E’ NERO IL PAESE NON MARCHIONNE

Secondo alcuni Sergio Marchionne è l’uomo nero, il manager che non mantiene le promesse e non investe più negli stabilimenti Fiat i 20 miliardi promessi con Fabbrica Italia. Ma, se esiste la logica, la conclusione dovrebbe essere diversa, anzi opposta.
Marchionne infatti vende molto in Usa, America Latina e altri Paesi emergenti (oltre 4 milioni di vetture Crysler-Fiat) garantisce profitti (superiori ai 3 miliardi di euro) e quindi posti di lavoro stabili. Sempre lui, qui in Italia, ha migliaia di operai in cassa integrazione, non vende neppur i nuovi modelli sui quali ha investito (800 milioni sulla nuova Panda, ma solo 120 mila auto venute a fronte delle 200 mila ipotizzate) e accumula debiti per 700 milioni di euro.
Il manager è lo stesso, cambia il Paese. Quindi – se c’è una logica – è l’Italia nera, non Marchionne. Nera perchè viviamo una crisi economica più stringente, per cui gli italiani, contrariamente a statunitensi e brasiliani, non hanno soldi per comprare nuove auto. Ma nera anche perchè il nostro è un Paese sempre più “inospitale” per gli investimenti e le attività produttive.
I sindacati invocano l’intervento al governo Monti, della Fornero. Però anche il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha spiegato (ospite della Gruber a Otto e mezzo) che nessun governo può interferire sulle scelte di un’azienda privata e che gli aiuti di stato – comunque esecrabili – sono oggi espressamente vietati dall’Europa in quanto generano la concorrenza sleale tra aziende.
Il governo Monti può intervenire sulle questioni strutturali, sulle regole del gioco. Marchionne, intervistato da Ezio Mauro, ha chiesto “una riforma del lavoro che ci porti al passo degli altri Paesi”. Possiamo raccontarci che è già stata fatta, che siamo già al passo degli altri…la Fiat, e non solo lei, continueranno ad andare altrove…
Sempre Marchionne conclude l’intervista con Mauro: “Ma “repubblica fondata sul lavoro” vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca”.
Continuare a definirlo un uomo nero è solamente un alibi, serve ad evitare di guardarci allo specchio, serve ad ignorare i ritardi che abbiamo accumulato rispetto ai moderni Paesi industriali.

SCEGLIAMOCI ALMENO IL BURATTINO

Che ci facciano scegliere almeno il burattino. Salviamo la forma. Tanto il burattinaio – per fortuna – è e resta straniero, e manovrerà i fili di qualunque burattino tecnico o politico. Ma, appunto, salviamo la forma.
Per questo è inquietante non che ci siano le pressioni dell’Europa, della Germania anche degli Stati Uniti, per andare al Monti bis. E’ inquietante che si sappia, che venga divulgata la notizia di queste pressioni: si rischia infatti di suscitare un rigurgito di patriottismo (in questa Italia che nemmeno sa cosa sia il patriottismo…) al grido di: vogliono espropiarci la sovranità!
Esempio Bersani. Siccome punta ad andare lui al posto di Monti, si è subito messo a gridare: decide il voto, comandano gli elettori, non i banchieri! Si dimentica che quando comandava lui, cioè quand’era ministro dello Sviluppo economico e tentò di varare la “lenzuolata”, dovette fare marcia indietro perfino davanti alla lobby dei tassisti (non davanti a quella ultrapotente dei banchieri…)
Quindi è vero che la sovranità ci è stata espropriata. Ma è vero anche che stiamo parlando di un oggetto finito nel freezer: nel senso che nessun governo – non Berlusconi, non Prodi – voleva o riusciva più ad esercitarla, cioè a varare le riforme necessarie a modernizzare il Paese; ad evitare una deriva greca.
E allora ben venga il burattinaio straniero. Che non sono le banche né i fantomatici poteri forti, ma statisti capaci di esercitare la sovranità per conto terzi: ossia di imporci le riforme strutturali nel bilancio dello Stato, nel mercato del lavoro, nella scuola, nella giustizia, nella pubblica amministrazione
Il burattinaio straniero è l’ultima speranza che ci resta. Non buttiamola via andando a raccontare la verità, cioè che vogliono imporci anche il burattino. Salviamo la forma per il bene della Patria…

PRODUTTIVITA’ DA POSTO FISSO

Tra le tante fosche notizie che ci stanno introducendo al terribile autunno in arrivo, la più tragica è quella che riporta oggi in prima pagina La Stampa: secondo l’Istat l’Italia è ultima per produttività, negli ultimi dieci anni è cresciuta meno che in tutti gli altri 27 Paesi dell’Unione eurpoea.
Notizia tragica perchè assolve perfino quei nostri imprenditori cafoni che, invece di investire in azienda, comprano panfili o vanno a lezione di golf. Non si può infatti pretendere che qualcuno, italiano o straniero che sia, venga ad investire dove non si guadagna invece che dove si guadagna. C’è sicuramente anche un’etica del lavoro (senso del dovere civico verso il proprio Paese, l’opposto del panfilo…) ma la molla è e resta l’opportunità del guadagno, perchè l’impresa non è la San Vincenzo. E nessuno di noi è talmente “patriottico” da andare a bere il caffè dove fa schifo e costa il doppio.
Questo è il nostro Paese: un bar dove il caffè è cattivo e costa troppo, con conseguenze disastrose sia per il guadagno del datore di lavoro che per lo stipendio del lavoratore che per i posti di lavoro.
Le ragioni per cui siamo il fanalino di coda della produttività sono molteplici: la tassazione troppo elevata, la burocrazia che soffoca e taglieggia inutilmente, la giustizia civile desaparecida. Però non possiamo fingere che non pesi moltissimo anche la cultura del posto fisso, la mentalità da art.18 che si è ormai consolidata tanto nel pubblico quanto nel privato.
Non c’è giornalista nel mondo anglosassone che non abbia un contratto a termine, che periodicamente viene rinnovato o meno, incrementato o ridotto nella retribuzione, a seconda della produttività dimostrata.
Perchè mai dovrebbe essere produttivo un docente italiano quando sa che – una volta in cattedra – si impegni oppure no nella didassi e nell’aggiornamento, avrà la progressione di stipendio e nessuno potrà comunque licenziarlo fino alla pensione. Non si esclude, ovviamente, il senso del dovere e l’amore per l’insegnamento del singolo, ma il sistema del posto fisso a prescindere è un autentica istigazione al fancazzismo.
Quando mai sarà produttiva l’amministrazione della giustizia finché qualunque magistrato – conduca una inchiesta complicatissima a Milano o svolga una routine da pretore di provincia, mandi in carcere Enzo Tortora o Totò Riina, lavori o si dia malato per dedicarsi alle regate – avrà comunque i suoi scatti di anzianità ed andrà in pensione – tutti quanti, migliaia quanti sono – con lo stipendio di Primo Presidente della Corte di Cassazione, cioè con il top della retribuzione prevista per il pubblico impiego italiano. Una retribuzione così elevata che il sindacato delle toghe la custodisce come il Terzo Segreto di Fatima…
A Londra ho incontrato il fratello di un vecchio amico. Per vent’anni ha lavorato nel mondo della finanza, poi non gli hanno più rinnovato il contratto. Lui, nel frattempo, si è messo a studiare storia e sta per laurearsi ora che ha più di cinquant’anni. Mi raccontava che intende dedicarsi all’insegnamento. In Inghilterra puoi farlo a qualunque età perchè ti valutano e, se ti ritangono idoneo, ti assumono. Ovviamente a tempo determinato. Anche nella scuola pubblica, aggiungeva, non esistono contratti uguali per tutti: c’è un preside e un consiglio di amministrazione che ti assume e ti paga sempre in base alle capacità.
C’è una crisi che sicuramente è crisi globale ma che, ciò non ostante, continua ad offrire opportunità in più nei Paesi meno ingessati, dove il merito e le capacità individuali vengono riconosciuti e comunque valutati a tempo determinato. A Londra perfino un matusa come me potrebbe essere messo alla prova, perchè i contratti di lavoro mai sono vincolanti come lo era il matrimonio prima della legge sul divorzio. Mentre qui qualche giovane (pochi) ancora lo assumono, ma non esiste impresa che “sposi” un quarantenne o un cinquantenne rimasto senza lavoro.
Risultato: la nostra non può che essere una produttività da posto fisso, l’ultima d’Europa.

RICCO DI AMICI, SCARSO DI GUAI

“Chi è ricco di amici è scarso di guai”. Uno mio carissimo, di amico, racconta sempre che suo padre gli ripeteva questa frase fin da quand’era piccolo; quasi fosse la stella polare, il comandamento guida per la vita. E non c’è dubbio che questa affermazione rappresenti una grande saggezza popolare che tiene conto della realtà del nostro Paese.
Un Paese dove le relazioni, le amicizie sono fondamentali. Al punto che la persona ricca di denaro ma povero di amici se la cava peggio di quella che ha un reddito medio ma uno stuolo di amici ai quali rivolgersi nelle varie necessità.
Valga per tutti l’esempio del tanto decantato sistema sanitario veneto. Un autentico inferno, se non conosci nessuno degli addetti. Diventa invece un purgatorio accettabile se conosci la caposala, che allora in corsia ti trattano da individuo e non da numero; se conosci un medico che ti consente di aggirare il martirio delle liste d’attesa. E l’amicizia è il passepartout in tutti gli altri ambiti della realtà italiana. A cominciare dalle assunzioni che, dietro la facciata dei concorsi, passano attraverso le conoscenze.
Ma l’altra, tragica, faccia della stessa medaglia è l’assenza totale dello Stato. Il cittadino non è più garantito dalle norme, dal diritto, dallo Stato di diritto; come avviene nelle democrazie autentiche dove il più burbero degli uomini è equiparato al più cordiale ed espansivo. Da noi senza amicizie sei finito.
Un Paese fondato sui legami personali non può che dar vita ad un ”associazionismo” esasperato. Da quello più ligh e innocente fino a quello più hard e inquietante. Per capirci: dai cacciatori agli amici della bicicletta agli ordini professionali, via via passando per il Lios e i Rotary, le logge massoniche e l’Opus Dei, fino alle cosche e alle mafie varie. Ovviamente con responsabilità del tutto diverse, ma la logica di fondo è sempre quella: non è lo Stato che provvede a me, sono gli amici, sono le conoscenze; quindi più ne annovero più risolvo i problemi e scanso i guai. Ben sapendo che vale il do ut des…
Ma il guaio vero è che anche il politico si muove in questa dimensione, deve rispondere a questa “cultura” amicale. Anche il politico deve essere un amico al quale ci rivolgiamo per ottenere favori, elargizioni, assunzioni. E, se non si comporta da amico, non lo votiamo più. Esercitiamo il ricatto del consenso. Vale, appunto, il do ut des.
Il risultato è che il politico non deve governare il paese o le città o le regioni, ma deve anzitutto elargire.
La conseguenza è quella che descrive oggi Galli Della Loggia sul Corriere: “A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare, fin dall’inizio e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa e quindi, alla lunga, del debito pubblico”.
Quindi se da un lato la frase del padre del mio amico – “chi è ricco di amici è scarso di guai” – è certo una regola guida che per tanti anni ha consentito all’individuo di cavarsela nelle necessità quotidiane, dall’altro lato ha affossato sempre più lo Stato. E, nella dimensione storico-culturale, è forse la causa prima che sta portando alla rovina la sgangherata democrazia italiana.

 

 

MEGLIO EVASORI CHE LOMBARDO

Abbiamo perso l’europeo di calcio ma, in compenso, siamo campioni del mondo di tasse. Nessuno ci batte quanto a pressione fiscale: 55% sul cittadino, 70% sull’impresa.
Poi, per fortuna, abbiamo Attilio Befera che non ha dubbi nell’individuare la causa: tutta colpa degli evasori. Peccato che scambi la causa per l’effetto. Come spiega Giuseppe Bortolussi ed ogni economista serio, come dimostra l’esperienza di ogni Paese, è l’esatto contrario: l’eccesso di pressione fiscale non genera gettito in più ma solo evasione in più; perchè il contribuente, strangolato, non riesce più a versare nemmeno quello che versava prima.
Ma, anche avesse ragione, Befera sembra un comico. Cosa pensereste se, guardandovi negli occhi con aria truce, dicessi: l’opinione di Zwirnere fa schifo! Pensereste che sono impazzito dato che sono io a farla, mica voi. Allo stesso modo siamo forse noi incaricati di combattere l’evasione fiscale? No, è lui, Attilio Befera e, se non ci riesce, si guardi allo specchio e si prenda a sberle…
Certo che è un po’ difficile recuperare le grandi cifre finchè indirizzi i blitz su baristi e albergatori invece che al Palazzo dei Normanni, dove sistematicamente vengono taroccati i bilanci miliardari della regione Sicilia.
Non sto a ripetere le cifre e i dati che abbiamo visto pubblicati negli ultimi giorni. Secondo Repubblica la regione Sicilia paga, per vie dirette o traverse, 114 mila stipendi. E poi ci sono i dipendenti di comuni e province, ci sono tutti gli altri statali (sanità, scuola, sicurezza, giustizia) ci sono le pensioni baby tutt’ora elargite con la scusa del parente infermo da assistere. C’è un pil dell’isola che è fatto quasi esclusivamente di spesa pubblica con il risultato di aver progressivamente distrutto l’economia reale, quella che produce ricchezza invece che mangiarsela.
Di fronte a questa depravazione assistenziale pubblica, non si può non ripensare a Milton Friedman, l’economista liberale premio Nobel, che definì l’evasore ficale un benemerito. Perchè, spiegava, spende i soldi nell’economia reale, in beni e consumi, che aiutano il lavoro e la produzione, invece che versarli nella casse dello Stato che spesso li sperpera.
Lombardo (non solo lui, per carità: lui come tutti i suoi predecessori) è l’incarnazione della depravazione assistenziale pubblica.
Il che ci pone di fronte ad un alternativa, sicuramente teorica (chiaro che non si incita all’evasione) ma non meno interessante: potessimo non pagare le tasse, con quei soldi andremmo in vacanza a spenderli in Sicilia aiutando così quel po’ che resta di industria turistica. Invece, da cittadini ligi, paghiamo le tasse così Monti ha i 400 milioni pronti da girare a Lombardo che continua a dilatare la spesa pubblica distruggendo anche i residui di economia reale.
E’ nell’interesse della Sicilia e dei siciliani che diciamo: meglio evasori che Lombardo!

SQUINZI-CAMUSSO E I LADRI DI PISA

Squinzi e Camusso come i ladri di Pisa: di giorno fingono di litigare, la notte vanno assieme a rubare (vanno all’assalto della diligenza pubblica con leggi ad hoc e finanziamenti a perdere). Non è vero, c’è una novità: il neo presidente di Confindustria nemmeno finge di litigare ma pubblicamente va a braccetto con la Susanna e se la sbaciucchia.
Lo scandalo non sono le dichiarazioni di Squinzi al convegno della Cgil. Lui ha avuto solo il torto di rendere pubblica la verità. Lo scandalo è l’ipocrisia della reazione scandalizzata del Corriere della sera, il fondo di oggi di Dario Di Vico che finge un risveglio inatteso, che finge di non sapere che è sempre stato così. Lo scandalo è la reazione di Montezzemolo che oggi bacchetta Squinzi, lui che, con Epifani segretario Cgil, è stato uno dei tanti ladri di Pisa al vertice di Confindustria. (Lui che è l’incarnazione dell’imprenditoria assistita con denaro pubblico. Lui e Tronchetti, un altro che oggi gioca a fare lo scandalizzato…)
Lo è stato, Montezzemolo, sull’esempio del suo maestro: quel Gianni Agnelli che, da presidente di Confindustria, con Luciano Lama al vertice della Cgil, inaugurarono assieme la lunga stagione dei ladri di Pisa: imprenditori e sindacalisti che fingono di litigare per spartirsi meglio il bottino.
Può esistere una legge con la quale gli industriali si prestano a fare da esattori ai sindacati, tattenendo loro dallo stipendio dei lavoratori la quota di iscrizione ai sindacati stessi? Può esistere se sindacati dei lavoratori e sindacati dei datori di lavoro vanno d’amore e d’accordo, può esistere solo se sono ladri di Pisa. Ve lo immaginate i comunisti che fanno il tesseramento a beneficio dei fascisti o viceversa? Esiste solo se comunisti e fascisti sono complici.
Con l’aggravante, ipocrita, che non stiamo parlando di sindacati e industriali tedeschi da sempre uniti nella ricerca del bene comune del loro Paese. Da noi fingono ancora lo scontro di classe, poi “concertano” ossia si mettono d’accodo sulla spartizione. Ma senza mai abbandonare la recita del conflitto sociale.
Quanto alla spartizione gli esempi sono mille, fermiamoci al più clamoroso: da un lato i 30 miliardi di denaro pubblio che tutt’ora vengono distribuiti tra gli imprenditori amici (di Confindustria), dall’altro il finanziamento pubblico ai caf e l’elargizione di una quantità di distacchi sindacali che non trova riscontro in altri Paesi.
Ovvio che quanto il povero Mario Monti tenta di tagliuzzare di qua e di là, Squinzi e la Susanna all’unissono lo accusano di essere il macellaio sociale. Nel senso che il “sociale” sono loro: i carrozzzoni sindacale e confindustriale.
Quanto al Giorgio di viale dell’Astronomia è da prenderlo a sberle: va bene essere naif, va bene usare termini come “porcata”, ma non si può essere ingenuo al punto di gridare che il re nudo mettendosi a sbaciucchiare in pubblico la Susanna!…

CAMPIONI D’EUROPA…IN RETORICA

Dunque la Spagna ci ha fatto il mazzo: mai una finale dell’Europeo né del Mondiale era stata persa con un punteggio tanto netto ed umiliante. In compenso possiamo consolarci: abbia vinto alla grande l’europeo della retorica. Credo si debba tornare ai due mundial conquistati nell’era fascista per trovare un precedente degno di quanto è stato scritto ora dopo il 2 a 1 alla Germania.
Mi limito a citare quello che dovrebbe essere il più serio ed autorevole dei nostri quotidiani, il Corriere della sera, che sabato titolava così: “Quel bacio alla mamma Silvia più forte dell’urlo di Tardelli”. E metteva in bocca all’azzurro-nero la dichiarazione: ”L’ho capito tardi che la scuola è essenziale; ringrazio i miei genitori che mi hanno fatto prendere il diploma”. Come dire che Balotelli non è solo (innegabilmente) un grande calciatore ma, da scapestrato che era, si è adesso trasformato in figlio affettuoso e studente modello. Un esempio da additare ai nostri pargoli.
Nella stessa pagina Gian Antonio Stella affermava: “Mario, il razzismo e l’orgoglio dei nuovi italiani. Così Balotelli con la maglia azzurra ha spazzato via decenni di stereotipi”. Intanto andiamoci piano con gli stereotipi: metterei volenieri alla prova un campione autoproclamato dell’antirazzismo come Stella facendolo abitare qualche mese in uno di quei condomini multietnici dove non esitono regole e la convivenza quotidiana è un inferno… Voglio dire che tanti dei cosiddetti “pregiudizi” nei confronti degli stranieri derivano dall’incapacità di governare l’immigrazione tanto a livello nazionale che locale – scaricando i problemi sui cittadini – e non da razzismo apriori (che pure esiste).
Dopo di che giusto o sbagliato che sia, tanto chi considera gli stranieri una risorsa quanto chi li considera una condanna, ognuno è rimasto della sua idea. E i due gol di SuperMario alla Germania nulla hanno modificato. Ed è quindi ridicolo attribuire a Balotelli questo ruolo miracolistico nel mutare giudizi e pregiudizi degli italiani.
Può pensarlo solo chi ha un pregiudizio positivo verso i “diversamente bianchi” (come li ha definiti un nostro telespettatore), nel senso che attribuisce ai neri virtù che mai riconoscerebbe ad un bianco. Un po’ come si può tranquillamente insultare un eterosessuale, ma guai a farlo con un gay…
Oggi poi, lunedì 2 luglio, sempre sul Corriere è sceso in campo il campione dell’unità nazionale, Aldo Cazzullo, spiegando che “Questa squadra ci ha insegnato a essere più uniti” perchè in azzurro militano giocatori provenienti da società di tutto il Paese, dalla Juve al Bologna, dalla Fiorentina fino al Palermo.
E qui lo sbocco retorico sconfina nella parodia. Ci fu infatti un evento che – nella sua bestiale tragicicità – contribuì in effetti ad unire gli italiani: la Grande Guerra dove, per la prima volta, veneti e siciliani, calabresi ed emiliani, si conobbero combattendo e morendo assieme nelle trincee. Paragonarlo però al raduno degli azzurri, a tre settimane di campionato d’Europa è semplicemente vomitevole.
D’altra parte sempre Cazzullo scrive: ”Cesare Prandelli ha dato alla nazionale un gioco e un’etica”. Sul gioco possiamo anche essere d’accordo, sul fatto che sia la reincarnazione di Immanuel Kant un po’ meno…Ma quando si spicca il volo sulle ali della retorica il senso del limite e del ridicolo rimane sempre a terra.

ELUSIONE ITALIANA, ETICA TEDESCA

Evasione ed elusione, nel fisco come nel lavoro. La prima è molto più evidente: evade dal lavoro chi si da malato senza esserlo, chi timbra il cartellino e se ne va per i fatti suoi. L’elusione è più subdola: arrivo e mi siedo al mio posto, sembra che sia presente ma in realtà sono altrove, telefono agli amici, cazzeggio su internet, di fatto non lavoro.
Non c’è divieto né regola che possa combattere l’elusione. Patroni Griffi ha deciso un giro di vite al dipartimento della Funzione pubblica: saranno abilitate solo le telefonate urbane; niente più chiamate interurbane, internazionali o verso cellulari. Magari risparmierà sulle bollette, ma non ci sarà nessuna garanzia che i funzionari pubblici, anche senza telefonare agli amici, non stiano alla scrivania a grattarsi la pancia invece che lavorare.
Non ci sono leggi, divieti, sanzioni che servano. Ci vorrebbe altro. Chiamatelo senso civico, senso del dovere, etica del lavoro, ma questa è l’unica cosa capace di combattere l’elusione. E’ una questione culturale, fa parte o no dei cromosomi di un popolo. Più si alza la “linea della Palma”, meno fa parte dei cromosomi anche di noi veneti.
L’altra sera a Rosso & Nero, il prof. Gilberto Muraro (ex rettore dell’ateneo di Padova e docente universitario del tutto degno di questo nome. Uno dei pochi…) chi ha tenuto una vera “lectio magistralis” sull’etica del lavoro in Germania, spiegando che coinvolge tutti, gli operai come gli imprenditori, che significa impegno, serietà, rigore. Il lavoro come etica sociale, per cui lo stesso imprenditore tedesco non si mette a fare il finanziere, non specula in borsa, ma sente in dovere di reinvestire gli utili per migliorare l’azienda a beneficio della propria comunità.
Un tempo eravamo tedeschi anche noi veneti. Non posso dimenticare un gigante come Apollinare Veronesi che, quando creò nel dopoguerra il suo magimificio destinato a diventare in primo in Europa, aveva una precisa finalità sociale: promuovere il riscatto di quella sua montagna veronese, ridotta alla fame da un’agricoltura miserrima, che avrebbe avuto, come ebbe, una grande opportunità di crescita economica con il diffondersi degli allevamenti di animali da cortile che completavano la filiera del mangimificio.
Poi è salita la “linea della Palma”. Anche in Veneto dilaga una imprenditoria assistita, con l’impegno ad essere competitivi non nella produzione ma nel carpire i finziamenti pubblici, nel mettere le mani sulle privatizzazioni; sono arrivati gli investimenti “differenziati”, siamo alle prese con una seconda generazione di imprenditori dediti anzitutto al cazzeggio, né più né meno di certi pubblici dipendenti, ed in più esibendo un lusso tanto smodato quanto cafone. Un insulto per la propria comunità.
L’abisso che separa i nostri imprenditori da quelli tedeschi l’ha delineato Giuliano Ferrara, scrivendo che assistenzialismo, concertazione, mancato ammodernamento del mercato del lavoro hanno “spinto gli imprenditori e diventare supereroi delle vacanze di lusso e del disinvestimento e del consumo pazzo. Avete mai visto lo yacht billionario di un tedesco ancorato a Porto Cervo? Loro sono tutti a Rimini o se la godono in montagna, e per lo più lavorano”.
Gli imprendori tedeschi, hanno un etica sociale, per questo fanno vacanze sobrie e pensano a produrre. Quando manca l’etica, invece, te ne vai in Sardegna a gareggiare con gli sceicchi e i boss della mafia russa su chi ce l’ha più lungo (lo yacht).

BASTASSE RIESUMARE MAMELI…

Quand’ero alle elementari (oltre mezzo secolo fa) entrava in classe la maestra, noi uscivamo in piedi fuori dai banchi, e si iniziava la mattina a scuola recitando le preghiere. Era una prassi naturale rispetto alla religiosità diffusa e sentita di quel tempo (andato). Dubito assai che oggi, riprendendo la consuetudine delle preghiere (ammesso che le maestre accettino di farle recitare), riusciremmo nuovamente a riempire le chiese e gli oratori…
Allo stesso modo non basta riesumare Mameli per riesumare un amor di Patria italiana che forse non è mai nato e che, se è nato, è morto assieme al fascismo. (Ce lo ricordiamo che, per decenni, solo quei neofascisti del Msi di Almirante cantavano l’Inno e sventolavano il tricolore? E che solo l’avvento della Lega secessionista è servito a farci riscoprire l’amor di patria unita?…)
Il fatto che la commissione cultura della Camera deliberi di far studiare nelle scuole l’Inno di Mameli è utile unicamente a farci capire quanto male siamo messi, quanto sconosciuto sia l’orgoglio per l’appartenenza al nostro Paese. Vi pare che in Germania o negli Usa serva ordinare di studiare l’inno nelle scuole? Non serve perchè tutti già lo conoscono, perchè amano il loro Paese e sono fieri di farne parte. Farne parte: che significa conoscere e condividere la storia, la cultura, le tradizioni.
Breve parentesi comica. La commissione cultura esenta dall’obbligo i soli altoatesini che, con tutti i benefici che gli abbiamo elargito (impensabili se fossero rimasti austriaci) sono tra i pochi ad avere ottimi motivi per gridare a squarciagola “viva l’Italia!”…
Il quotidiano Italia Oggi si schiera a favore dalla cittadinanza per gli stranieri nati in Italia. Lo fa anche con il racconto di un bambinetto negro di pochi anni che: “Indossa la maglia azzurra con, in bell’evidenza, la parola Italia. Parla con i genitori (che si esprimono in un italiano incerto) in un italiano perfetto, con addirittura un pizzico di intonazione locale”
“Il negretto – prosegue il racconto di Italia Oggi – diventerà un calciatore? Un carabiniere? O un chirurgo? Una cosa è certa. E’ già più italiano di molti nostri figli. Orgoglioso di vivere qui. Che non è il suo paese d’adozione ma il suo paese”.
Ne vediamo ogni giorno, nelle nostre città, figli di stranieri che sono esattamente come questo negretto. La cosa sorprendente, o se vogliamo tragica, è appunto che sono “già più italiani di molti nostri figli”. Anche i bambini turchi in Germania si sentono tedeschi, ma non più dei figli dei tedeschi. Anche i bambini messicani negli Usa si sentono americani, ma non più dei figli degli yenkee.
Tedeschi e americani amano il loro paese, sentono un’appartenenza di cui vanno orgogliosi. Noi no. A noi succede di essere superati dai figli degli stranieri che sono più italiani di noi! Per loro, i nuovi italiani, non serve imparare l’Inno di Mameli. Per noi non basta.

L’IMU E IL GIOCO DEI BUSSOLOTTI

Convinto di lenire il “prelievo” dell’Imu che stiamo subendo in queste ore, il governo Monti – anche su ispirazione dei partiti che lo sostengono – ha annunciato che, dall’anno prossimo, il gettito della nuova tassa sulla casa andrà completamente a beneficio dei comuni; resterà sul territorio senza più andare a Roma. Siamo al gioco dei bussolotti o, se preferite, delle tre carte.
Posso infatti capire che gioiscano dell’annuncio i sindaci e gli amministratori locali (di fronte alla prospettiva i poter tornare a spendere a piene mani, o a mani meno vuote degli ultimi anni). Ma a me cittadino – proprietario di casa o di bottega o di capannone o di studio professionale – non ne può fregar di meno di sapere che i miei soldi resteranno tutti in periferia invece che andare in buona parte al centro come nell’anno in corso.
Per me la differenza davvero significativa è una sola: pagare l’Imu o non pagarla. E, dal momento che la pagherò anche nel 2013, per me cittadino non è cambiato assolutamente nulla. Si è aggiunto solo l’ennesimo tentativo di confondere le acque fiscali.
Senza dire che il gioco dei bossolotti è tale per una ragione evidente: il governo centrale rinuncia ad incassare buona parte dell’Imu, la lascia tutta ai comuni, ma, in compenso, annulla i trasferimenti ai comuni stessi. Perchè può annularli? Perchè c’è il gettito Imu. E che differenza fa per il governo incassare l’Imu o non dover più sborsare i trasferimenti? Nessuna: per lui i conti tornano sempre, per noi cittadini non tornano mai.
In teoria esiste il comandamento del federalismo fiscale:” Pago, vedo, voto”. Dovrebbe comportare una maggior attenzione nei confronti delle tasse pagate e reinvestite sul territorio. Della serie: nel mio comune posso vedere se il sindaco e gli assessori girano con l’auto blù, se è una Limusine o una Panda, e regolarmi di conseguenza nell’urna. Mentre a livello nazionale nemmeno capisco in quale voragine finiscano i miei soldi.
Dipende però dalla cultura politica applicare o meno questo comandamento. Per applicarlo ci vorrebbe la cultura politica dei repubblicani usa (che nemmeno i democratici possono ignorare, come dimostra la marcia indietro di Obama sulla riforma sanitaria) così riassumibile: pretendo anzitutto di pagare meno tasse possibili, non mi faccio sedurre dall’offerta di servizi perchè so che sono a mie spese.
Da noi la cultura politica è opposta: pretendo dal mio sindaco quanti più servizi possibili (perchè non ho ben chiaro che sono molto cari e totalmente a mio carico) e lo voto solo se li me li garantisce: se mi garantisce gli asili, lo scuola bus, la pulizia del marciapiedi davanti a casa, i servizi sociali, i trasporti pubblici a prezzo politico, etc. ect.
Con questa cultura politica corrente, che è la nostra cultura politica corrente, l’autonomia impositiva in periferia, il federalismo fiscale, non può che generare la moltiplicazione delle tasse. Perchè ogni sindaco sa che, se vuole sperare di essere rieletto, deve spendere sempre di più; deve comprarsi i voti con i servizi erogati.
Non serve quindi essere l’Oracolo di Delfi per vaticinare che l’Imu tutta ai comuni comporterà la sua applicazione alle aliquote massime. Finiremo così col rimpiangere perfino Tremonti (horribile dictu) che aveva provato a mettere gli enti locali a pane e acqua, magari per non tagliare i ministeri. Almeno con lui la spesa pubblica locale era (un po’) sotto controllo. Mentre adesso rischia di tornare fuori controllo tanto alla periferia quanto al centro.