il video a “Chi la visto”. Finalmente le istituzioni, i presidenti di Senato e Camera, il parlamento e la stessa opinione pubblica sarebbero mobilitati contro la vera violenza che tanti bambini subiscono.
E non per un semplice “placaggio”, sgradevole fin che si vuole da vedere; ma che è, comunque, solo l’esito finale della Guerra dei Roses tra mamma e papà.

CELENTANO FA IL TO MESTE’

E’ un condensato di saggezza e buon senso il vecchio proverbio lombardo “ofelè fa il to mestè”, pasticcere fa il tuo mestiere. Non combinare pasticci come succede a (quasi) tutti quelli che voglio cimentarsi con un mestiere diverso da quello che conoscono e praticano. Gli esempi si sprecano, basti pensare ai tanti giornalisti entrati in politica solo per fare altrettanti buchi nell’acqua…
Impossibile non pensare al proverbio dopo aver visto Celentano in Arena arabbattarsi, non certo con il Rock dove è e resta un grande, ma con quell’Economy che non rappresenta proprio il suo mestè.
Di una banalità imbarazzente le sue domande all’economista francese Jean Paul Fitoussi (che già quello dell’intervistatore è mestiere diverso dal cantante) per non parlare della sue personali considerazioni. Perla tra le perle l’affermazione che tanto il debito pubblico “basta non pagarlo”. Peccato che a detenerlo, il debito, siano in massima parte le famiglie italiane e quindi, non restituirlo, significa mangiarsi i loro risparmi.
Una soluzione che può passare per il capo ad una massaia, o ad un giornalista d’accatto come lo Zwirner, i quali però non possono andare a sparare queste stupidaggini in un Arena gremita e in diretta televisiva con decine di milioni di telespettatori.
Quanto alla decrescita non sto a fare il moralista osservando che gli ingaggi dell’Adriano mai sono decresciuti… ma certo che sentirlo predicare questa soluzione mi fa un po’ lo stesso effetto di vedere i banchieri che vanno a votare per la sinistra…
La novità, dopo diciott’anni, era il concerto dal vivo. Cioè il rapporto “vivo” con un pubblico vero, non con quello degli studi televisivi che (per cachet) applaude comunque quando si accende la scritta luminosa “applausi!” e viene zittito se dissente.
E così lunedì sera il pubblico dell’Arena ha interrotto la predica sull’Economy a suon di fischi e di grida: “Canta, Adriano, canta!”. Fa il to mestè, appunto, che di pasticceri della politica e del sociale ce n’è già a sufficienza.
Una postilla, dato che siamo nella mitica rete che, più che il luogo della partecipazione democratica, è quello dei pasticceri che si inventano nuovi mestieri: basta poter postare, e tutti siamo convinti di essere diventati esperti di tutto lo scibile umano. Tutti come Celentano che predica.

SOLO RENZI FA PIAZZA PULITA

Tutti a casa! Tagliamoli le mani! Mandiamoli in esilio o, meglio, in galera! Queste sono oggi le grida che si levano dai cittadini esasperati dalla crisi economica, poco inclini a ricordare le loro responsabilità e molto inclini ad eddebitarle tutte alla classe politica: come se ce l’avessero mandata i marziani, l’attuale classe politica, e non l’avessimo scelta e confermata noi cittadini elettori…
L’esperienza insegna che non è così semplice, che si rischia di andare di male in peggio. Non direi infatti che ci abbiamo guadagnato “pensionando” con Mani Pulite gran parte dei politici della Prima Repubblica: ci siamo ritrovati con le seconde linee dei vecchi partiti sotto mentite spoglie (democristiani e socialisti riciclati in Forza Italia o nel Pd) e – peggio ancora – con una massa di dilettanti allo sbaraglio.
Ve la raccomando l’incompetenza velleitaria dei leghisti della prima ora: tutti convinti di poter raddrizzare le banane. Tanto simili ai grillini che – a Parma – nemmeno sapevano che, se rinunci ad un’opera già appaltata (inceneritore), devi pagare una pesantissima penale…Come pensare di affidarsi ai giornalisti che – capaci come siamo di far solo chiacchiere – nemmeno sanno da dove cominci l’amministrazione di un comune o il governo del Paese.
I grillini hanno scoperto l’acqua calda dell’onestà, della trasparenza, della competenza. A parole. Mentre devi riuscire a concretizzare nei fatti i buoni propositi, che altrimenti resti un giornalista di complemento (per quanto navighi in rete)…
Comunque sia chi crede alla piazza pulita, e la vuole, si metta già in coda per partecipare alle primarie del Pd e votare Matteo Renzi. L’unico che può davvero mandarli a casa tutti.
Non solo il suo segretario Bersani, ma lo stesso Berlusconi: il quale è in attesa del risultato delle primarie perchè sa di potersi confrontare solo con un vecchio arnese par suo, quale Bersani stesso, ma non certo con un giovane virgulto come il sindaco di Firenze.
Per non parlare di altri vecchi arnesi come Casini e Fini, ridotti a nascondersi dietro l’ombra del Monti bis per sfuggire al riscontro della propria conta elettorale.
Ma Renzi è in grado di rottamare anche Vendola, al quale non è bastato mettersi l’orecchino per far dimenticare che arrivava dal secolo scorso con la pretesa di rifondare il comunismo nel Terzo Millenio.
Non vedo come possa resistere al confronto lo stesso Grillo che Ciriaco De Mita a suo tempo mandò in Rai con un compito preciso: dare dei ladri ai socialisti di Craxi. Erano gli anni Ottanta e, da allora, questo continua a fare Grillo: da dei ladri a tutti…
Ripeto: la piazza pulita è una soluzione troppo semplicistica per funzionare. Ma, chi ci crede, voti e faccia votare per Matteo Renzi.

ER BATMAN DELLE PREFERENZE

Franco Fiorito, detto er Batman, è divenuto l’emblema del politico che arraffa denaro pubblico e non lo usa per fini istituzionali (iniziative del gruppo Pdl) ma per fini personali (feste, auto di lusso, cravatte Marinella e via dicendo).
Vera o meno che siano l’accusa e il comune sentire, è certo che er Batman ha cominciato arraffando qualcos’altro: voti di preferenza a iosa. Fu infatti eletto sindaco ad Anagni a furor di popolo, cioè con 7.757 voti di preferenza (1.200 in più dei partiti che lo sostenevano!). E’ poi entrato in Regione Lazio due volte: la prima con 17.296 prefrenze, la seconda con 26.217.
Domanda: si sono sbagliati questi cittadini elettori? Credevano forse che er Batman fosse la reincarnazione di Quintino Sella? O gli hanno dato la preferenza perchè sapevano benissimo chi era e cosa faceva? La seconda ipotesi pare la più probabile…Quindi se lui è un arraffone ed un farabutto, che ottiene il voto di scambio elargendo denaro pubblico, altrettanto farabutti sono i cittadini elettori che si son fatti comprare.
L’italia è piena di er Batman perchè questo è il genere di politico che vogliono cittadini cresciuti con l’assistenzialismo pubblico, privi di senso civico ed eticamente allo sbando. Fiorito esiste perchè noi l’abbiamo fatto esistere con le preferenze.
Essendo quello che siamo (l’opposto di quei santi onesti che amiano dipingerci in contrapposizione ai politici ladri) sarebbe una pura follia restituire la parola ai cittadini. Ripristinando cioè il voto di preferenza (o anche i collegi elettorali: tale e quale) alle elezioni politiche.
L’esperienza delle Regione Lazio, della Calabria, della Sicilia è a dimostrarci l’esatto contrario: bisognerebbe togliere la preferenza dove ancora sussiste! D’altra parte lasciando la parola ai siciliani (con la preferenza o con i collegi) secondo voi chi eleggerebbero: un prefetto Mori o un Totò Riina?
L’impressione netta è che il male minore sia ancora che il Parlamento lo nomino Bersani e Berlusconi, Casini e Di Pietro; piuttosto che siamo noi italiani dell’anno 2012 a sceglierlo…
La vicenda de er Batman è qui ad insegnarci che in ampie aree del territorio nazionale (non dico proprio in tutto) le elezioni andrebbero sospese, ed il potere dato a dei prefetti. Però scelti dalla Merkel…

E’ NERO IL PAESE NON MARCHIONNE

Secondo alcuni Sergio Marchionne è l’uomo nero, il manager che non mantiene le promesse e non investe più negli stabilimenti Fiat i 20 miliardi promessi con Fabbrica Italia. Ma, se esiste la logica, la conclusione dovrebbe essere diversa, anzi opposta.
Marchionne infatti vende molto in Usa, America Latina e altri Paesi emergenti (oltre 4 milioni di vetture Crysler-Fiat) garantisce profitti (superiori ai 3 miliardi di euro) e quindi posti di lavoro stabili. Sempre lui, qui in Italia, ha migliaia di operai in cassa integrazione, non vende neppur i nuovi modelli sui quali ha investito (800 milioni sulla nuova Panda, ma solo 120 mila auto venute a fronte delle 200 mila ipotizzate) e accumula debiti per 700 milioni di euro.
Il manager è lo stesso, cambia il Paese. Quindi – se c’è una logica – è l’Italia nera, non Marchionne. Nera perchè viviamo una crisi economica più stringente, per cui gli italiani, contrariamente a statunitensi e brasiliani, non hanno soldi per comprare nuove auto. Ma nera anche perchè il nostro è un Paese sempre più “inospitale” per gli investimenti e le attività produttive.
I sindacati invocano l’intervento al governo Monti, della Fornero. Però anche il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha spiegato (ospite della Gruber a Otto e mezzo) che nessun governo può interferire sulle scelte di un’azienda privata e che gli aiuti di stato – comunque esecrabili – sono oggi espressamente vietati dall’Europa in quanto generano la concorrenza sleale tra aziende.
Il governo Monti può intervenire sulle questioni strutturali, sulle regole del gioco. Marchionne, intervistato da Ezio Mauro, ha chiesto “una riforma del lavoro che ci porti al passo degli altri Paesi”. Possiamo raccontarci che è già stata fatta, che siamo già al passo degli altri…la Fiat, e non solo lei, continueranno ad andare altrove…
Sempre Marchionne conclude l’intervista con Mauro: “Ma “repubblica fondata sul lavoro” vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca”.
Continuare a definirlo un uomo nero è solamente un alibi, serve ad evitare di guardarci allo specchio, serve ad ignorare i ritardi che abbiamo accumulato rispetto ai moderni Paesi industriali.

SCEGLIAMOCI ALMENO IL BURATTINO

Che ci facciano scegliere almeno il burattino. Salviamo la forma. Tanto il burattinaio – per fortuna – è e resta straniero, e manovrerà i fili di qualunque burattino tecnico o politico. Ma, appunto, salviamo la forma.
Per questo è inquietante non che ci siano le pressioni dell’Europa, della Germania anche degli Stati Uniti, per andare al Monti bis. E’ inquietante che si sappia, che venga divulgata la notizia di queste pressioni: si rischia infatti di suscitare un rigurgito di patriottismo (in questa Italia che nemmeno sa cosa sia il patriottismo…) al grido di: vogliono espropiarci la sovranità!
Esempio Bersani. Siccome punta ad andare lui al posto di Monti, si è subito messo a gridare: decide il voto, comandano gli elettori, non i banchieri! Si dimentica che quando comandava lui, cioè quand’era ministro dello Sviluppo economico e tentò di varare la “lenzuolata”, dovette fare marcia indietro perfino davanti alla lobby dei tassisti (non davanti a quella ultrapotente dei banchieri…)
Quindi è vero che la sovranità ci è stata espropriata. Ma è vero anche che stiamo parlando di un oggetto finito nel freezer: nel senso che nessun governo – non Berlusconi, non Prodi – voleva o riusciva più ad esercitarla, cioè a varare le riforme necessarie a modernizzare il Paese; ad evitare una deriva greca.
E allora ben venga il burattinaio straniero. Che non sono le banche né i fantomatici poteri forti, ma statisti capaci di esercitare la sovranità per conto terzi: ossia di imporci le riforme strutturali nel bilancio dello Stato, nel mercato del lavoro, nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministrazione
Il burattinaio straniero è l’ultima speranza che ci resta. Non buttiamola via andando a raccontare la verità, cioè che vogliono imporci anche il burattino. Salviamo la forma per il bene della Patria…

PRODUTTIVITA’ DA POSTO FISSO

Tra le tante fosche notizie che ci stanno introducendo al terribile autunno in arrivo, la più tragica è quella che riporta oggi in prima pagina La Stampa: secondo l’Istat l’Italia è ultima per produttività, negli ultimi dieci anni è cresciuta meno che in tutti gli altri 27 Paesi dell’Unione eurpoea.
Notizia tragica perchè assolve perfino quei nostri imprenditori cafoni che, invece di investire in azienda, comprano panfili o vanno a lezione di golf. Non si può infatti pretendere che qualcuno, italiano o straniero che sia, venga ad investire dove non si guadagna invece che dove si guadagna. C’è sicuramente anche un’etica del lavoro (senso del dovere civico verso il proprio Paese, l’opposto del panfilo…) ma la molla è e resta l’opportunità del guadagno, perchè l’impresa non è la San Vincenzo. E nessuno di noi è talmente “patriottico” da andare a bere il caffè dove fa schifo e costa il doppio.
Questo è il nostro Paese: un bar dove il caffè è cattivo e costa troppo, con conseguenze disastrose sia per il guadagno del datore di lavoro che per lo stipendio del lavoratore che per i posti di lavoro.
Le ragioni per cui siamo il fanalino di coda della produttività sono molteplici: la tassazione troppo elevata, la burocrazia che soffoca e taglieggia inutilmente, la giustizia civile desaparecida. Però non possiamo fingere che non pesi moltissimo anche la cultura del posto fisso, la mentalità da art.18 che si è ormai consolidata tanto nel pubblico quanto nel privato.
Non c’è giornalista nel mondo anglosassone che non abbia un contratto a termine, che periodicamente viene rinnovato o meno, incrementato o ridotto nella retribuzione, a seconda della produttività dimostrata.
Perchè mai dovrebbe essere produttivo un docente italiano quando sa che – una volta in cattedra – si impegni oppure no nella didassi e nell’aggiornamento, avrà la progressione di stipendio e nessuno potrà comunque licenziarlo fino alla pensione. Non si esclude, ovviamente, il senso del dovere e l’amore per l’insegnamento del singolo, ma il sistema del posto fisso a prescindere è un autentica istigazione al fancazzismo.
Quando mai sarà produttiva l’amministrazione della giustizia finché qualunque magistrato – conduca una inchiesta complicatissima a Milano o svolga una routine da pretore di provincia, mandi in carcere Enzo Tortora o Totò Riina, lavori o si dia malato per dedicarsi alle regate – avrà comunque i suoi scatti di anzianità ed andrà in pensione – tutti quanti, migliaia quanti sono – con lo stipendio di Primo Presidente della Corte di Cassazione, cioè con il top della retribuzione prevista per il pubblico impiego italiano. Una retribuzione così elevata che il sindacato delle toghe la custodisce come il Terzo Segreto di Fatima…
A Londra ho incontrato il fratello di un vecchio amico. Per vent’anni ha lavorato nel mondo della finanza, poi non gli hanno più rinnovato il contratto. Lui, nel frattempo, si è messo a studiare storia e sta per laurearsi ora che ha più di cinquant’anni. Mi raccontava che intende dedicarsi all’insegnamento. In Inghilterra puoi farlo a qualunque età perchè ti valutano e, se ti ritangono idoneo, ti assumono. Ovviamente a tempo determinato. Anche nella scuola pubblica, aggiungeva, non esistono contratti uguali per tutti: c’è un preside e un consiglio di amministrazione che ti assume e ti paga sempre in base alle capacità.
C’è una crisi che sicuramente è crisi globale ma che, ciò non ostante, continua ad offrire opportunità in più nei Paesi meno ingessati, dove il merito e le capacità individuali vengono riconosciuti e comunque valutati a tempo determinato. A Londra perfino un matusa come me potrebbe essere messo alla prova, perchè i contratti di lavoro mai sono vincolanti come lo era il matrimonio prima della legge sul divorzio. Mentre qui qualche giovane (pochi) ancora lo assumono, ma non esiste impresa che “sposi” un quarantenne o un cinquantenne rimasto senza lavoro.
Risultato: la nostra non può che essere una produttività da posto fisso, l’ultima d’Europa.

RICCO DI AMICI, SCARSO DI GUAI

“Chi è ricco di amici è scarso di guai”. Uno mio carissimo, di amico, racconta sempre che suo padre gli ripeteva questa frase fin da quand’era piccolo; quasi fosse la stella polare, il comandamento guida per la vita. E non c’è dubbio che questa affermazione rappresenti una grande saggezza popolare che tiene conto della realtà del nostro Paese.
Un Paese dove le relazioni, le amicizie sono fondamentali. Al punto che la persona ricca di denaro ma povero di amici se la cava peggio di quella che ha un reddito medio ma uno stuolo di amici ai quali rivolgersi nelle varie necessità.
Valga per tutti l’esempio del tanto decantato sistema sanitario veneto. Un autentico inferno, se non conosci nessuno degli addetti. Diventa invece un purgatorio accettabile se conosci la caposala, che allora in corsia ti trattano da individuo e non da numero; se conosci un medico che ti consente di aggirare il martirio delle liste d’attesa. E l’amicizia è il passepartout in tutti gli altri ambiti della realtà italiana. A cominciare dalle assunzioni che, dietro la facciata dei concorsi, passano attraverso le conoscenze.
Ma l’altra, tragica, faccia della stessa medaglia è l’assenza totale dello Stato. Il cittadino non è più garantito dalle norme, dal diritto, dallo Stato di diritto; come avviene nelle democrazie autentiche dove il più burbero degli uomini è equiparato al più cordiale ed espansivo. Da noi senza amicizie sei finito.
Un Paese fondato sui legami personali non può che dar vita ad un ”associazionismo” esasperato. Da quello più ligh e innocente fino a quello più hard e inquietante. Per capirci: dai cacciatori agli amici della bicicletta agli ordini professionali, via via passando per il Lios e i Rotary, le logge massoniche e l’Opus Dei, fino alle cosche e alle mafie varie. Ovviamente con responsabilità del tutto diverse, ma la logica di fondo è sempre quella: non è lo Stato che provvede a me, sono gli amici, sono le conoscenze; quindi più ne annovero più risolvo i problemi e scanso i guai. Ben sapendo che vale il do ut des…
Ma il guaio vero è che anche il politico si muove in questa dimensione, deve rispondere a questa “cultura” amicale. Anche il politico deve essere un amico al quale ci rivolgiamo per ottenere favori, elargizioni, assunzioni. E, se non si comporta da amico, non lo votiamo più. Esercitiamo il ricatto del consenso. Vale, appunto, il do ut des.
Il risultato è che il politico non deve governare il paese o le città o le regioni, ma deve anzitutto elargire.
La conseguenza è quella che descrive oggi Galli Della Loggia sul Corriere: “A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare, fin dall’inizio e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa e quindi, alla lunga, del debito pubblico”.
Quindi se da un lato la frase del padre del mio amico – “chi è ricco di amici è scarso di guai” – è certo una regola guida che per tanti anni ha consentito all’individuo di cavarsela nelle necessità quotidiane, dall’altro lato ha affossato sempre più lo Stato. E, nella dimensione storico-culturale, è forse la causa prima che sta portando alla rovina la sgangherata democrazia italiana.