CARO SOGLIANO, I BRODI LONGHI…

Sarebbe potuto diventare un tormentone: “Toccatemi tutto, ma non il mio Sean”. Un po’ come quel vecchio spot degli orologi. Potrebbe invece essere presto un addio, perché Sogliano presumibilmente sarà il nuovo ds del Milan di Barbara Berlusconi.  Non si tratta, badate bene, di isterica gelosia, quella magari pervaderà le tifose veronesi, attratte da Sean un po’ per il nome avventuriero e soprattutto per lo sguardo a metà tra la soap opera e gli spaghetti western. Ma di un divorzio, quello col ds auzzaider, che sarebbe una dura botta per il Verona.

C’è una buone dose di sfiga in tutta questa storia. Il Milan non cambia direttore sportivo da 27 anni e decide di farlo proprio adesso che l’Hellas ne ha uno che inseguiva dai tempi di Mascetti (fine anni ’80). Colpa del ballo vorticoso delle scrivanie nel club di Berlusconi, che allontanati nani e (soprattutto) ballerine a corte, tradito dalle colombe e sostenuto da (mediocri) falchi, si ritrova pure i parenti serpenti in casa (leggi guerra per l’eredità tra i figli di primo e secondo letto), non bastasse Dudù. Galliani, dimissionario la settimana scorsa, è stato “congelato”, probabilmente saluterà a fine stagione, nel migliore dei casi si ritroverà nell’organigramma rossonero esautorato. Ora comanda Barbara, non si sa se per meriti o perché in “quota” Veronica, ma tant’è. B.B. ha imposto il rinnovamento e ha deciso di silurare lo storico ds Braida e puntare (concorde anche Galliani, che non si sa mai) su Sogliano, annoverato il migliore uomo mercato tra gli emergenti. Fatto non trascurabile, il nome Sogliano nell’ambiente milanista fa sempre un certo effetto. Il padre Ricky è stato difensore del Diavolo ai tempi di Rocco e Rivera nella prima metà degli anni ‘70 ed è amico intimo proprio di Braida (compagno di squadra nel Varese), il quale liquidato lautamente può aver speso di certo una buona parola per il figlio dell’amico (della serie se qualcuno mi deve succedere, almeno che sia amico di famiglia).

E il diretto interessato che dice? Nulla, tace.  E allora appelliamoci alla (flebile) speranza  e a pochi dati oggettivi. Sean è sotto contratto (scadenza 2015) e Setti, interpellato al riguardo, ha sciorinato uno dei suoi cavalli di battaglia “ranzaniani” (nel senso di Marco Ranzani da Cantù) preferiti: “Sogliano resta di sicuro, gli ho salvato la carriera”, manco fosse Pippo Baudo con Lorella Cuccarini. Il presidente ha aggiunto: “Non lo vedo adatto a un grande club italiano, dove serve anche molta diplomazia, eventualmente tra qualche anno potrà andare in una big estera”. Certo, l’ex “magliaio” di Carpi poi ha aggiunto: “Anche fosse, me lo comunicherebbe per tempo e il progetto Verona andrebbe comunque avanti”. Frase nemmeno troppo criptica questa, velata di addio.

Noi come i bravi di Don Rodrigo avremmo voglia di urlare che “questo matrimonio non s’ha da fare” e confidiamo sino all’ultimo sui buoni argomenti di Setti (rinnovo pluriennale, aumento dell’ingaggio e ambizioni europee). Non bastassero, vorremmo perlomeno che tutto fosse trasparente e chiaro il prima possibile. “Bisogna sempre giocare lealmente quando si hanno in mano le carte vincenti” scrisse Oscar Wilde. Tradotto: Sogliano si sbrighi e confermi o smentisca in fretta, possibilmente entro Natale. Come si dice a Verona, i brodi longhi…

MANDORLINI? DUE PESI E DUE MISURE

“Perché Cirigliano se è così bravo non gioca mai? Hallfredsson è un palo della luce” esclama Mirko, dieci anni e una passione per il pallone. Lui batte i campetti di periferia dove il calcio è pane e salame. Beata innocenza, che poi spesso è cruda verità. Viene in mente quella bellissima canzone di Gaber: “Non insegnate ai bambini”. Poi crescono indottrinati dalle astruse complessità di noi adulti, capaci come siamo di collezionare supercazzole alla Conte Mascetti pur di giustificare l’incomprensibile. Vedi le scelte di Mandorlini ieri sera (Hallfredsson, Cacciatore, Jankovic). Testone e poco ardito il mister, che forse non si è ancora reso conto dell’ineluttabile destino della sua squadra, costretta ad attaccare per non doversi difendere.

Lo scrivo da settembre, l’unica difesa è l’attacco per questo Verona, che per la (scarsa) qualità dei suoi difensori e l’attitudine offensiva dei suoi centrocampisti non può giocare in trincea. Meglio quando dispiega le ali ed esprime il talento dei suoi uomini migliori. Si è visto anche ieri. Se Mandorlini vuole migliorarsi deve abbandonare testardaggine, orgoglio e supponenza (leggi allergia alle più ovvie critiche). E darci un taglio all’ormai grottesca politica dei “due pesi e due misure” coi calciatori. Come mai ad Hallfredsson fiducia cieca, mentre a Martinho basta steccare mezza partita? Perché Cirigliano non gioca mai nonostante gli ottimi spezzoni con Torino e Fiorentina? Con l’argentino ci guadagna pure Jorginho, che si esprime meglio da regista avanzato (non trequartista) che da metodista. Sala è così scarso da giustificare l’imprescindibilità di Cacciatore? Voglio dire, far giocare semplicemente i più bravi, no?

Aggiungo senza ghirigori semantici e sintassi paracule: il Mandorlini delle ultime settimane non mi è piaciuto neppure nell’atteggiamento. “Anche se perdiamo rimaniamo sesti”, aveva detto alla vigilia del derby. Parole simili prima della Fiorentina. Dichiarazioni furbine? Si sa, ognuno difende il suo lavoro e abbassare l’asticella delle aspettative significa alzare quella dei (propri?) meriti. O appagamento? Se fosse, guardarsi l’ombelico e ripensare a quanto siamo stati belli non serve a nulla. Anche perché i punti potrebbero essere di più e se siamo (ancora) sesti dopo 14 giornate e tre sconfitte di fila forse allora non è così impossibile restarci. Meno supponenza e più cattiveria, caro mister, così torniamo a divertirci.

 

VERONA INDISPONENTE. E’ ORA DI CAMBIARE

Vigilia pallosa avevo scritto. Be’ la partita del Verona, forse, è stata pure peggio. Indisponente, moscia, distratta. Il Chievo, al contrario, consapevole dei propri limiti ha giocato con intelligenza e vinto con merito. Corini è partito per limitare i danni, schierando un undici zeppo di mediani (averlo noi Rigoni!), qualche palleggiatore sulla trequarti e zero punte (Thereau non lo è). Una manifesta dichiarazione di inferiorità. Tuttavia col passare dei minuti – constatato il grigiore di Jorginho & C.  – i suoi hanno preso coraggio fino a confezionare nel finale la più crudele delle beffe.

Parafrasando Raf, cosa resterà di questo derby? Come degli anni ’80 poco (a parte la mia bellissima infanzia e i fasti calcistici). Della beffa cruenta, ho detto; “…senza vaselina” ha scritto un amico tifoso (e al buon intenditore non servono spiegazioni circa i puntini di sospensione). Resta l’orgoglio di un predominio cittadino indiscutibile (“La Scala bisogna averla nel cuore non sopra una maglia dello stesso colore” lo striscione della Curva Sud). Hai voglia di dire che “il vero derby è col Vicenza”, sarà, ma io la rabbia, o la tristezza, o ancora l’afflizione colta ieri sera fuori dallo stadio mentre scorrevano i titoli di coda non l’ho notata lo scorso campionato dopo la sconfitta coi biancorossi. Eppure lo snobismo della vigilia si è riverberato in campo. La stucchevole melassa di due settimane da “Va dove ti porta il cuore” ha avuto il suo corredo finale durante i 90 minuti. L’attesa è stata soporifera, la partita ancor di più (e ne ha guadagnato la squadra più debole).

Il Verona dimesso ha la faccia di Mandorlini, che venerdì aveva detto “comunque vada resteremo sesti”  manco fosse il Chiambretti di un Sanremo che fu; e ieri dopo mezz’ora era già col capo chino e le mani sulla faccia. L’ascia di guerra prima abbassata e poi sotterrata. Il Verona compassato ha le sembianze di Romulo, funambolo sprecato da terzino, e le stimmate di Donati, mediano tamponatore ottimo, regista costruttore scarso, più utile quindi nelle partite di copertura che di dominio. Un doppio pacco dono con tanto di “saluti e baci”, questo, sconfessato dallo stesso Mandorlini al 13’ del st con l’innesto di Cacciatore, peraltro come a Genova buggerato nel gol. Il Verona impalpabile ha i segni di Gomez, che vale la metà di Martinho. Il Verona indolente, mi spiace scriverlo perché lo stimo, ha i cromosomi di Jorginho, da un po’ di tempo involuto forse perché distratto da qualche offerta di mercato. Se così fosse ritorni sulla terra, o sulla terra lo riporti la società.

Sia chiaro, è giusto non fare drammi, ma nemmeno prendersi in giro. La cose stanno così: la classifica è ottima, la rosa è buona, ma il calendario – da qua al giro di boa – no e la squadra mostra qualche ruggine. Forse sarebbe ora di darle una riverniciata cominciando a considerare anche Sala e Cirigliano, due nomi non a caso. L’ex esterno dell’Amburgo è l’unico centrocampista in rosa che può far arretrare sulla linea difensiva Romulo e quindi risolvere il problema (reale) del terzino destro. Mentre il “piccolo Mascherano” può essere una valida risorsa sia con Jorginho (sacrificando Hallfredsson) che senza (il brasiliano se gioca così non è intoccabile). La rosa è ampia e pensare di cambiare non è una bestemmia. Anzi, se non ora quando?

 

 

 

 

 

 

 

LA VIGILIA PIU’ PALLOSA DELLA STORIA

Maurizio Setti, al solito ruspante, la stoccata l’aveva infilata al Vighini Show: “Il Chievo? E’ la monarchia di Sartori”. Dalle parti della Diga però non hanno raccolto. Silenzio. E il Verona non ha rilanciato. Da lì il nulla da ambo le parti: nessun battibecco, zero sfottò, assenza della benché minima polemica (sportiva). Risultato? La vigilia più pallosa della storia, quasi come i predicozzi domenicali di Scalfari e gli editoriali di Polito. Pure la Tamaro è impallidita a fronte delle profusioni di melassa tra Toni e Corini, amici dai tempi di Palermo, o Toni e Dainelli, uno dei nostri “eroi” di Piacenza. Il triangolo no, cantava saggiamente Renato Zero. Ora, non vorrei che si scatenassero guerre di gelosia tra Corini e Dainelli appunto. Il bel tenebroso Thereau, invece, si è limitato a qualche sbadiglio, con quella faccia da fascinoso ed eterno scazzato: non si sa se a causa di Sannino (“non ci trovavo senso nelle cose che proponeva”), o della tiepida Verona (“mi aspettavo più attesa per questo derby”). Speriamo non si risvegli proprio domani. Hanno chiuso il cerchio i sorrisi educati di Corini, meno istrione di Sannino, più in linea col low profile clivense e soprattutto seriamente candidato a contendere a Morandi la palma di “eterno ragazzo”. Oggi parla Mandorlini, ma da quando il politically correct gli ha messo la museruola c’è poco da aspettarsi anche da un sanguigno come il ravennate, che tuttavia ha trovato il suo rimedio alla “censura”: parlare cogli sguardi, spesso sarcastici e taglienti. In mezzo a tutto questo piattume non ci resta che chiuderla qua al più presto e giocare, che poi è il vero senso del calcio. Tutto il resto è noia.     

 

 

QUESTO E’ IL PRIMO VERO DERBY

Non è il derby di dodici anni fa, il primo in serie A. E nemmeno quello del 1994, il primo (in B) in assoluto. Il clima dell’epoca, ecumenico e un po’ asettico da “festa della città”, ha ora lasciato spazio alla rivalità sportiva. Nel 1994, ma anche nel 2001, la Verona non strettamente tifosa si dichiarava neutrale. Adesso l’impressione è che una parte dei cosiddetti “moderati” sia tendenzialmente pro Hellas, quasi che il “fenomeno simpatia” del Chievo si sia via via attenuato col tempo. D’altro canto, il Chievo ha meno sostenitori rispetto ai migliaia che assiepavano il Bentegodi nel 2001-02, ma più tifosi veri, che saranno pochi (in rapporto al Verona), ma senz’altro più appassionati e organizzati in confronto ad allora.

Credo ci sia un paradosso di fondo che spiega la cosa. Il Verona, pur cambiando (dirigenze e categorie), è rimasto se stesso. Il Chievo, pur restando uguale, probabilmente è cambiato. Da un lato è cresciuto divenendo una solida realtà ai massimi livelli professionistici (e questo è un merito non da poco e ha creato lo zoccolo duro), dall’altro la dirigenza forse non ha saputo (o forse non ha voluto, non lo so) sfruttare la popolarità mondiale del periodo della “favola di quartiere” e costruirsi un’immagine e un’identità di club transnazionale e cosmopolita. Avrebbe potuto (o perlomeno potuto tentare di) diventare la squadra “di tutti gli italiani” e, perché no, “di tutti gli europei”. Al contrario, a detta di molti, ha provato a “competere” col Verona nei cuori dei veronesi. L’ambizione però si è rivelata un boomerang, perché ha unito ancor di più i tifosi dell’Hellas e disperso l’ effetto “favola” sul fronte di mezzo. Il resto l’ha fatto il cambio di filosofia societaria attuato da via Galvani dopo la retrocessione del 2007: più pragmatica e meno sbarazzina, meno calcio “champagne” e risultati esaltanti (dei Delneri e Pillon) più raziocinio e “anonimato” da metà classifica (nelle ultime stagioni con Di Carlo, Pioli, ancora Di Carlo e Corini).

Il Verona degli ultimi anni, al contrario, ha vissuto un paradosso: più scendeva di categoria più si nutriva di epicità; più lottava tra la vita e la morte e più rinfoltiva il suo zoccolo duro (i diecimila abbonati della serie C non li aveva mai avuti nemmeno in B). La disperazione come collante, la tragedia come madre di un rinnovato sentimento identitario.

Sarà dunque una stracittadina inedita per Verona, forse la prima con le vere “stimmate” del derby. La speranza perciò è che ne seguano molti altre, chissà, per arrivare un giorno a raggiungere il rango di Milano, Roma, Genova e Torino. C’è la giusta e sana rivalità sportiva tra due fazioni e l’assenza (o la minore presenza) di “terzisti” e “cerchiobottisti” vari. Questo – me lo perdoneranno i puristi del bon ton istituzionale – non è detto per forza che sia un male.      

VUOTO DI POTERE A PALAZZO. E IL VERONA DI SETTI…

Il Milan disinveste e pensa soprattutto “al pareggio di bilancio” (Galliani dixit). Intanto alla corte di Berlusconi, in tutt’altre faccende affaccendato, scoppia la guerra tra la figlia Barbara e lo stesso Galliani.  “Battaglie da retroguardia” le ha definite Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, chiedendosi addirittura se il Milan esista ancora. Esiste in Lega, dove l’amministratore delegato rossonero sa ancora far valere tutto il peso di Berlusconi e di Fininvest nella battaglia per i diritti televisivi. Sull’altra sponda dei Navigli, Moratti cede l’Inter e il nuovo proprietario indonesiano Thohir dichiara di puntare sul low cost dei giovani promettenti. La Juve invece è sempre la Juve, potente e ricca, ma Agnelli Junior non è zio Gianni e nemmeno papà Umberto, Marotta non è Moggi e la Famiglia (leggi John Elkann) sembra più interessata a scalare il Corriere della Sera che la serie A. Avanza il centro-sud: la Roma coi dollari americani, il Napoli con un De Laurentis che ha eletto il pallone ad attività primaria e la stessa Fiorentina di Della Valle, sempre più intimo nei salotti del capitalismo italiano (leggi ancora la battaglia per le quote di via Solferino).

Tuttavia la sensazione è che l’attuale stagione calcistica segni la transizione tra vecchio e nuovo potere calcistico, quindi una momentanea assenza di padroni, con conseguenti possibili benefici anche sulla classe arbitrale. Lo si evince anche dalla battaglia in Lega per la “torta” dei diritti tv, con la storica “Santa Alleanza” tra Milan e Juventus che è un retaggio del passato e con le big divise: da una parte Milan, Napoli e Lazio, dall’altra Juventus, Inter, Roma e Fiorentina (e anche Verona).   

(http://espresso.repubblica.it/inchieste/2013/10/31/news/diritti-tv-cosi-adriano-galliani-e-il-milan-provano-a-comprarsi-la-serie-a-1.139629

Chissà che questo (momentaneo) vuoto di potere non disegni un campionato nel quale valgano esclusivamente i meriti sul campo e non le annose, quanto malcelate, logiche politiche. Chissà, soprattutto, che di questa lieve anarchia non ne possa approfittare anche l’ambizioso Verona di Setti. L’alta quota è più salubre: che ci facciano restare?   

MANDORLINI COME IL PRIMO BAGNOLI?

Sono finiti gli aggettivi e pure i sostantivi per descrivere le gesta di questo Verona. E siccome non sono Gianni Brera e nemmeno Gianni Clerici, non sarò certo io a inventarne di nuovi. Mi bastano quattro parole: organizzazione, qualità, esperienza, gruppo. E piccoli particolari che, forse, danno l’idea di come queste componenti – spesso retoricamente inflazionate – siano poco astratte e molto calzanti nel Verona di Mandorlini.

Agostini che a fine partita rimbrotta Jorginho per essersi scordato Conti nel 2-1 è la fotografia perfetta delle ambizioni di questa squadra. E di quanto incidono negli equilibri di spogliatoio i senatori. “Abbiamo vinto? Non importa, lì dovevi marcare” sembrava rimproverare il vecchio Ago al giovane campioncino brasiliano. L’episodio è confortante: scordatevi una volta per tutte che questo gruppo si culli sugli allori e molli. La rabbia perpetua dei vincenti c’è. Aggiungici l’esempio dei vari Toni, Maietta e Donati, leader riconosciuti. Merito della loro personalità e di Mandorlini che a Verona ha sempre individuato i “suoi” fedelissimi a prescindere dal valore tecnico assoluto e dalle chiacchiere di noi mass media (in questo il mister mi ricorda Lippi).

Sulla qualità poco da aggiungere rispetto a quanto detto le scorse volte. Ne abbiamo in abbondanza e oggi  ce l’ha confermato Jankovic, che a Verona sinora ha fatto poco, ma bene (il gol di oggi e l’assist a Toni col Milan sono due perle). La rosa a disposizione di Mandorlini ha tra i suoi petali tre campioni puri (Toni, Jorginho e Iturbe), un Romulo che poco ci manca, un bravo portiere, tanti talenti forse discontinui ma efficaci (Jankovic, Martinho, Gomez) e giocatori che se stanno bene hanno il loro peso specifico (Donati e Hallfredsson). Altri petali fiorenti (Sala, Cirigliano e Longo), per ovvi motivi, hanno trovato poco spazio, ma credo giocherebbero titolari in almeno altre sei-sette squadre di A.

Sull’organizzazione, anche qui mi devo ripetere, merito di Mandorlini e del suo staff. Con una postilla: il Verona anziché calare, cresce, con buona pace degli autoreferenziali media nazionali che continuano a minimizzare parlando di entusiasmo (che palle!). Cresce perché, fermo restando la qualità, ha puntellato l’organizzazione. La fase difensiva migliora di partita in partita e credo non sia un caso avendo il mister finalmente potuto schierare per due partite consecutive la stessa coppia centrale. Il Verona oggi  ha sofferto poco o niente anche quando è indietreggiato e ha fatto manovrare il Cagliari, che ha segnato al 90’ per uno svarione individuale dettato dalla poca concentrazione di Jorginho. Mandorlini ha spiegato la forza del suo Verona mercoledì sera nel post Sampdoria, con una frase che ai più è passata inosservata: “In ogni partita sappiamo che dobbiamo avere pazienza, non importa quando segniamo, noi dobbiamo continuare a seguire i nostri princìpi di gioco”. Il tutto asserito con una saggia pacatezza da monaco tibetano, che denota una serenità che mancava al mister lo scorso anno e ritrovata grazie alla piena fiducia estiva di Setti e Sogliano.

Fiducia ben riposta. Storico ein plein al Bentegodi (6 su 6), 7 vittorie, 1 pari e 3 sconfitte (ma con Roma, Juventus e Inter) in undici giornate, quinto posto a +7 dal settimo. Cifre da capogiro per una neopromossa. Sono realista e rimango della mia: se parlare di salvezza è ridicolo, aspetterei però a scomodare sogni europei. Siamo da parte sinistra della classifica, dunque da primi dieci posti, questo sì, ma la Fiorentina rimane superiore, forse anche la Lazio e lo stesso Milan può risalire. Non perdiamo di vista la nostra dimensione, anche se mi sovvengono le parole di Nico Penzo al Vighini Show di due settimane fa: “Ci sono delle analogie tra questo Verona e il primo di Bagnoli in A, quello del 1982-83 (che da neopromosso conquistò la zona Uefa, ndr)”. E se lo dice lui…

ADESSO CAPITE PERCHE’ MANDORLINI ERA COSI’ INCAZZATO?

Il Verona è squadra di rango. Questo certifica la vittoria di stasera. Un 2-0 scientifico, figlio della superiorità di Toni & C. nei confronti della Sampdoria. Il Verona ha avuto pazienza, ha comandato gioco e ritmi, messo gradualmente all’angolo i blucerchiati e colpito al momento giusto. Chapeau.

Squadre di pari fascia solo sulla carta, le due. Il campo ha confermato l’impressione che ho da qualche settimana: il Verona può ambire tranquillamente a un campionato da “parte sinistra della classifica”. La lotta per non retrocedere riguarda altre compagini, la Samp appunto.  Quindi non mi sentirete elencare frasi fatte tipo “meno 21 alla salvezza”. E non scriverò che stiamo volando “sulle ali dell’entusiasmo” e nemmeno che trattasi di “miracolo”. Consumati cliché questi, peraltro ingenerosi nei confronti di una società (in primis Sogliano) che ha operato benissimo sul mercato, di un Mandorlini che – dopo un anno di alti e bassi – ha costruito un rapporto titanico con la dirigenza e sta ricevendo adesso, in A, quello che il passato gli ha tolto (il tempo è galantuomo), e di giocatori che hanno poco o nulla da invidiare ai colleghi delle altre squadre.

Un 2-0 perfetto quello di stasera. Per i tre punti (5 su 5 in casa) e per altre due buone nuove: Rafael non ha subìto gol e Hallfredsson è in ripresa (questo non significa che non fosse giusto criticarlo, le alternative sono tante e deve giocare chi sta bene). Una postilla sulla difesa: Maietta si è risentito privatamente per le critiche, lo capisco, anche se lui sa che deve accettarle (fanno parte del gioco e il sottoscritto le ha espresse concedendo i dovuti alibi, leggi infortuni). Ciò detto sono il primo a complimentarmi col capitano e i suoi compagni per la prova di stasera e il primo ad augurarsi che questo sia solo l’inizio e non una felice parentesi. L’ho scritto nei giorni scorsi e lo ripeto: dal miglioramento del reparto arretrato dipendono parte dei destini del Verona, perché se è vero che per caratteristiche la miglior difesa dei gialloblù è l’attacco, non sempre puoi pensare di fare la partita. Difficilmente accadrà, ad esempio, nel momento che un vecchio campione come Toni avrà una fisiologica flessione.

Piccolo rimpianto:  il Verona, per quello che si è visto in queste prime dieci giornate, a San Siro avrebbe potuto fare punti. Adesso capite perché Mandorlini era così incazzato? Lui non solo vuole vincere sempre, ma sa che con questo Verona spesso può succedere. Anche a San Siro.

 

LA MIGLIOR DIFESA? L’ATTACCO

Mi viene da scomodare il Barone. “Se la palla ce l’abbiamo noi gli avversari non possono segnare”, era una delle massime di Nils Liedholm per spiegare che, a volte, la miglior difesa è l’attacco. Il calcio cambia, ma la filosofia che lo contiene è immortale.

Guardando giocare il Verona la sensazione è sempre quella: che dia il meglio quando è spavaldo e coraggioso e vada in difficoltà se sparagnino e timido. Poche ciance: siamo nati per offendere e non per difendere. Lo suggerisce la struttura della squadra e lo confermano le cifre dei gol fatti e subiti. Semplificando: la difesa è l’anello debole, il centrocampo e l’attacco sono i punti forti. L’avevo scritto già dopo la vittoria fortunosa con il Sassuolo, se lasciamo campo agli avversari e ce la giochiamo nell’uno contro uno difensivo, rischiamo di prenderle.

La sconfitta di ieri (che ci sta e non ne facciamo un dramma) conferma questa tendenza. Certo, si potrebbe discutere se inserire assieme Maietta e Moras, reduci da lunghi infortuni, sia stato un azzardo. Probabilmente sì, ma se ci fosse stato Marques credo che Maietta (che era fuori da più tempo) avrebbe aspettato un turno. E Gonzales e Bianchetti? Inutile girarci intorno:  non hanno convinto (sinora a ragione) Mandorlini. Tuttavia è evidente che la coppia centrale, qualsiasi essa sia, è il tallone d’Achille di questa squadra. E qui torniamo a Liedholm: meglio attaccare e sfruttare la forza e la classe di Jorginho, Romulo, Iturbe, Martinho e Toni, o difendere e subire le incertezze di Moras (il meno peggio), Maietta, Gonzales e compagnia? Forse la prima delle due, perché nonostante avessimo di fronte l’Inter – che comunque, con tutto il rispetto non è la Juve e non è la Roma – in zona d’attacco ci siamo fatti rispettare.

Questa è la nota confortante di una serata storta. Assieme alla  bile malcelata di Mandorlini negli spogliatoi, la stessa mostrata in quelli dello Juventus Stadium. La forza del Verona è riassunta nell’inquietudine del suo allenatore, che sa di disporre di una squadra che se la può giocare con (quasi) tutte. Me l’ha confermato Moras al Vighini Show di lunedì: “Il mister crede più di noi giocatori nella nostra forza”.

Nota stonata, l’arbitraggio. Il gol di Toni (sarebbe stato 4-3) era regolare. Branca domenica scorsa ha pianto mezz’ora in diretta tv. Solita Italia. Come diceva spesso Montanelli, che la sapeva lunga su vizi e virtù del Belpaese: “E’ la tecnica consumata del chiagni e fotti“. Tecnica evidentemente che paga ancora.

PIACENZA? PARAGONE RIDICOLO

Il fantasma aleggia. Gira che ti rigira si ritorna sempre lì. Qualche temerario (o forse semplicemente realista?) accenna ad alzare il tiro? Stoppato sul nascere. “Niente illusioni, ricordiamoci della retrocessione con Malesani”. Qualche fustigatore delle frasi fatte butta lì che, sì, forse si può azzardare a qualcosa in più di una salvezza? Zittito, magari con tanto di toccatine agli zebedei più partenopee che scaligere. “Voliamo basso, anche con Malesani…”.

Maledetta retrocessione, quella! Il pomeriggio di Piacenza ci perseguita dal 2002. Comprensibile che il trauma continuasse a riverberarsi nei polverosi anni d’inferno, quelli della C, di Cannella, dello spareggio a Busto, dell’eterno limbo vivere o morire. Meno adesso, che dovremmo solo godercela.

Chiudiamola qua una volta per tutte: il fantasma di Piacenza non esiste più. Troppo diversa, particolare e problematica quell’annata per azzardare qualsivoglia paragone con l’attuale. Mondi diversi, distanti anni luce. Allora subentrarono fattori che col calcio giocato non hanno nulla a che spartire, sia dentro la società, sia (di conseguenza) nello spogliatoio.

All’epoca successe di tutto, in primis il ciclone Parmalat (di dominio pubblico solo qualche anno dopo, ma già in atto) che creò qualche problema anche a Pastorello e generò un distruttivo effetto a catena. Il club non poté rispettare alcuni impegni economici coi giocatori, chiuse con mesi di anticipo le cessioni di alcuni di loro (Camoranesi e Oddo in particolare) e comunicò ad altri che non sarebbero rientrati nei piani futuri. La tempesta perfetta. Così la squadra, convinta di essere salva, inconsciamente mollò sul più bello, salvo annusare il pericolo troppo tardi. Infortuni veri, ma soprattutto presunti, la testa già altrove, una vita poco professionale di qualcuno anche fuori dal campo. “Quell’anno chi ci ha creduto sino all’ultimo sono stati Malesani e Mutu e pochi altri”, racconta in privato chi lavorava nel Verona dell’epoca.

Adesso, capite bene, la situazione è diversa. Setti ha costruito una società strutturata, con un obiettivo: consolidarsi in serie A e crescere. La variabile dipendente del business calcistico di Setti è solo una: restare dove siamo. Rimanendo in A anche Setti trae un vantaggio. A differenza di undici anni fa non dipendiamo da altro (su Volpi solo chiacchiere) e questo ci deve tranquillizzare. Gli stipendi vengono pagati puntualmente, i giocatori in prestito secco (l’unico prestito reale, i prestiti con diritto di riscatto sono possibili acquisti posticipati) sono pochi e molti rientrano nei piani societari anche per i prossimi anni. Risultato? Tra club e tesserati c’è fedeltà. Perciò chiudiamola qua e ragioniamo solo da un punto di vista tecnico. Si può ambire a più di una salvezza, o dipendiamo troppo da Toni? Nutrire qualche obiettivo più prestigioso è possibile, o abbiamo una difesa troppo debole? Ecco queste sono domande razionali, ma esorcizzare fantasmi inesistenti è ridicolo.