PECCHIA ORA SCACCI LE AMBIZIONI PERSONALI

Tutto è ping pong, cantava Rino Gaetano. Pure questa serie B, che là davanti – Spal a parte – sembra un ciapa no. Così nonostante tutto – appuntamenti mancati, prestazioni stucchevoli, sconfitte inopinate – il Verona si ritrova in piena zona A a sei giornate dalla fine.

In principio era il verbo: e il verbo è che nel calcio la differenza prima o poi te la fanno i giocatori. “Se hai quelli buoni vinci”, diceva nella sua irriverente (per i soloni) semplicità Genio Fascetti. E l’Hellas dispone dei più forti, dunque succede che a Novara sbrogli la matassa una giocata estemporanea di Pazzini e che oggi sia stato Daniel Bessa, talento cristallino sulla via della compiutezza, a girare la partita. La differenza, nell’equilibrio (mediocre) di Verona-Cittadella, sta tutta qui.

Ma questa può rivelarsi una vittoria pesante, purché sia finalmente resa grazia al destino che ci rimette (ancora una volta) in corsa. Tradotto: si veda di non esaurire altri bonus. Il calendario è difficile e per trovare continuità il Verona deve ripartire dalla maggiore solidità mostrata nel secondo tempo e dimenticare la svagatezza assonnata del primi 15 minuti. Ecco, il peccato originale è sempre quello: passi per il gioco dimenticato e mai più ritrovato (arrivati a questo punto e con i singoli a disposizione l’assenza di una trama forse non è nemmeno più così determinante), ma l’Hellas ancora non sa gestirsi con equilibrio e intelligenza per l’intera partita. Perché a Novara dannarsi l’anima per 45 minuti per poi arrivare scoppiati alla ripresa? Perché oggi quell’inizio da incubo? Perché con lo Spezia la testa è rimasta negli spogliatoi? Perché in tante (troppe) altre occasioni si è restati in campo solo 20-25 minuti?

A sei giornate dalla fine diventare più sparagnini e sornioni aspettando la giocata del singolo non sarebbe un crimine, semmai una dote. Pecchia impari a vincere e disimpari la fregola (peraltro non esaudita) di voler stravincere, o di vincere come vorrebbe lui. Al di là di moduli o uomini, chiedo all’allenatore di non mutare più il copione filosofale come accaduto dopo Brescia o dopo Trapani; di non voler più inseguire un’ambizione personale, ma di restare ancorato alla praticità. Ora si gioca sul filo dei dettagli.

SETTI VUOLE LA SERIE A (E RIFLETTE SU PECCHIA)

Correva l’anno 1999. La super Ferrari dell’epoca, con Schumacher infortunato, si ritrovò a lottare per il Mondiale con Eddie Irvine. Ecco, nel pensare a questo Verona, nel vederlo a Novara (e non solo) restare a galla esclusivamente grazie alle capacità individuali (il primo gol è una giocata di Luppi, il secondo di Pazzini), mi è venuta in mente quella macchina superlativa e quel pilota non all’altezza. E sia chiaro che il sottoscritto è sempre stato un fan romantico di Irvine, l’uomo che scatenò quasi una crisi diplomatica dopo un Gp di Montecarlo per aver voltato le spalle al noioso ricevimento di Ranieri preferendo andarsene in barca a divertirsi con delle amiche. Mirabile e adorabile. Come il sottoscritto stima umanamente Fabio Pecchia, che è stato un signor giocatore, ma non è ancora un allenatore compiuto.

Non essere capaci nella serie B più scarsa dai tempi di Gutenberg (quindi di sempre) di vincere in carrozza un campionato con Pazzini, Romulo, Bessa, Fossati e Siligardi è segno di un fallimento. E se tanti giocatori di qualità, per una serie di motivi (scarso o cattivo utilizzo, anarchia tattica ecc.) sono sotto rendimento significa che c’è un problema di manico. Dal Novara a Novara, da quel roboante capitombolo casalingo che mutò il super Verona in un’impalpabile squadretta, sono passati 5 mesi. Una vita. Nel mezzo una crisi tecnica profonda, irreversibile, scioccante, ma perfettamente lineare nella sua coerenza.

E allora perché Setti non caccia Pecchia? “Perché vuole restare in B”, dice la vox populi da social. Cazzate. Setti ha tutto l’interesse a salire, direi 40 milioni di motivi (leggi ricavi) rispetto ai 20 di un altro anno tra i cadetti, a fronte di costi (leggi ingaggi) che non lieviterebbero di molto rispetto ai 15 milioni attuali (parlo di soli ingaggi perché il mercato ormai si fa perlopiù con prestiti con diritto di riscatto). Ma inviterei a guardare anche più in là della prossima stagione: Setti si è creato ottime relazioni politiche in Lega e Figc, volano ideale per restare nel calcio il più a lungo possibile. Ma per continuare a sedersi a Palazzo gli serve la serie A, è lì che c’è la benzina economica. Perché ok il secondo paracadute di 15 milioni in caso di permanenza in B, ma poi? “Setti vuole vendere non capisci?” mi scrivete. Ammesso e non concesso che sia vero (io ho seri dubbi al riguardo), gli converrebbe cedere il club in serie A, per ovvi motivi (occorre spiegarli?).

Con le dietrologie capita di perdere di vista la verità, che spesso è più semplice delle affascinanti fantasie complottarde. Setti non ha ancora esonerato Pecchia perché fino a poco tempo fa era davvero convinto che con lui si sarebbe saliti. Lo è ancora? Credo che le sue certezze stiano vacillando e adesso i suoi pensieri siano in mezzo al guado: non è più così convinto dell’allenatore, ma non è ancora arrivato a convincersi che la soluzione sia l’esonero. Nei ragionamenti di Setti c’è chiaramente una valutazione economica (un esonero costa, spendere dà la ragionevole certezza di una svolta?) e una relativa ai delicati equilibri interni. Pecchia è il pupillo diFusco, il ds resterebbe in caso di suo licenziamento? E con quale legittimazione? E qual è la posizione di Toni in questo scacchiere?. Poi non sottovaluterei la questione morale: Pecchia è stata la grande scommessa di Setti, la scommessa del bel gioco e del “vincere e convincere”. Un esonero sarebbe una sconfitta anche per il presidente. Ma queste sono tutte considerazioni relative, l’assoluto è la serie A. E Setti è il primo a sapere che non può continuare a scherzare con il fuoco. Saranno giornate e settimane calde.

IL PECCHISMO E’ DEFUNTO, VIVA PECCHIA.

Ci avevano raccontato di sogni di rivoluzione, di calcio champagne per brindare a un incontro (galante) con la bellezza, di tiki taka guardiolani e palleggio beniteziano. Ci avevano promesso un cambio culturale, vincere e convincere, carezze alla palla e baci alla porta. Ci avevano catechizzato con un mantra: loro avrebbero portato il bel calcio a Verona. Era il manifesto del pecchismo, ricordate? Morto, sotterrato, disdegnato dal suo stesso autore, Fabio Pecchia, che già in settimana ne aveva annunciato il funerale sottolineando di anelare a un Verona operaio e vincente.

E oggi – confermato il 5-3-2 con il Pisa – l’allenatore ha presentato una formazione anti-pecchiana per eccellenza, muscolare e proletaria, aggiungendo agli Zuculini pure un terzino come Pisano nel ruolo di fluidificante e, più in generale, proponendo una squadra razionale, sorniona, solida e consapevole che prima o poi quelli bravi (Siligardi nel suo ruolo e Pazzini) l’avrebbero risolta. Un atteggiamento sparagnino, furbo, poco spagnol-guardioliano-beniteziano e molto italiano. Gianni Brera, fautore del catenaccio per fisiognomica, avrebbe apprezzato. Mentre De Gregori, parafrasando se stesso, l’avrebbe cantata: hanno ammazzato il pecchismo, Pecchia è vivo.

Basterà? Non so, prima del ciclo facile delle sei giornate Ternana-Trapani avevo scritto che saremmo dovuti arrivare allo Spezia almeno a 60 punti e possibilmente davanti a tutti. Siamo a 58 e secondi appaiati alla Spal, ma con un calendario sulla carta complicato con 5 trasferte su nove partite (alcune di queste su campi minati come Novara, Bari, Perugia ed Entella) e contro avversari tutti in lotta per qualche obiettivo vitale (play off o salvezza).

E’ il rush finale, bellezza, e Pecchia ci arriva operaista che neanche gli extraparlamentari dei ’70. In realtà l’incendiario è diventato pompiere, ma una vittoria, si sa,  val bene una messa.  Dunque, dato che siamo in tema, una preghiera: l’allenatore, dopo mille avvitamenti e cambiamenti spesso confusi e al di là delle scelte tecniche su tizio o caio, mantenga finalmente una linea di coerenza. Questa.

CERCASI UOMO FORTE

Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia ci insegnava la maestra. Invertendo le panchine di Gattuso e Pecchia probabilmente sì, aggiungo io. La differenza sta tutta qui. Il Verona, oltre che di gioco, è una squadra sprovvista di mentalità vincente, quella che ti fa portare a casa le partite anche con i denti.

Prendete Gattuso, per tutta la settimana ha caricato con astuta teatralità la partita contro il Verona, prima minacciando (ad arte) dimissioni, poi procedendo a epurazioni in pubblica piazza. Aveva visto dei segnali di cedimento nella sua (scarsissima) squadra e si è speso pubblicamente in prima persona per ridestarla. Un condottiero.

Prendete Pecchia: ad ogni conferenza stampa per lui va sempre tutto bene con tanto di alibi incorporati. A forza di andare tutto bene, settimana dopo settimana, stiamo perdendo la serie A. Ora da ultimo, c’è da scommetterci, giunge comodo il paravento dell’arbitraggio, per carità pessimo e forse pure determinante (sottolineo forse, perché poi i rigori vanno anche segnati, Ascoli docet), ma sempre di alibi si tratta perché il Verona di Pazzini, Romulo, Bessa contro il Pisa in casa non dovrebbe mai (e ripeto mai) trovarsi nelle condizioni di dipendere da un episodio arbitrale nel finale.

Ma il problema del Verona non è solo l’allenatore, comunque il principale responsabile di quella che è una crisi tecnica in piena regola di una squadra forte (e che galleggia ancora grazie alle sue qualità individuali) ma male gestita. E’ dall’addio di Sean Sogliano – una figura mai rimpiazzata – che nel club manca un uomo forte, cazzuto, carismatico che sappia caricarsi la situazione sulle spalle. Non lo è Filippo Fusco e forse, con il senno di poi, in tal senso le avvisaglie si erano percepite già a luglio quando il diesse esordì con una frase decisiva: “Il Verona non ha l’obbligo di vincere”. Quella dichiarazione è la madre di tutti gli alibi e chi scrive fu l’unico a criticarla immediatamente. Non lo è Pecchia, allenatore ancora embrionale, inesperto e da tempo in confusione. Non lo può essere, per sua scelta di gestione aziendale, nemmeno Maurizio Setti, assente fisicamente nella quotidianità e più preposto ad occuparsi delle questioni politiche  in Lega che delle cose di campo. L’ho già scritto qualche settimana fa e torno a ribadirlo: un presidente come lui, proprio perché delegante, dovrebbe circondarsi di collaboratori di maggiore personalità. Setti invece ha scelto Fusco, ottimo manager e uomo mercato, ma poco nerboruto, e Pecchia un ex assistente alla prima vera esperienza. Risultato? Avremmo dovuto ammazzare il campionato, invece siamo a tre punti dal secondo posto e in affanno da più di quattro mesi.

C’È PRESSIONE PERCHÉ C’È AMORE

Lo stadio era deserto. La stampa non esisteva. Quello era un “non luogo”, alienato dal resto, dove regnava il silenzio. Non c’erano giornalisti, lecchini o rompicoglioni che fossero, non erano ammessi i tifosi, troppo rischiosa e ingestibile la loro passionalità. Non un coro, dunque, non un articolo, non un’intervista, niente di niente, il nulla, solo echi di vuoto e sorda indifferenza. I giocatori giocavano per se stessi, circolo autoreferenziale, onanismo imperituro, baci e abbracci, silenzio. Il poeta John Donne nel 1600 aveva toppato, lui che scrisse che “nessun uomo è un’isola appartenente interamente a se stesso”. E pensate l’ottusità del buon vecchio Hemingway, così ingenuo nel riprendere il concetto di Donne nel suo “Per chi suona la campana”. Quella città invece era un’isola, altroché, in quella squadra la campana suonava sempre per gli “altri”, distinti da sé, e le responsabilità erano sempre “altrove”, guai a cercarle in se stessi. In quel “non luogo” anche quel giocatore con il cognome da cantautore era contento, perché sapeva che non avrebbe mai dovuto pronunciare frasi tipo “troppe pressioni inutili su di noi, la piazza non ci sta aiutando”.

La stadio anche quella sera contava migliaia di tifosi appassionati, fedeli e sempre presenti. C’erano anche i giornalisti, rompicoglioni o lecchini che fossero, presenti anche loro per vedere, raccontare, rispondere a un seguito di pubblico interessato alle vicende di quella squadra. C’era pressione sì, ma perché c’era amore. “La tragedia dell’amore è l’indifferenza” scriveva Maugham. Quella sera lo avrebbe spiegato, in modo più prosaico ma altrettanto efficace, un grande ex di quella squadra: “Per giocare qui ci vuole responsabilità, bisogna essere pronti a livello psicologico”. Quel club era l’Hellas Verona, che non era un’isola, ma espressione di una città e di una comunità di tifosi appassionati, a cui rendere conto. Quell’ex era Daniele Cacia. Per questo quella stessa sera suonarono stonate e fuori luogo le parole di quel giocatore con il cognome da cantautore: “Troppe pressioni inutili su di noi, la piazza non ci sta aiutando”. Non aveva mai letto Donne probabilmente e non sapeva nulla di Hemingway o Maugham, ma ne siamo certi di lì a poco si sarebbe fatto perdonare…in campo.

P.S. Marco Fossati è un giocatore forte, fondamentale per il Verona. Per colpa di un infortunio non è ancora al top. Voglio pensare che certe dichiarazioni le abbia fatte per questo umanissimo e comprensibile senso di frustrazione. Gli auguro di tornare presto il giocatore che è perché ne abbiamo bisogno.

ADELANTE CON JUICIO

“Pedro, adelante con juicio”. Prendo in prestito il Ferrer del Manzoni per descrivere lo stato d’animo del giorno dopo. Il Verona di una settimana fa boccheggiava, ora – dopo Ternana e soprattutto Brescia – respira, ma aspetterei a parlare di guarigione. Il bollettino medico però parla di una squadra che al Rigamonti ha dato incoraggianti segnali di ripresa, vincendo con il gioco e la supremazia e riagguantando la zona serie A. Finalmente, aggiungo, dacché sembrava una lunga crisi senza fine. Certo l’avversario era quello che era, una squadra in palese difficoltà tattica e anche ambientale. Va detto, a costo di sembrare petulanti come la signorina Rottermaier; va detto per riportare tutto alla realtà di un Verona in crescita, ma non ancora al livello che gli compete e sufficiente per agguantare la promozione diretta.

Tuttavia se è vero che una crisi lascia sempre macerie, d’altro canto Pecchia (forse con eccessiva lentezza, ma tant’è, è pur sempre un allenatore work in progress alla sua prima vera esperienza, e comunque c’è chi il bandolo della matassa non lo trova mai) ne ha approfittato per fare un po’ di pulizia interna, cambiare le gerarchie, ridisegnare il suo gruppo. Morte e sepolte le vecchie certezze, l’allenatore ne sta cercando (e forse trovando) di nuove, pur mantenendo intatta la sua filosofia di calcio. E’ un cambiamento di metodo, di operatività, non ideologico.

Con la Ternana è cominciato un mini-ciclo (relativamente) facile che si concluderà a Trapani (in mezzo Ascoli e Pisa al Bentegodi e il viaggio a Vercelli), è adesso che l’allenatore può consolidare questo suo nuovo disegno per poi farlo davvero fruttare in un rush finale che comincerà con lo Spezia al Bentegodi e si annuncia per certi versi sanguinario agonisticamente, con sette partite delle ultime nove contro squadre in lotta per i play off (4 in trasferta). A Trapani bisogna chiudere almeno a 60 punti per arrivare forti e maturi alle partite vere.

LA SERIE A STA SCAPPANDO

Da una parte lo stucchevole ottimismo di facciata. Romulo il campione della specialità, brasiliano in versione Modugno: “Meraviglioso” (il Verona di oggi). E poi giù di riff per un minuto buono: “Una delle più belle prestazioni del campionato. Meritavamo di vincere”. E si vola avrebbe aggiunto con un acuto dei suoi il cantante pugliese nell’altro suo capolavoro. Non manca poi la sensibilità botanica, ancora Romulo, ora in modalità pollice verde: “Con la Ternana mangeremo l’erba, rinasceremo” (vincere in casa con la Ternana, con tutto il rispetto, sarebbe il minimo sindacale non un’impresa solenne). Dall’altra la fiera dei luoghi comuni: “E’ un problema mentale, manca il carattere” dicono coloro che non distinguono un campo da calcio dai baffi di Crepet e mischiano il tutto con mirabile disinvoltura. Che poi, a ben vedere, la (confusa) reazione del secondo tempo è stata tutto (e solo) istinto e temperamento, ergo carattere, dunque di che parliamo?

La verità è che al Verona da oltre tre mesi manca un’altra componente: il gioco corale. Nessun cambio di passo, ritmo blando, compassato e monocorde, passaggi perlopiù orizzontali, prevedibili come un’intervista di Marzullo, improbabili come la giovane Fenech vestita. Improvvisazione jazzistica, ma qui è calcio. C’è un mare di talento in questa squadra in rapporto alla categoria, un talento che solitamente permette al Verona, per inerzia, di vincere in casa con le medio-basse, ma che non è sufficiente in trasferta, o quando il gioco di fa duro e la posta si alza. Dopo Spezia il rendimento (tattico e fisico) delle avversarie è cresciuto, noi siamo rimasti tristemente ai box, fermi come stoccafissi, aggrappati solo a quello che era già trapassato (l’inizio torneo) e alla nostra presunzione.

Dopo il Benevento dicevo che l’allenatore andava messo in discussione e lo ribadisco a maggior ragione oggi. Pecchia ha finito gli alibi, mi auguro non le idee dato che è ancora in sella ed è chiamato a risollevare le sorti di questa squadra. Ma anche Fusco, a cui Setti ha delegato l’intera gestione tecnica del club, deve dimostrare di essere all’altezza, perché un vero ds non incide solo in estate o a gennaio con il mercato, la differenza la fa nella quotidianità e soprattutto nel mare in tempesta. Fusco ha scommesso su Pecchia, sul tecnico e sull’uomo che conosce da vent’anni, bene, ma non vorrei che la fiducia incondizionata fosse un boomerang, non vorrei che la componente umana fosse troppo condizionante.

Perché, sebbene qualcuno spesso tenda a minimizzare, Pazzini nella significativa e per nulla banale conferenza stampa della settimana scorsa ci ha ricordato testualmente che quest’anno “abbiamo l’obbligo di vincere”. Tradotto in prosa: va riagguantato almeno il secondo posto. La serie A sta scappando, rendiamocene conto.

SETTI, FUSCO E PECCHIA. RIFLESSIONI.

La benedizione del Partenio. La benedizione di aver perso la testa della classifica e di conseguenza l’ultimo (flebile) alibi rimasto agli ottimisti in servizio permanente. “Siamo primi” ci raccontavano gli struzzi che nascondevano la testa (e il pensiero) sotto la sabbia, non volendo affrontare la cruda realtà: l’Hellas da tre mesi a questa parte è una squadra in recessione di idee, gioco, corsa, amalgama. “Ma ci sta nell’arco di un campionato un calo” puntualizzavano insolentiti quelli che da anni vedono gufi dappertutto. La verità è che il giocattolo di Pecchia e Fusco si è inceppato. Rimango della mia: questa squadra è sufficientemente competitiva per raggiungere la promozione diretta. Aggiungo: è una baggianata dire (e pensare) che Setti non voglia andare in serie A, è sacrosanto invece discutere sul suo metodo (leggi gli investimenti) per riuscirci. Ribadisco: Fusco da un punto di vista tecnico e con il budget disponibile ha fatto un lavoro egregio. Confermo: Pecchia sa di calcio e ha portato a Verona idee innovative e una cultura calcistica lodevole (vincere attraverso il gioco). Però… In mezzo di sono un mare di però, dubbi che avevo espresso anche nei tempi migliori e che purtroppo anziché dissiparsi sono diventati (quasi) certezze.

PECCHIA. A inizio campionato parlavo di allenatore in evoluzione, ancora inesperto e con eccessi di talebanismo nel voler affermare il suo calcio di palleggio, tecnica e offensivismo. Le sue mancanze nella fase difensiva si erano già manifestate nei primi cinque minuti di Benevento (ma i più parlarono di grande prestazione condizionata dall’espulsione). Via via sono emersi altri difetti nella gestione tecnica della rosa e in particolare di alcuni giocatori, leggi una certa confusione e incoerenza nelle scelte di formazione. Pecchia ha il merito di aver dato un’impronta alla squadra, ma non si è evoluto, semmai involuto. Sabato Vighini a 91° minuto mi ha chiesto se sia giusto esonerarlo: io spero che non debba succedere e che, anzi, sarà lui a risollevare le sorti di questa squadra e a portarla in serie A. Tuttavia è anche giusto rompere il tabù: Pecchia da sabato è un tecnico che deve essere messo in discussione.

FUSCO. Il ds è uomo intelligente e conoscitore di calcio e giocatori. Ha mescolato sbagli clamorosi (Maresca, Cherubin, Troianiello e Franco Zuculini, aggiungerei le valutazioni estive su Gomez e Siligardi), a intuizioni ragguardevoli (Bessa e Fossati, il rinnovo di Romulo e il recupero psicologico di Pazzini). Nel complesso ha messo insieme una squadra da primi due posti, dunque il suo da questo punto di vista l’ha fatto. Semmai sinora è mancato il suo carisma, dote necessaria a gestire le criticità di una stagione, la vanità e caratterialità dei giocatori, a sostenere l’allenatore di fronte agli stessi. A raddrizzare la barca insomma. Era la dote migliore di Sogliano, ora tocca a Fusco tirarla fuori.

SETTI. Lo conosciamo, la sua gestione del club è diversa (per dire) da quella del dirimpettaio Campedelli. Delegante e spesso assente (fisicamente) il primo, totalitario e presente da mane a sera il secondo. Questa scelta può piacere o meno (ed è sacrosanto discuterne) ma è legittima. Il punto è un altro: con un presidente delegante come Setti è fondamentale che i delegati siano figure di grande personalità (e torniamo al discorso del carisma di Fusco. ma anche di Pecchia).  C’è poi la parte finanziaria: “Setti non vuole tornare in A per il prossimo paracadute da 15 milioni” scrivono in molti sui social. Questo è un tormentone che viaggiava di bocca in bocca anche quando il Verona correva, ma espresso così è una sciocchezza. Setti vuole tornare in A, ma lo vuole fare alle sue condizioni, cioè con il budget fissato, male che vada i prossimi 15 milioni gli permetteranno di riprovarci, questo sì, ma da qui a dire che lui non vuole la promozione ce ne passa, questo è gossip da quattro soldi.
La questione semmai è diversa e ne avevo già discusso in passato: il Verona e Verona possono ambire ad altri presidenti ed altri investimenti? Per me sì, per altri questa è la nostra dimensione.

P.S. Solidarietà umana a Maurizio Setti, Luca Toni e Francesco Barresi per il vile agguato subìto. Qualcuno poteva rimetterci la vita. E’ possibile che succedano ancora queste follie per una partita di calcio? Le norme anti-violenza in vigore hanno (discutibilmente) ristretto la libertà individuale della stragrande maggioranza dei tifosi perbene,  ma poi accadono fatti del genere. E allora quelle norme non hanno più senso, ne avrebbe invece finalmente cominciare a colpire individualmente e severamente chi delinque e non discriminare chi non lo merita. Questo si converrebbe in uno Stato di diritto, ma invece pare molto più comodo scrivere leggi inutili e illiberali, anziché applicare quelle esistenti da decenni.

 

NON COSTRUIAMOCI ALIBI PERICOLOSI

“E’ ora di diventare grandi” scrivevo lunedì su queste pagine. Il riferimento era, in particolare, al ciclo di fuoco Benevento-Avellino-Spal-Frosinone. Il riferimento era, anche, a un Verona – scrivevo – fin lì “con un senso di incompiutezza, leader del torneo, ma senza (ancora) un vero carisma; primo da mesi, ma sempre sul filo di un’inerzia volubile”. La partita di ieri è l’emblema di queste mie parole, le attesta e le afferma. Un Verona per 50-60 minuti con un gioco relegato perlopiù a qualche ripartenza (in particolare del generoso Luppi e dell’ottimo Bessa) e a flebili e pigri lanci lunghi, nell’attesa della solita giocata risolutiva e solitaria di Pazzini. Poi la reazione – più di pancia che di testa, più di orgoglio che di forza – e un pareggio meritato, ma non convincente, non risolutore dei problemi. Contro, ricordiamolo, un Benevento ottimo e organizzato, che lotterà per la promozione diretta, ma che in trasferta ha raccolto appena 11 punti dei suoi 40 (mentre il Verona in casa 30 dei suoi 45). Un dato, questo, di cui tenere conto per fotografare una realtà che permane critica.

Gira che ti rigira dopo Spezia siamo regrediti e non ci siamo più ripresi compiutamente. Regrediti sul piano dei risultati (15 punti in 11 partite contro i 30 delle prime 13), regrediti in quello del gioco, fino ad arrivare ieri sera a giocare per alcuni tratti modalità difesa-contropiede, un no sense per una squadra costruita per offendere e senza una qualità difensiva tale da potersi permettere di abbassare il baricentro. Concluso con un nulla di fatto il calciomercato, va presa coscienza di questo, la devono prendere Fusco e Pecchia, che non vorrei regredissero a loro volta a causa di una mancanza di reale autocritica (vedi dichiarazioni come quelle di ieri sui “24 tiri in porta” del ds o del “creiamo tanto” dell’allenatore).

Siamo ancora primi, certo, ma non si vive di rendita. Serve cambiare passo, a partire da Avellino. Mancherà Pazzini (presumibilmente anche con la Spal), ieri vergognosamente espulso. Capisco le dichiarazioni al vetriolo di Fusco contro Abisso (nomen omen), che non ha tanto condizionato la partita di ieri, ma rischia di condizionare le prossime. Credo che la rabbia del ds fosse dovuta a questo, ma l’ultima cosa che serve al Verona di adesso è una bolla dove costruirsi alibi. Senza un fuoriclasse come il Pazzo è ora che torni a emergere il collettivo.

UN RISCHIO CALCOLATO È PUR SEMPRE UN RISCHIO

La montagna ha partorito il topolino. “Ma che ti aspettavi da Setti…”, mi scrive qualche lettore con l’aria disincantata di chi la sa lunga. Il tema è posto male e anche pericolosamente (quasi a liquidarlo): il punto non è “cosa aspettarsi da Setti” (che è presidente del Verona, non un passante), ma analizzare un mercato di gennaio che avrebbe dovuto essere più movimentato, per il ruolo – anche economico – che ricopre il Verona in serie B (paracadute, sponsor e incassi) e per le lacune finora mostrate rispetto agli obiettivi stagionali. Positivi gli ingaggi di Zuculini e Ferrari (e pazienza per la formula del prestito secco, con tanti saluti alle conclamate frasi sulla programmazione tecnica), ma come è ormai arcinoto a chi mi legge abitualmente serviva un giocatore in attacco sugli esterni. A prescindere dall’operazione Wszolek, ma soprattutto dopo l’operazione Wszolek, che ha portato alle casse di via Belgio altri 2,5 milioni. Invece nulla.

“Ma siamo primi” mi obietta qualcun altro amante delle solenni ovvietà. Certo e meritatamente, aggiungo. Dirò di più: probabilmente l’attuale organico basta per raggiungere la serie A e questa è la valutazione che devono aver fatto anche Setti e Fusco: massimo risultato con uno sforzo relativo. Legittimo, per carità. Ma se leggiamo le cifre emerge anche altro. Come scrive Vighini, Pazzini ha retto sostanzialmente da solo il peso dell’attacco e con i suoi gol ha portato in dote la metà dei punti; mentre il rendimento di Gomez e Siligardi dopo più di metà campionato è nettamente inferiore alle aspettative in termini di gol e assist. Ancora: il Verona nelle prime 13 partite ha totalizzato 30 punti, nelle ultime 10 appena 14 e solo 1 in trasferta (tre sconfitte e un pari), dove generalmente il rendimento è meno legato al gioco corale e più ai break individuali.

Numeri che quantomeno avrebbero dovuto smuovere qualcosa, invece si è optato per un minimalismo rischioso. Un rischio ovviamente calcolato, ponderato e ragionato (e presumibilmente vincente, a rigor di logica), ma sempre di rischio si tratta. Ne valeva la pena?