PECCHIA E IL VERONA HANNO L’OBBLIGO DI VINCERE

Le parole sono importanti e, lo dico sommessamente, non mi sono piaciute quelle di Pecchia del “non sento l’obbligo di vincere”, poi legittimate e condivise dal ds Filippo Fusco, che Pecchia lo ha scelto.

Capisco il basso profilo, ma c’è low profile e low profile. Comprendo il non voler caricare di responsabilità la squadra che verrà, ma in conferenza stampa c’era l’allenatore e non la squadra; e poi Mourinho (ma non solo lui) insegna: caricare gli oneri su di sé aiuta ad alleggerire quelli sui giocatori.

E, soprattutto, l’obbligo di vincere a Verona quest’anno c’è. Pecchia non lo sentirà ma, dopo un’annata balorda, c’è. C’è un obbligo morale: nei confronti di una piazza tanto vittoriosa sugli spalti quanto umiliata in campo. C’è un obbligo economico: senza voler annoiare ancora con la storia del paracadute (che in realtà andrebbe ricordata sempre per ribadire quali sono i doveri), è però un fatto che l’Hellas si presenta ai nastri di partenza con un budget economico stellare rispetto a tutte le concorrenti. C’è un infine un obbligo storico: il Verona in B è (quasi) sempre partito per primeggiare, quando non è accaduto era a causa di contesti molto diversi dall’attuale.

“Ma meglio non mettere pressioni” ci dicono i pompieri, con una frase saccheggiata e che spesso non significa nulla (se non a parare il sedere) e che nell’ultimo anno non ha neppure giovato. Già, perché di  minimalismi ne abbiamo avuti abbastanza in questi mesi, tra giustificazioni, alibi, scuse, balbettii mentre la barca affondava e la sciagura era in pieno corso. Ricominciamo con lo stesso errore?

Ho rispetto per Fusco, che sinora ha mostrato educazione, umiltà e onestà intellettuale, e il mio auspicio è che la scelta di Pecchia si riveli azzeccata. Ma le parole sono importanti e sinora quelle più significative non sono state indovinate.

PARACADUTE: L’ABBIAMO SCAMPATA BELLA?

Per fortuna che c’è Toni che ci parla di calcio, di punte che devono fare la differenza e difese solide. Grazie al cielo che c’è Fusco che ci riporta, paradossalmente con il suo aplomb colto, alla grazia e alla normalità delle cose profane quali sono quelle rotondolatriche del fubal

Eppure a commentare le recenti vicende economiche del Verona rimani tra l’angustiato e l’irritato. Non c’è levità nei gesti e nelle dichiarazioni di Setti quanto parla di soldi, conti e bilanci. “L’anticipo del paracadute? Va interpretato come delibera salva aziende calcio” ci disse nell’ultima conferenza stampa, con un frase passata troppo facilmente in cavalleria, se non fosse stato per questo sito che ha giustamente e doverosamente rilanciato: senza anticipo, dunque, cosa sarebbe accaduto?  De Laurentis, non smentito, ha dato la sua risposta, cruda, sorda e spietata: “Il crac del Parma non ha insegnato niente e quest’anno si stava ricreando una situazione identica col Verona”. De Laurentiis, attenzione, che è antipatico come pochi e presidente di una squadra che non amiamo, ma che non è il primo scemo che passa per strada.

Mi sarebbe piaciuto che Setti, a quel punto, chiarisse su una gestione economico-finanziaria (affidata fino a gennaio all’ex dg Gardini) che nell’ultimo anno, per dirla con il saggista e sociologo Pippo Russo intervistato dal Corriere di Verona, “non è stata razionale, non so se si sia riposta troppa fiducia in qualche agente, ma certe operazioni restano inspiegabili e il prezzo viene pagato adesso”. Avrei gradito che Setti rispondesse a De Laurentis un po’ con quella sicumera con cui è solito rispondere a noi umili scrivani e detestati blogger, se non altro per difendere l’immagine del Verona. Invece silenzio. Ma è estate, panem et circenses, e dunque meglio parlare dei dubbi sul futuro di Pazzini, del possibile rilancio di Viviani e del modulo di Pecchia, a cui va il mio personale in bocca al lupo. Con la sensazione di averla scampata bella.

LA SPERANZA DI AVER TORTO

Nemmeno Juncker e i demiurghi del “pareggio di bilancio” di stanza nei palazzi dell’Unione europea avrebbero saputo far meglio. Spending review, austerity, taglio della spesa, ditelo come vi pare: il Verona sarà votato al risparmio. Del resto lo si era capito già dalla recente conferenza stampa – minimalista, un redde rationem noiosamente spartano – che Setti sarebbe passato dai vigorosi e sfacciati proclami ranzaneschi di un tempo – un tempo vicino eppure mai come ora così lontano (quella del “modello Borussia Dortmund” rimarrà negli annali) – alle prosaiche dichiarazioni contabili attuali (“i 25 milioni li metterò nel bilancio”). 

“Sono un musicista contabile” cantava graffiante Manuel Agnelli degli Afterhours, senza sapere che un ventennio dopo sarebbe andato a X-Factor a fare il giudice. C’era un Setti che parlava di calcio, di giocatori, di obiettivi (“consolidamento in serie A”) ammiccando financo alla grandeur (“vincere la coppa Italia”); c’è un Setti ora che parla di soldi ed economia: “L’unico mio obbligo è dare continuità all’azienda Verona”. Un cambiamento evidente, come nei contratti, non più pluriennali, ma annuali, come nelle scelte, ricadute su dirigenti e allenatori senza grande esperienza specifica.

Il ds Fusco a Bologna con poco ha saputo costruire molto, ma la sua esperienza da direttore sportivo è quasi tutta lì. L’avvocato napoletano è stato soprattutto un procuratore (anche di Pecchia). Saprà confermare quanto fatto sotto le Due Torri? Setti per ora gli ha dato un’opportunità, non le chiavi di un progetto. Idem a Pecchia, ottimo incursore di metà campo da calciatore, un’incognita da allenatore a questi livelli. E’ risaputo che la mia scelta sarebbe ricaduta, in rigoroso ordine, su Iachini o De Zerbi – attenzione non Mourinho, Hiddink o Guardiola -, due nomi realistici e (pensavo) abbordabili per una retrocessa con 25 milioni di diritti tv. Il Verona invece non si è rivelato attraente economicamente per gli allenatori di prima fascia e forse neppure per un emergente come l’attuale tecnico del Foggia. Pecchia invece è una scommessa: metodologicamente è senza dubbio preparato, resta da valutare se sarà in grado di trasferire le sue idee sul campo.

A lui va il mio personale in bocca al lupo e l’augurio di smentire i miei dubbi, anche perché dopo un anno di allarmi fondati e previsioni azzeccate sono anche stanco di aver ragione. “La ragione aveva torto” titola un bellissimo saggio di Massimo Fini. “La ragione è dei matti”, dicevano più semplicemente i nostri nonni. La ragione lasciamola agli altri.    

DOVE NON POSSONO I SOLDI PUÒ L’INTELLIGENZA

Profonda inquietudine: “La delibera che anticipa il 40 per cento del ‘paracadute’ deve essere interpretata come salvataggio delle aziende-calcio, perché a Verona, me lo insegnate voi, in passato avete rischiato tracolli non indifferenti a causa di gestioni un po’ ballerine”, ha detto Setti oggi in conferenza stampa. Il Verona era a un passo dal crac? Forse la gestione Setti dell’ultimo anno è stata a sua volta un po’ “ballerina”? Nessuna crisi finanziaria “ma i conti sono sempre tiratissimi nel calcio”, ha poi specificato il presidente. Anche la solita e immancabile invettiva ranzanesca (“Gli stipendi li ho bloccati a gennaio perché ero incazzato; ‘non vi pago più!’ ho detto; purtroppo li ho pagati l’altro giorno perché ero obbligato sennò l’avrei tirata in lungo”), peraltro l’unica in un mare di minimalismo, oggi non fa ridere e assume contorni più cupi: regge questa motivazione?

Che si profilino tempi di austerity è però un fatto: “Con i 25 milioni di euro sistemerò il bilancio”, ha sentenziato Setti, che poi ha inserito la retromarcia rispetto alla promessa del gennaio scorso, quando s’impegnò, in caso di retrocessione poi avvenuta, a riportare immediatamente il Verona in A: “L’unico mio obbligo è dare continuità all’azienda, l’ambizione di risalire c’è e mi impegno a dare il meglio per rispetto dei tifosi, ma obblighi non me ne assumo e certezze non ne do”, ha rettificato.

Eppure un dato positivo emerge anche in questi tempi di finanze inopinatamente (date le plusvalenze milionarie e i tre anni di ricchi introiti tv) grame: Setti perlomeno ha fatto chiarezza. Non credo al suo filantropismo (“con il Verona ci rimetto”), anzi sono convinto, a logica, che per lui sinora l’Hellas rappresenti un (legittimo) business e che con 25 milioni di paracadute, se saprà ridurre i costi come da intento (il probabile arrivo di un ds come Fusco rientra in questa logica), lo continuerà a essere. Non sono poi tante le aziende, fuori dal mondo del calcio, nelle quali entrano ricavi di tale portata da fonti terze.

Forse fra uno o due anni Setti venderà, chissà, ma ora il paracadute “sistema-bilancio” gli dà la forza per continuare pur senza grandi investimenti e se dovesse tornare in A potrà farlo ancora a lungo. E rientrare nel calcio che conta è un obiettivo possibile anche senza grandi spese, premesse due condizioni inderogabili: che venga ingaggiato un allenatore in linea con il nuovo corso low cost e vengano scovati i giocatori più adatti al suo modo di intendere il calcio. Credo che il profilo giusto sia De Zerbi, emergente, bravo, tattico e innovativo, più ancora di Stellone, più esperto e quotato ma forse maggiormente adatto a spogliatoi ingombranti e ricchi.

L’obiezione è: ma De Zerbi è vicino a Tullio Tinti, quello del quinquennale a Pazzini e condizionante anche nel biennale a Mandorlini. Obiezione lecita, ma premesso che la prima cosa che conta è che un allenatore sia bravo (e De Zerbi lo è) e assodato che, a prescindere da De Zerbi e Toni (a sua volta legato a Tinti), il procuratore bresciano continuerà a essere influente, a quel punto meglio scegliere un allenatore da lui (e dal futuro vicepresidente Toni) “protetto”.

Veniamo da due anni turbolenti: prima Gardini che fa la guerra a Sogliano con Mandorlini osservatore interessato; poi Bigon e Gardini subito amici e alleati, poi divisi dall’affaire Mandorlini, poi di nuovo amici, poco più in là Delneri e Toni in perenne conflitto e lo spogliatoio frantumato. Ora invece, Tinti o meno, serve unità d’intenti e un allenatore legittimato dal club e potente nello spogliatoio, secondo il principio che da sempre ispira chi vi scrive: il Verona prima di tutto. Dove non arrivano i soldi, arrivi finalmente l’intelligenza.  

ACCONTI, STIPENDI E FUTURO

Per fortuna è finita. La stagione degli orrori ha sfiancato un po’ tutti e ora non rimane che un senso di vuoto, di stanco avvilimento e di mortificante spossatezza per la carrellata di omissioni, incoerenze, tracotanze, svarioni che da luglio in avanti hanno fatto a pugni con la logica, la verità e soprattutto l’amore per il Verona e il bene dello stesso. Per fortuna è finita e quello che serve ora è soprattutto aprire la finestra e respirare aria fresca, ché quella che c’è è viziata, viziatissima.

Innanzitutto: come sta la società a livello economico? Se fosse vera la notizia che Setti ha chiesto (e ottenuto) 10 milioni di anticipo del “paracadute” e se trovasse riscontro l’indiscrezione degli stipendi non pagati da gennaio in poi, qualche domanda sull’oculatezza della gestione finanziaria gardiniana sarebbe lecita, dati i copiosi ricavi entrati nella casse gialloblu in questi anni tra diritti tv, abbonamenti, sponsor e plusvalenze. E’ anche vero che potrebbe rientrare nel gioco delle parti di un presidente chiedere un acconto di liquidità, sebbene ciò confermerebbe che il popolo del Verona non è solo il polmone morale e identitario del club, ma anche – in senso lato – un “azionista”, perché con i soldi degli abbonamenti allo stadio e alla tv e grazie alla visibilità che garantisce agli sponsor contribuisce per gran parte al suo fatturato. Ancora più seria sarebbe l’indiscrezione sugli stipendi. E’ vera o falsa, Setti? E’ chiaro che dai soldi dipendono le ambizioni: l’obiettivo dunque è risalire in serie A immediatamente, o si percorrerà la via di un piano biennale? (il paracadute post Palermo lo permette).

C’è poi la sfera dirigenziale. Come è possibile, mi domando, ripartire con lo stesso direttore sportivo corresponsabile dello sfacelo? Com’è possibile riconfermare staff e collaboratori ancora operativi che erano in quota del vecchio dg Gardini? E’ opportuno affidarsi ancora al procuratore-consigliere Tullio Tinti? A sentire Setti, per cui le uniche colpe ricadono su Mandorlini e per cui Bigon val bene un’inopinata riconferma, sembrerebbe di sì. Sia chiaro, mister 6 punti in 14 partite, quello dello slogan vincente a Radio24 “dovevamo retrocedere assieme”, ci ha messo molto del suo, e Bigon il meglio lo ha dato con Souprayen e i cavalli di ritorno Bianchetti e Albertazzi. Tuttavia non mi piacciono i facili capri espiatori e per gli errori determinanti bisogna guardare lassù, ai piani alti.

Tinti pare esercitare ancora un ascendente su Setti, se è vero che Toni presumibilmente sarà vicepresidente e De Zerbi e Inzaghi corrono, con altri, per la panchina. Non sono talebano e mi rendo conto che tutto il mondo del calcio è costellato da relazioni, amicizie e financo conflitti d’interesse piccoli e grandi, dunque il problema forse non è nemmeno Tinti in sé, ma i consigli che eventualmente Tinti dà: se questo o quel giocatore è forte o scarso, in forma o bollito, se questo o quell’allenatore è valido o sopravvalutato. Seguendo questo schema dico che un Tinti che “disegna” Toni alla vicepresidenza, raccordo tra squadra e società e garante di una seria programmazione, con De Zerbi in panchina non mi dispiacerebbe; un tandem del genere, tra un uomo di carisma come l’ex bomber e un allenatore bravo ed emergente, potrebbe anche funzionare (ma la prima scelta deve rimanere uno come Iachini, o anche uno Stellone, altro profilo di prima fascia). Un altro paio di maniche sarebbe il Tinti che ripropone il “metodo Pazzini”, quinquennale a un suo giocatore in parabola discendente.  

Infine Setti deve ripulire il club da conflitti e gelosie. Sarebbe un atto rivoluzionario dopo due anni di lotte intestine (dalla “guerra” di Gardini a Sogliano, con Mandorlini spettatore interessato; al duello Toni-Delneri) che hanno visto abdicare solo il Verona. Che resta, ricordo, la chiesa al centro del villaggio. 

L’AFFONDO DI TONI E IL CONTRAPPASSO DI SETTI

Finita la celebrazione, l’affondo. Consumata la passerella, il diktat. Il Toni day ieri si è chiuso con il più beffardo dei contrappassi per Maurizio Setti e la dirigenza del Verona. Forse qualcuno in via Belgio aveva provato a utilizzare il saluto al Campione per nascondere l’indecifrabilità dei progetti tecnici futuri e sminuire il carico di drammaticità di una retrocessione ignobile nei modi. Il Toni day come arma di distrazione di massa, il fu bomber come parafulmine, l’ennesimo di una lunga lista. Toni in buona compagnia, con Sogliano e Mandorlini in prima fila, nel girone degli eroi o dei capri espiatori a seconda delle convenienze. Sogliano e Mandorlini, due personalità forti e ingombranti come il Campione, e forse proprio per questo le due figure più importanti della sua seconda giovinezza.

Sogliano ingaggiò Toni tre anni fa. A Firenze lo davano finito: “Ci ho parlato, è carico, responsabilizzato, motivato, il mio istinto mi dice che Toni per noi sarà determinante” mi profetizzò al telefono in quell’estate del 2013 l’ ex ds, uno che non si limitava al curriculum, al nome o al suggerimento di un procuratore per prendere un giocatore decisivo, ma verificava, si confrontava, “assaggiava” le motivazioni. Mandorlini ha saputo gestirlo al meglio nelle prime due stagioni, lasciandogli ampia autonomia in cambio di gol. Un modus operandi valido, validissimo, finché le gambe del Campione hanno retto, pericoloso (come poi attestato) quando quelle gambe hanno smesso di girare.

Ma il cervello di Toni, quello no, non ha smesso di funzionare. Il suo è un nome che pesa e che non può essere usato a prescindere, neanche il pretesto del noviziato (dirigenziale) può riuscirvi. Toni non è un pollo da batteria, Toni non è un mediocre burattino aziendalista, Toni vuole tutelarsi e necessita di garanzie, e ieri con parole chirurgiche e affilate come la lama di un rasoio lo ha detto (“se resto si cercherà di riportare il Verona in serie A”), sfilandosi sapientemente dal ruolo di parafulmine, lasciando il cerino in mano a Setti e scoperchiando il vaso di Pandora con la domanda delle domande: Setti è ancora in grado di fare calcio ai livelli che competono al Verona?

Rimango scettico su un Toni futuro dirigente, per l’inesperienza, perché campione e manager sono mondi lontani ecc, ma quello che mi preme sottolineare oggi è la simbologia delle sue dichiarazioni che pongono il ragionamento su un livello più alto. Nel contesto attuale forse Toni è la vera garanzia di una programmazione seria e vincente a Verona.   

SETTI AL BIVIO

Mi suona nell’orecchio una Viola Valentino d’annata. “Comprami io sono in vendita” è il refrain di questi giorni di riflessione se penso alla rosa del Verona. I pochi giocatori buoni che abbiamo (Ionita e Gollini) sono sul mercato; Pazzini si sfila dicendo che i cinque anni di contratto non sono un problema, Siligardi confida che una parte del gruppo preme per andarsene, non sappiamo chi saranno il ds e il dg e quali compiti avranno; non sappiamo se e come verranno utilizzati i 25 milioni di “mongolfiera” (alias “paracadute”), se per il bilancio o per la squadra; sappiamo però che la rosa attuale, per mille motivi, è inadeguata per un campionato di vertice in B (a differenza del Chievo 2007 di cui tanto si parla come termine errato di confronto), sappiamo che un ds non vale l’altro, sappiamo che Baroni non è Iachini. Nel frattempo l’amministrazione comunale ha messo con le spalle al muro Setti: “Per il centro sportivo di Forte Lugagnano tutto è fatto, ora servono gli investimenti del Verona”, in soldoni il messaggio, per nulla casuale, trapelato da Palazzo Barbieri. 

Setti è al bivio della sua storia a Verona: continuare a fare calcio e mantenere le promesse pubbliche (centro sportivo e immediato ritorno in A e consolidamento nella massima serie), o alleggerire le pendenze economiche per rendere appetibile e accessibile il Verona a nuovi acquirenti da qui a fine anno? Le prossime mosse saranno indicative, dal budget che verrà messo sul banco, al management scelto, passando per quello che succederà appunto a Forte Lugagnano. Ci siamo: il tempo delle parole, dei temporeggiamenti, delle supercazzole, degli alibi è finito. Del “modello Borussia Dortmund” e vanità (e amenità) varie non sappiamo che farcene; noi voliamo più basso: ci basterebbe un “modello Verona”. 

IL “GRANDE FREDDO” (QUANDO MANCA IL SENTIMENTO)

Il Bigon minore disse che a lui non interessa l’opinione della gente; presumo abbia poco a cuore anche il turbamento della stessa se domenica, restando serio, ha acceso il solito disco del “non è questo il tempo di dare spiegazioni”. Lo dice da mesi, più facile a questo punto l’immediato scioglimento dei ghiacciai, o un bel disco di Pupo. A che serve dare un’intervista se poi non si risponde alle domande? Un consiglio al ds: la prossima volta parli allo specchio di casa sua.

Setti pontificò in diretta tv (locale) che i tifosi del Verona sono come tutti gli altri; mesi prima, sempre in tv (nazionale), tenne invece una lezione magistrale su sedicenti studenti greci fondatori del Verona. Li stiamo ancora cercando.

Gardini precisò che i colori (delle maglie) non sono importanti, e c’è da capirlo da uno che oltre al grigio (dei completi) non va.

L’allenatore di prima invitò chi lo criticava a seguire il Chievo, incurante di offendere i tanti che magari amano il Verona da quando lui amava l’Inter e sanno ancora distinguere tra il Verona Hellas e il fantomatico Mandorlini Fc.

L’allenatore di ora scambia Romeo e Giulietta per Giulia e Rometta e da settimane ci racconta supercazzole su Toni, Pazzini e Jankovic, quasi che ritenga, come il Bigon minore, le conferenze stampa un inutile esercizio di (cattivo) stile e non il mezzo per rendere conto ai tifosi del proprio operato.

Poi, improvvisamente, salvificamente (per noi) e improvvidamente (per loro), domenica sera a 91° minuto è arrivata la signora Susi, che turbata – come nella bellissima canzone di Ivan Graziani che porta il suo nome – per l’infausta stagione dell’Hellas e con la voce rotta ha zittito in un sol colpo la sicumera autoreferenziale dei personaggi di cui sopra. L’emozione commossa di Susi ce lo ha ricordato: il Verona è innanzitutto un sentimento, l’Hellas è della gente e dei suoi tifosi, ancor prima che di Setti.

A Setti fregherà? Ho seri dubbi, d’altro canto è ormai assodato il suo “grande freddo” nei confronti della piazza che, direttamente (con gli abbonamenti) o indirettamente (diritti tv e sponsor), gli permette di fare calcio. Dall’obbrobrio identitario delle maglie, questione che il sottoscritto sollevò già nell’estate 2013 e scambiata dai più superficiali come mera questione estetica, all’aumento “fisiologico” (sic) degli abbonamenti, passando per un’internazionalizzazione del brand (rimasta peraltro lettera morta) spacciata per necessità di sprovincializzarci, quasi che essere fieri della propria identità (e semmai esportare quella) e contrari a qualsiasi omologazione fosse una cosa da minus habens,o da vecchi tromboni nostalgici e non un valore fondante da preservare.

Setti, d’altronde, non ha tempo per queste quisquilie. Altre cose più importanti lo distolgono: le plusvalenze di ieri (Jorginho, Iturbe, Donsah, Sala, Hallfredsson) e quelle di domani (probabilmente Ionita e Gollini), la Nike e lo Store, il paracadute (anzi la mongolfiera), tutti motivi che tra l’altro, a rigor di logica imprenditoriale, lo allontanano per ora da un interesse a cedere le quote (il calcio non è mai stato un potenziale business come ora, i compratori non mancherebbero, vedi il Bari in B). E, ovviamente, i famosi studenti greci, ignoti a tutti noi comuni mortali, tranne che a lui, Ranzani.

UNA SOCIETÀ IN MOLTI ASPETTI DEBOLE

Come ho sottolineato la settimana scorsa il caso Toni (che nasce da lontano) è la cartina di tornasole di una società per molti aspetti debole, condizionata nel bene e nel male dai personalismi.

Lo insegna la vicenda Mandorlini, allenatore che – sebbene qualcuno finga di dimenticare – prima ha voluto una squadra a sua immagine e somiglianza (rosa corta, rinnovi di Jankovic e Gomez e mancanza di un fantasista perché non funzionale al suo 4-5-1) e infine è stato esonerato a campionato già ampiamente compromesso (6 punti in 14 partite, un po’ come dare 20 metri di vantaggio nei 100), lasciando una squadra atleticamente in affanno e uno spogliatoio ultimo in classifica ma dalle gerarchie inviolabili, ergo un campo minato. Lo insegna, appunto, la vicenda Toni, sino a qualche mese fa talmente potente e rappresentativo da condizionare financo il calciomercato e designare il suo vice (Pazzini, di cui condivide il procuratore), ora invece paragonato irrispettosamente da Delneri a un Furman qualsiasi.

E’ la storia degli estremi che arrivano a toccarsi, è la parabola del caudillo descritta anche da Garcia Marquez ne L’Autunno del Patriarca, è la vecchia ed eterna morale delle grandi vittorie a cui seguiranno inesorabilmente grandi sconfitte. Il problema è che a farne le spese poi è il Verona. E il Verona sta ancora pagando proprio certi personalismi, gli eccessi di potere di qualcuno che poi sono diventati eccessi di debolezza. Ma sempre di eccessi, prima e dopo, si è trattato, con due assenti eccellenti: l’equilibrio e una solida organizzazione societaria.

In un club organizzato, il Toni in ascesa sarebbe dovuto rimanere solo un giocatore (e Mandorlini solo un allenatore) e, allo stesso modo, il Toni in discesa non sarebbe mai dovuto diventare un caso di Stato. Perché non gestire con più efficacia le voci che già a gennaio davano il capitano futuro dirigente, domandandosi quale effetto potessero avere sul gruppo?  In una società organizzata, e qui ritorniamo all’incipit, il caso Toni non sarebbe mai nato, perché Toni non si sarebbe mai permesso di delegittimare la squadra di cui è capitano e Delneri, di conseguenza, non sarebbe stato costretto a escluderlo per salvaguardare lo spogliatoio. E’ evidente infatti a chiunque abbia giocato a calcio, ma anche a qualsiasi persona padrona della logica che Delneri non aveva altra scelta, e questo al di là delle simpatia di ognuno per Tizio o per Caio. Altra cosa è il comportamento,  a mio giudizio esecrabile e anche in un certo senso triste, del Delneri mediatico, che per giustificarsi si è umiliato a raccontare “supercazzole” che nemmeno il conte Mascetti di Amici Miei. I tifosi, di fronte al coinvolgimento di un giocatore così importante, avrebbero meritato più rispetto, ma il paradosso, se vogliamo, è che Delneri forse ha mancato di rispetto anche e soprattutto a se stesso.

In un club organizzato la riserva di un bomber di 38 anni – che proprio per l’anagrafica a ogni nuova stagione è di per sé un’incognita – non la propone il bomber medesimo; senza scomodare più o meno reali conflitti d’interesse (leggi il procuratore in comune), o motivi di opportunità calcistica (che coinvolgono le scelte tecniche dell’allenatore, gli stimoli a diventare titolare di chi è stato scelto dal titolare stesso, e la vita dello spogliatoio), un tassello così determinante per l’economia di una squadra che per due anni ha vissuto sui gol della punta lo deve scegliere il direttore sportivo (come fece Sogliano con Toni due anni prima), che è pagato per quello ed è per ruolo al di sopra delle parti. Incomprensibile anche che un ds che si avvale di “uno dei migliori scouting d’Italia” (Setti dixit), scouting tra l’altro ben remunerato, ingaggi Souprayen, il cavallo di ritorno Albertazzi e giocatori imbolsiti (Matuzalem e Emanuelson) proposti dai procuratori, anziché volti nuovi e talenti in erba. A che diavolo serve allora lo scouting?

In una società organizzata l’allenatore della prossima serie B (nonostante il ciapa no delle concorrenti ci lasci ancora un lumicino di possibilità, incredibile ma vero!) dovrebbe essere già stato individuato e la scelta non dovrebbe essere influenzata da questo finale di torneo, come ho letto sui giornali, cioè da una valutazione contingente ed effimera, ma dal progetto, dal mercato e dalle ambizioni che si hanno in testa, dunque da una visione complessiva.

Una società organizzata, e questo è un augurio perché  a Setti voglio concedere ancora un bonus, ripartirebbe da un nuovo management (via Bigon e gli uomini scelti da Gardini ancora operativi) e, lo dico e scrivo da tempo, da un nuovo allenatore. Delneri in assoluto non ha fatto male (è partito in forte svantaggio e la classifica del girone di ritorno, cioè da quando si può giudicare il suo lavoro, ci darebbe salvi), ma, rispetto alle aspettative, nemmeno bene (le partite con Udinese, Samp e Carpi gridano vendetta). E in B serve un altro tipo di allenatore.

CASO TONI: HELLAS PIÙ IMPORTANTE DEI PERSONALISMI

Max Weber teorizzava il potere carismatico poggiato sulla figura di un leader all’interno di un’organizzazione sociale.

E’ un po’ quello che in parte succede a Verona da anni, prima con Mandorlini, già ai tempi di Martinelli, poi con Toni, sebbene Setti si sia sempre vantato di aver creato, a differenza dei predecessori, una società modello nella quale ognuno ha il suo ruolo. In realtà il Verona in questi anni, e anche con l’attuale presidente, è parso essere condizionato da figure che hanno tracimato dalle loro funzioni, creando appunto un sottopotere plebiscitario e personale basato sul loro carisma. Risultato? Un “totalitarismo” capace di oscurare il lavoro determinante dietro le quinte di altre personalità autorevoli (penso a Martinelli, al primo Setti, a Gibellini e Sogliano); un leaderismo con picchi di ipertrofia tali da condizionare l’opinione pubblica e i dibattiti mediatici, e scomodare mostri sacri inarrivabili e innominabili come Bagnoli e Elkjaer pur di legittimarsi.

Attenzione, nessuno toglie merito a Mandorlini e Toni, nessuno dimentica le loro vittorie e i loro gol, ma da qui a condizionare le vicende di un club ai personalismi ce ne dovrebbe correre. Invece a Verona credo sia accaduto, sino purtroppo al naturale epilogo in casi come questi: Mandorlini e Toni in questa stagione sono divenuti vittime di loro stessi e il Verona, in un certo senso, vittima del loro declino.

Il Verona invece se vuole crescere deve strutturarsi, evitando di votarsi troppo a chicchessia, senza creare ingombranti personalismi che nel tempo, anche senza volerlo, implacabilmente tendono a creare delle problematiche. L’Hellas deve diventare solida struttura e inviolabile organizzazione, superiore e indipendente a qualsiasi singolo. “Non fare di me un idolo mi brucerò, non fare di me un megafono mi incepperò” scriveva e cantava quel genio che è stato ed è Giovanni Lindo Ferretti.