VALOTI E I TORMENTI ESTIVI DI FUSCO

Forse non è un stato un caso. Ci sono incroci, destini, storie che si accompagnano a certi luoghi. E allora mi piace pensare che un talento cristallino e indiscusso come Mattia Valoti si sia rivelato in tutta la sua forza, e non a caso, nello stadio dedicato a Paolo Mazza, presidente di una Spal che negli anni ’60 era fucina dei giovani di qualità (Fabio Capello su tutti, ma non dimentico il nostro Gianni Bui e neanche quel matto poeta donnaiolo di Ezio Vendrame, artista del pallone mai realizzato, cui l’unico difetto per me veronese è stato essere un simbolo del Vicenza).

Ieri prima della partita nella nostra chat whatsapp di Telenuovo scrivevo: “Valoti titolare: può essere la sua occasione”. Sono stato facile profeta, sottolineo facile, perché Valoti sa giocare a pallone e la notizia, in un mondo normale, non dovrebbe essere la sua doppietta e il suo assist, ma che a 23 anni è (era?) ancora un’incompiuta addirittura in serie B. Un no sense per uno con le sue qualità.

Chi mi legge sa che ho sempre difeso questo ragazzo timido, educato, riservato, dal modo di fare anonimo “come l’erba da scarpata ferroviaria” (cit.), con la faccia di uno che passa di lì per caso, senza la spocchia, gli atteggiamenti, il look, insomma gli stereotipi del calciatore medio. Quando lo incrociai al ‘Vighini Show’ di due anni fa, nel vederlo banalmente in tuta sociale mi sembrava uno di quei tanti ragazzi che trovi alla domenica sera nei bar all’aperitivo post partita della loro squadra di paese.

Il mio amico Marco Gaburro, che ha allenato Valoti due anni all’Albinoleffe, mi dice: “Mattia probabilmente ha sempre vissuto nella certezza di essere un predestinato e su questa certezza si è inconsciamente adagiato, non riuscendo fino ad oggi a fare lo scatto caratteriale necessario”. Il ds Fusco quest’estate nelle conversazioni private era sinceramente tormentato nel parlarne: “Valoti è forte, ma viene da annate difficili e ha bisogno di ritrovare fiducia e di giocare, bisogna capire se qui a Verona può rilanciarsi oppure è meglio darlo in prestito, ma nel caso sarebbe un prestito secco perché uno come lui è un patrimonio tecnico anche in serie A”. Poi ancora, dopo qualche settimana: “Potremmo confermarlo, il ragazzo ha lo spirito giusto e a Pecchia piace, il suo valore tecnico non di discute”. Tormenti, ragionamenti, finezze che attestano la complessità del lavoro di un ds che fa calcio (e Fusco, come Sogliano che ha portato Valoti a Verona, fa calcio). Retroscena che spiegano il lavoro profondo che c’è dietro alla costruzione di una squadra e di un gruppo.

Il Verona di Fusco e Pecchia è stato costruito su questi risvolti psicologici e – ma è perfino palese – sulla qualità balistica del centrocampo. Così Pecchia persegue senza troppi compromessi il suo disegno rivoluzionario di un gioco offensivo e ad alta caratterizzazione estetica, al netto delle critiche (comprese le mie lievi). Lo ‘Ayatollah beniteziano’ ieri ha dissipato anche qualche mio dubbio sulla tenuta tattica in trasferta di un atteggiamento così a trazione anteriore, e ne sono ben felice perché come ho avuto modo di scrivere la scorsa volta a sua difesa: “Il bel gioco aiuta a vincere (e a riconciliarsi con il calcio) ed è pure educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché più bravi e non più furbi”.

Ma il Frosinone incombe e potrebbe essere quello di domenica lo snodo per legittimare, forse definitivamente, le convinzioni di Pecchia.

LO ‘AYATOLLAH’ PECCHIA SOGNA LA RIVOLUZIONE MA…

Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton diceva che “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto: anche un principio giusto se portato alle estreme conseguenze diventa un errore.

Ecco, non vorrei che Pecchia, allenatore emergente e rampante di indiscutibile cultura tattica, nel portare avanti la sua idea (sacrosanta) di calcio offensivo ed elegante, vestito di trame e fraseggi, non scadesse nel più facile e terribile degli errori: il radicalismo che conduce all’effimero, il velleitarismo che s’accompagna alla mera testimonianza, un talebanismo che s’avvita su se stesso.

Lo “Ayatollah” Pecchia sogna la rivoluzione e ciò è pure affascinante. Ma la storia insegna che le rivoluzioni non si conducono lancia in resta, ma necessitano di fine razionalità nella strategia. Sognatori nell’obiettivo, pragmatici nell’azione. L’impressione è che l’allenatore laziale badi molto alla fase offensiva e meno a quella difensiva (15 ammoniti e un espulso in tre partite, segno di mal posizionamenti, sbilanciamenti e interventi scomposti in fase di non possesso?), eppure ci sono partite, campi e situazioni ambientali dove forse occorrerebbe essere più attendisti senza divenire per forza sparagnini o calcolatori.

Benevento è paradigmatica. L’approccio è stato presuntuoso e non sarà casuale che dopo pochi minuti dietro ci si sia trovati già in due situazioni di affanno (dalla seconda nasce l’espulsione di Caracciolo). Nonostante l’inferiorità numerica Pecchia non ha provveduto a nessuna sostituzione ammettendo poi in sala stampa che preferiva tenersi tutti i tre cambi per il corso successivo della partita (come se i cambi servissero solo da metà campo in su). Nel secondo tempo poi la gestione della partita mi è sembrata istintiva, frettolosa (squadra troppo sbilanciata alla ricerca del pareggio ancora a mezz’ora dalla fine, un’eternità) e confusa (l’incrocio di cambi Ganz-Gomez-Cappelluzzo mi è sembrata una smentita a se stessi).

Sia chiaro, pur non essendo il sottoscritto un guardioliano spagnoleggiante (io sono per la superba medietà degli Ancelotti, degli Hiddink e, più modestamente, degli Allegri), apprezzo l’idea che ispira Fusco (zemaniano convinto) e Pecchia: il bel gioco sempre e comunque. Anche nelle loro dichiarazioni all’unisono di ieri (“dobbiamo essere più concreti”, come dire ci è mancato solo il gol) i due sottintendono la loro vocazione prettamente offensiva. E, certo, il “bel gioco” aiuta a vincere (e a riconciliarsi col calcio) ed è anche educativo, perché afferma l’idea (poco italiana) che si vuole primeggiare perché si è più bravi e non più furbi. Voglio dire: Pecchia difenda e porti avanti il suo calcio, ma un avvertenza non guasta: il “bel gioco” non basta in serie B, è condizione necessaria ma non sufficiente, specie in trasferta. In certi contesti vero che occorre più concretezza, ma aggiungerei anche meno spavalderia. Solo così Pecchia vincerà la sua (affascinante) rivoluzione.

IL ‘SETTI TER’ ALLA PROVA DEL NOVE

“Comunque vada sarà un successo” ripeteva un Chiambretti festivaliero nel 1997. Il tormentone che fu si addice a Setti che, nonostante la retrocessione, certo non può lamentare miseria per le casse del Verona. Circa dieci milioni di plusvalenza per Ionita e Gollini, una mongolfiera economica da 25 milioni, le cessioni con possibili riscatti milionari di Wszolek e Viviani, lo sfoltimento della rosa, l’abbassamento degli ingaggi e dunque un generale taglio dei costi, infine un mercato in entrata parsimonioso eppure sufficientemente competitivo per tornare in A. Possiamo dirlo? Setti ha fatto bingo spendendo il meno possibile a fronte di ricavi plurimilionari.

Certo, la gestione economica dell’ultimo anno ha fatto acqua da tutte le parti e si è rischiato grosso se è vero che Setti definì il paracadute un “provvedimento salva-aziende calcio”. Ora però agli errori-orrori del vecchio management (e del vecchio Setti) è stato posto rimedio, sia a parole (“l’anno scorso ho sbagliato, la lezione mi è servita” ha detto il nostro pochi giorni fa), che nei fatti, con la proprietà che ha messo i promettenti Fusco e Pecchia al timone della nave con una rotta precisa, risalire in A, l’unica categoria che economicamente conta e mediante la quale Setti può continuare fare calcio e business senza i chiari di luna paracaduteschi. Questo è un buon segno perché significa che l’imprenditore carpigiano non smobilita, non lascia e nemmeno ridimensiona come temeva qualcuno.

Ed è questo il dato che emerge e che l’estate ha chiarito: Setti vuole dare continuità. Motivo? Business e passione. Passione, beninteso, non declinata a sentimento per i colori, ma passione intesa come piacere (narcisistico, psicologico, motivazionale) di avere un’azienda-calcio e di essere attore protagonista in un mondo affascinante, che ti dà visibilità e apre tante porte.

Il Verona dunque va avanti con Setti, e non per mancanza di compratori, come vuole la vulgata, ma di interesse reale a vendere. Setti che in queste settimane (mediante Fusco) il suo dovere l’ha fatto: allestire una squadra per la promozione diretta. Ma la prova del nove per lui si annida altrove, tra le pieghe delle due grandi promesse sinora disattese: il consolidamento in A e il centro sportivo. Dalla loro realizzazione sarà giudicato.

LA QUALITÀ C’È, IL RESTO SI VEDRÀ

Verona-Latina ha parlato. L’Hellas è stato costruito bene e qualitativamente è una spanna sopra alle altre squadre di serie B. Lo avevamo intuito dopo il doppio impegno di Coppa Italia, ieri ne abbiamo avuto conferma. Per dire, ieri Pecchia girandosi in panchina poteva vedere le espressioni corrucciate di Ganz, Gomez, Greco e Siligardi, che giocherebbero titolari in tutte le altre compagini del campionato.  Fusco, a differenza di chi lo ha preceduto nella passata stagione, ha guardato al campo e non ai procuratori. Ha scelto l’allenatore (a Verona non capitava da anni che un direttore sportivo avesse il “suo” mister) e preso dei calciatori adatti alle idee di Pecchia. Zitti zitti ds e tecnico hanno attuato una mezza rivoluzione: ieri, tra i titolari, quelli della vecchia guardia erano solo tre (Bianchetti e Fares non entrano nel conteggio perché l’anno scorso hanno trovato spazio a situazione compromessa). Giusto allontanare le passate scorie e aprire la finestra al (razionale) rinnovamento, dando un preciso segnale ai vecchi, che possono essere ancora determinanti, ma solo dentro uno spogliatoio sano senza figli e figliastri. Interessante (e innovativa) l’idea di ruotare per l’intera partita le posizioni dei tre centrocampisti, che non davano punti di riferimento e si scambiavano ruoli e compiti, sebbene credo si sia trattata di un’invenzione dettata dall’assenza di un vero regista nell’organico attuale (Viviani è in uscita). Pazzini ha segnato (e questa non dovrebbe essere una notizia, uso il condizionale) e si è infortunato (e questa non è una notizia, uso l’indicativo). Potrebbe essere una costante: Pazzo non è più il giocatore di tre anni fa (quando al top era uno dei migliori centravanti italiani), la condizione fisica è precaria, ma gestibile. Il resto lo fa il suo talento, esagerato in questa categoria: lui ha nelle gambe 25-30 partite e 15-18 gol. Bastano di per sé, bastano ancor più se dietro hai Ganz e Gomez.

Verona-Latina è rimasta muta. Poca cosa la squadra laziale per avere già del materiale per analizzare l’altro aspetto che occorre alle squadre vincenti: la personalità. E’ vero, preso il gol del pari l’Hellas ha continuato a macinare gioco come se nulla fosse e questo è un segnale, ma non sufficiente per trarre le prime conclusioni. L’imminente doppia trasferta al sud (Salerno e Benevento) giunge a puntino perché è lì che sarà esposto lo striscione: welcome the real world. Ergo questa è la B con le sue insidie e il suo impatto ambientale e nervoso.

Nel frattempo tiene banco il mercato, che si conclude mercoledì. Helander e Viviani sono sulla strada di Bologna e non li rimpiangeremo, in entrata (sempre da Bologna) il difensore centrale Cherubin. Resta l’affaire Romulo, campione che fa la differenza, ma che prende uno stipendio spropositato, non lo vuole spalmare e dunque è in uscita. Dovesse andare verrà preso un centrocampista forte, non necessariamente con caratteristiche simili, magari un regista a cui mettere ai lati Fossati e Bessa (con Zuculini, Greco e Zaccagni alternative), che pure hanno dimostrato ieri di poter fungere da costruttori di gioco. Pecchia ha rassicurato: “Non stravolgeremo la squadra”. C’è da credergli.

LA VECCHIA GUARDIA NON TRADISCA

La mia è l’estate dei tormentoni vintage. Ascolto le note di “Ricominciamo” reinterpretata da un Maurizio Setti ecumenico che parla di Salerno: “Spero sia la giornata della riconciliazione” dice Ranzani improvvisamente folgorato sulla via papale. Poi, forse per festeggiare gli 80 anni di Mogol, ecco risuonare “Ancora tu?”, cover mogol-battistiana ripristinata in omaggio al Viviani “lento”, cioè Federico (quello veloce, Elia, è comprensibilmente in tutt’altre faccende – festose – affacendato), che un giorno sì e l’altro pure sembra sulla via dell’addio, ma invece è sempre qua, un po’ come la bella di Torriglia che tutti la vogliono ma nessuno la piglia (c’è un mercato, un prezzo da contrattare, ma spero si concluda).
La mia è pure l’estate dei dubbi sul vintage, cioè su alcuni elementi della vecchia guardia da cui la dirigenza ha deciso di ripartire. Penso a Pazzini, Siligardi, Souprayen, Albertazzi, Greco e Gomez. Non vorrei si creassero dei vuoti (sulla fascia sinistra, anche se l’infortunio di Albertazzi sta inducendo la società a intervenire), delle incompiute (Gomez, Greco e Siligardi sapranno rimettersi in discussione?) o degli equivoci (il dualismo Pazzini e Ganz).
Sia chiaro, mi piace la rosa che sta disegnando Fusco, il calcio di Pecchia sembra promettere bene e vedo un Verona sulla carta superiore alle concorrenti. I nuovi sono frutto di un mercato intelligente: Ganz è giocatore di grande talento, Fossati e Zuculini due vincenti in B, Bessa può esplodere, Caracciolo è nel pieno della maturità agonistica e conosce Pecchia, Luppi è il classico fosforo di categoria, Nicolas è pronto per essere un portiere titolare di fascia alta. Ma sappiamo che la B è storicamente un campionato livellato, che si gioca sul filo dei punti, e nel quale non ti puoi permettere vanità o lussi inutili. Tradotto: Pazzini si chiama Pazzini e deve segnare, altrimenti è anche giusto mettergli pressione con un Ganz apparso in gran spolvero. Lo stesso vale per i Viviani (dovesse rimanere) e i Greco a centrocampo, reparto in cui servono tecnica, motivazioni e dinamismo e dove non puoi fare sconti al nome, all’ingaggio o al pedigree, soprattutto se hai pure Fossati, Zuculini, Bessa e lo stesso Zaccagni a mordere il freno. La difesa invece merita un discorso a sé perché con Caracciolo e i due nuovi tasselli che arriveranno (centrale e terzino sinistro) sarà un reparto rifondato privo delle scorie del passsato (e Bianchetti, in deficit di personalità, si può rilanciare se affiancato da un leader e Pisano è una garanzia).
Siamo alla volata finale di questo mercato estivo, il Verona ha comunque deciso di ripartire da un mix di nuovo e vecchio. Scelta equilibrata, ma la vecchia guardia non tradisca.

SETTI, FUSCO E PECCHIA: QUESTIONE DI…MARCE

Come un novello Arthur “Fonzie” Fonzarelli non lo ammetterà mai, nemmeno sotto tortura. Setti difficilmente dirà: “Ho sbagliato”. Ma se a Fonzie bastava mostrare la faccia contrita e balbettare il perdono davanti a Marion Cunningham (l’unica privilegiata di cotanta umiltà), per Setti i fatti valgono da soli un’autocritica compiuta. In meno di otto mesi gli attori protagonisti dell’ultimo “teatro degli orrori” – Mandorlini, Gardini e Bigon – se ne sono andati, i procuratori sono tornati a fare i semplici intermediari e non gli invadenti consiglieri, e anche in sede  e negli uffici qualcosa si è mosso.

E’ un nuovo Verona: bello, brutto, vincente o scalcagnato lo dirà il campo, ma le prime impressioni sono positive. Fusco mi è piaciuto: umile, schietto e disponibile, una rivoluzione rispetto al recente passato. Basta per essere un bravo ds? No ovviamente, il calcio e la vita sono costellati da stronzi geni e umili idioti, ma in Fusco c’è anche del metodo e una finezza tecnica non trascurabile. Fusco è amico personale di Bigon, eppure come ds è più un Sogliano. Dirigente da campo e non da ufficio, che – deciso il budget dal presidente – vuole “carta bianca” nell’operare; che al nome preferisce l’equilibrio di squadra (con la permanenza di Pazzini ha preso il giovane Ganz e non l’esperto Cacia), che prima di ingaggiare il calciatore titolare – quello per intenderci che ti deve fare la differenza – se lo porta a spasso e pure a pranzo, ci parla e lo guarda negli occhi, sulla falsariga di Sogliano con Toni tre estati fa. Sembra tutto normale, ma non lo è in un mondo di dvd, chiavette usb e procuratori da soddisfare, dove capita pure di acquistare un giocatore di fama senza sincerarsi davvero delle sue condizioni fisiche e morali. Basta, almeno questo, per essere un bravo ds? Non ancora, perché oltre a disponibilità umana e metodo lavorativo dobbiamo appurare se Fusco gode della terza componente determinante: il fiuto.

Su Pecchia, per esempio: crac, o bidone? E’ la domanda dell’estate, sulla bocca di tutti. Anche qui buone impressioni si accompagnano a normalissime perplessità. Pecchia è colto, poliglotta, empatico, sorridente, cortese, tutte cose a cui non eravamo abituati da tempo, e ha metodologia (esempio la famosa intensità di cui ha scritto Vighini, non granché in voga con Mandorlini), ma ha tutto da dimostrare nella gestione del gruppo (qualità in cui invece Mandorlini, pur con metodi discutibili, eccelleva), che diventa attività psicologica complessa nei momenti di difficoltà o delle scelte.

L’auspicio ovviamente è tornare a sorridere, godere e vincere, perché parlottando in privato è questo l’unico obiettivo, al di là delle professioni pubbliche votate all’understatement. Setti, anche se non lo ammetterà mai, ha ingranato umilmente la retromarcia, ora tocca a Fusco e Pecchia mettere la quinta.

PECCHIA E IL VERONA HANNO L’OBBLIGO DI VINCERE

Le parole sono importanti e, lo dico sommessamente, non mi sono piaciute quelle di Pecchia del “non sento l’obbligo di vincere”, poi legittimate e condivise dal ds Filippo Fusco, che Pecchia lo ha scelto.

Capisco il basso profilo, ma c’è low profile e low profile. Comprendo il non voler caricare di responsabilità la squadra che verrà, ma in conferenza stampa c’era l’allenatore e non la squadra; e poi Mourinho (ma non solo lui) insegna: caricare gli oneri su di sé aiuta ad alleggerire quelli sui giocatori.

E, soprattutto, l’obbligo di vincere a Verona quest’anno c’è. Pecchia non lo sentirà ma, dopo un’annata balorda, c’è. C’è un obbligo morale: nei confronti di una piazza tanto vittoriosa sugli spalti quanto umiliata in campo. C’è un obbligo economico: senza voler annoiare ancora con la storia del paracadute (che in realtà andrebbe ricordata sempre per ribadire quali sono i doveri), è però un fatto che l’Hellas si presenta ai nastri di partenza con un budget economico stellare rispetto a tutte le concorrenti. C’è un infine un obbligo storico: il Verona in B è (quasi) sempre partito per primeggiare, quando non è accaduto era a causa di contesti molto diversi dall’attuale.

“Ma meglio non mettere pressioni” ci dicono i pompieri, con una frase saccheggiata e che spesso non significa nulla (se non a parare il sedere) e che nell’ultimo anno non ha neppure giovato. Già, perché di  minimalismi ne abbiamo avuti abbastanza in questi mesi, tra giustificazioni, alibi, scuse, balbettii mentre la barca affondava e la sciagura era in pieno corso. Ricominciamo con lo stesso errore?

Ho rispetto per Fusco, che sinora ha mostrato educazione, umiltà e onestà intellettuale, e il mio auspicio è che la scelta di Pecchia si riveli azzeccata. Ma le parole sono importanti e sinora quelle più significative non sono state indovinate.

PARACADUTE: L’ABBIAMO SCAMPATA BELLA?

Per fortuna che c’è Toni che ci parla di calcio, di punte che devono fare la differenza e difese solide. Grazie al cielo che c’è Fusco che ci riporta, paradossalmente con il suo aplomb colto, alla grazia e alla normalità delle cose profane quali sono quelle rotondolatriche del fubal

Eppure a commentare le recenti vicende economiche del Verona rimani tra l’angustiato e l’irritato. Non c’è levità nei gesti e nelle dichiarazioni di Setti quanto parla di soldi, conti e bilanci. “L’anticipo del paracadute? Va interpretato come delibera salva aziende calcio” ci disse nell’ultima conferenza stampa, con un frase passata troppo facilmente in cavalleria, se non fosse stato per questo sito che ha giustamente e doverosamente rilanciato: senza anticipo, dunque, cosa sarebbe accaduto?  De Laurentis, non smentito, ha dato la sua risposta, cruda, sorda e spietata: “Il crac del Parma non ha insegnato niente e quest’anno si stava ricreando una situazione identica col Verona”. De Laurentiis, attenzione, che è antipatico come pochi e presidente di una squadra che non amiamo, ma che non è il primo scemo che passa per strada.

Mi sarebbe piaciuto che Setti, a quel punto, chiarisse su una gestione economico-finanziaria (affidata fino a gennaio all’ex dg Gardini) che nell’ultimo anno, per dirla con il saggista e sociologo Pippo Russo intervistato dal Corriere di Verona, “non è stata razionale, non so se si sia riposta troppa fiducia in qualche agente, ma certe operazioni restano inspiegabili e il prezzo viene pagato adesso”. Avrei gradito che Setti rispondesse a De Laurentis un po’ con quella sicumera con cui è solito rispondere a noi umili scrivani e detestati blogger, se non altro per difendere l’immagine del Verona. Invece silenzio. Ma è estate, panem et circenses, e dunque meglio parlare dei dubbi sul futuro di Pazzini, del possibile rilancio di Viviani e del modulo di Pecchia, a cui va il mio personale in bocca al lupo. Con la sensazione di averla scampata bella.

LA SPERANZA DI AVER TORTO

Nemmeno Juncker e i demiurghi del “pareggio di bilancio” di stanza nei palazzi dell’Unione europea avrebbero saputo far meglio. Spending review, austerity, taglio della spesa, ditelo come vi pare: il Verona sarà votato al risparmio. Del resto lo si era capito già dalla recente conferenza stampa – minimalista, un redde rationem noiosamente spartano – che Setti sarebbe passato dai vigorosi e sfacciati proclami ranzaneschi di un tempo – un tempo vicino eppure mai come ora così lontano (quella del “modello Borussia Dortmund” rimarrà negli annali) – alle prosaiche dichiarazioni contabili attuali (“i 25 milioni li metterò nel bilancio”). 

“Sono un musicista contabile” cantava graffiante Manuel Agnelli degli Afterhours, senza sapere che un ventennio dopo sarebbe andato a X-Factor a fare il giudice. C’era un Setti che parlava di calcio, di giocatori, di obiettivi (“consolidamento in serie A”) ammiccando financo alla grandeur (“vincere la coppa Italia”); c’è un Setti ora che parla di soldi ed economia: “L’unico mio obbligo è dare continuità all’azienda Verona”. Un cambiamento evidente, come nei contratti, non più pluriennali, ma annuali, come nelle scelte, ricadute su dirigenti e allenatori senza grande esperienza specifica.

Il ds Fusco a Bologna con poco ha saputo costruire molto, ma la sua esperienza da direttore sportivo è quasi tutta lì. L’avvocato napoletano è stato soprattutto un procuratore (anche di Pecchia). Saprà confermare quanto fatto sotto le Due Torri? Setti per ora gli ha dato un’opportunità, non le chiavi di un progetto. Idem a Pecchia, ottimo incursore di metà campo da calciatore, un’incognita da allenatore a questi livelli. E’ risaputo che la mia scelta sarebbe ricaduta, in rigoroso ordine, su Iachini o De Zerbi – attenzione non Mourinho, Hiddink o Guardiola -, due nomi realistici e (pensavo) abbordabili per una retrocessa con 25 milioni di diritti tv. Il Verona invece non si è rivelato attraente economicamente per gli allenatori di prima fascia e forse neppure per un emergente come l’attuale tecnico del Foggia. Pecchia invece è una scommessa: metodologicamente è senza dubbio preparato, resta da valutare se sarà in grado di trasferire le sue idee sul campo.

A lui va il mio personale in bocca al lupo e l’augurio di smentire i miei dubbi, anche perché dopo un anno di allarmi fondati e previsioni azzeccate sono anche stanco di aver ragione. “La ragione aveva torto” titola un bellissimo saggio di Massimo Fini. “La ragione è dei matti”, dicevano più semplicemente i nostri nonni. La ragione lasciamola agli altri.    

DOVE NON POSSONO I SOLDI PUÒ L’INTELLIGENZA

Profonda inquietudine: “La delibera che anticipa il 40 per cento del ‘paracadute’ deve essere interpretata come salvataggio delle aziende-calcio, perché a Verona, me lo insegnate voi, in passato avete rischiato tracolli non indifferenti a causa di gestioni un po’ ballerine”, ha detto Setti oggi in conferenza stampa. Il Verona era a un passo dal crac? Forse la gestione Setti dell’ultimo anno è stata a sua volta un po’ “ballerina”? Nessuna crisi finanziaria “ma i conti sono sempre tiratissimi nel calcio”, ha poi specificato il presidente. Anche la solita e immancabile invettiva ranzanesca (“Gli stipendi li ho bloccati a gennaio perché ero incazzato; ‘non vi pago più!’ ho detto; purtroppo li ho pagati l’altro giorno perché ero obbligato sennò l’avrei tirata in lungo”), peraltro l’unica in un mare di minimalismo, oggi non fa ridere e assume contorni più cupi: regge questa motivazione?

Che si profilino tempi di austerity è però un fatto: “Con i 25 milioni di euro sistemerò il bilancio”, ha sentenziato Setti, che poi ha inserito la retromarcia rispetto alla promessa del gennaio scorso, quando s’impegnò, in caso di retrocessione poi avvenuta, a riportare immediatamente il Verona in A: “L’unico mio obbligo è dare continuità all’azienda, l’ambizione di risalire c’è e mi impegno a dare il meglio per rispetto dei tifosi, ma obblighi non me ne assumo e certezze non ne do”, ha rettificato.

Eppure un dato positivo emerge anche in questi tempi di finanze inopinatamente (date le plusvalenze milionarie e i tre anni di ricchi introiti tv) grame: Setti perlomeno ha fatto chiarezza. Non credo al suo filantropismo (“con il Verona ci rimetto”), anzi sono convinto, a logica, che per lui sinora l’Hellas rappresenti un (legittimo) business e che con 25 milioni di paracadute, se saprà ridurre i costi come da intento (il probabile arrivo di un ds come Fusco rientra in questa logica), lo continuerà a essere. Non sono poi tante le aziende, fuori dal mondo del calcio, nelle quali entrano ricavi di tale portata da fonti terze.

Forse fra uno o due anni Setti venderà, chissà, ma ora il paracadute “sistema-bilancio” gli dà la forza per continuare pur senza grandi investimenti e se dovesse tornare in A potrà farlo ancora a lungo. E rientrare nel calcio che conta è un obiettivo possibile anche senza grandi spese, premesse due condizioni inderogabili: che venga ingaggiato un allenatore in linea con il nuovo corso low cost e vengano scovati i giocatori più adatti al suo modo di intendere il calcio. Credo che il profilo giusto sia De Zerbi, emergente, bravo, tattico e innovativo, più ancora di Stellone, più esperto e quotato ma forse maggiormente adatto a spogliatoi ingombranti e ricchi.

L’obiezione è: ma De Zerbi è vicino a Tullio Tinti, quello del quinquennale a Pazzini e condizionante anche nel biennale a Mandorlini. Obiezione lecita, ma premesso che la prima cosa che conta è che un allenatore sia bravo (e De Zerbi lo è) e assodato che, a prescindere da De Zerbi e Toni (a sua volta legato a Tinti), il procuratore bresciano continuerà a essere influente, a quel punto meglio scegliere un allenatore da lui (e dal futuro vicepresidente Toni) “protetto”.

Veniamo da due anni turbolenti: prima Gardini che fa la guerra a Sogliano con Mandorlini osservatore interessato; poi Bigon e Gardini subito amici e alleati, poi divisi dall’affaire Mandorlini, poi di nuovo amici, poco più in là Delneri e Toni in perenne conflitto e lo spogliatoio frantumato. Ora invece, Tinti o meno, serve unità d’intenti e un allenatore legittimato dal club e potente nello spogliatoio, secondo il principio che da sempre ispira chi vi scrive: il Verona prima di tutto. Dove non arrivano i soldi, arrivi finalmente l’intelligenza.