LA VIGILIA PIU’ PALLOSA DELLA STORIA

Maurizio Setti, al solito ruspante, la stoccata l’aveva infilata al Vighini Show: “Il Chievo? E’ la monarchia di Sartori”. Dalle parti della Diga però non hanno raccolto. Silenzio. E il Verona non ha rilanciato. Da lì il nulla da ambo le parti: nessun battibecco, zero sfottò, assenza della benché minima polemica (sportiva). Risultato? La vigilia più pallosa della storia, quasi come i predicozzi domenicali di Scalfari e gli editoriali di Polito. Pure la Tamaro è impallidita a fronte delle profusioni di melassa tra Toni e Corini, amici dai tempi di Palermo, o Toni e Dainelli, uno dei nostri “eroi” di Piacenza. Il triangolo no, cantava saggiamente Renato Zero. Ora, non vorrei che si scatenassero guerre di gelosia tra Corini e Dainelli appunto. Il bel tenebroso Thereau, invece, si è limitato a qualche sbadiglio, con quella faccia da fascinoso ed eterno scazzato: non si sa se a causa di Sannino (“non ci trovavo senso nelle cose che proponeva”), o della tiepida Verona (“mi aspettavo più attesa per questo derby”). Speriamo non si risvegli proprio domani. Hanno chiuso il cerchio i sorrisi educati di Corini, meno istrione di Sannino, più in linea col low profile clivense e soprattutto seriamente candidato a contendere a Morandi la palma di “eterno ragazzo”. Oggi parla Mandorlini, ma da quando il politically correct gli ha messo la museruola c’è poco da aspettarsi anche da un sanguigno come il ravennate, che tuttavia ha trovato il suo rimedio alla “censura”: parlare cogli sguardi, spesso sarcastici e taglienti. In mezzo a tutto questo piattume non ci resta che chiuderla qua al più presto e giocare, che poi è il vero senso del calcio. Tutto il resto è noia.     

 

 

QUESTO E’ IL PRIMO VERO DERBY

Non è il derby di dodici anni fa, il primo in serie A. E nemmeno quello del 1994, il primo (in B) in assoluto. Il clima dell’epoca, ecumenico e un po’ asettico da “festa della città”, ha ora lasciato spazio alla rivalità sportiva. Nel 1994, ma anche nel 2001, la Verona non strettamente tifosa si dichiarava neutrale. Adesso l’impressione è che una parte dei cosiddetti “moderati” sia tendenzialmente pro Hellas, quasi che il “fenomeno simpatia” del Chievo si sia via via attenuato col tempo. D’altro canto, il Chievo ha meno sostenitori rispetto ai migliaia che assiepavano il Bentegodi nel 2001-02, ma più tifosi veri, che saranno pochi (in rapporto al Verona), ma senz’altro più appassionati e organizzati in confronto ad allora.

Credo ci sia un paradosso di fondo che spiega la cosa. Il Verona, pur cambiando (dirigenze e categorie), è rimasto se stesso. Il Chievo, pur restando uguale, probabilmente è cambiato. Da un lato è cresciuto divenendo una solida realtà ai massimi livelli professionistici (e questo è un merito non da poco e ha creato lo zoccolo duro), dall’altro la dirigenza forse non ha saputo (o forse non ha voluto, non lo so) sfruttare la popolarità mondiale del periodo della “favola di quartiere” e costruirsi un’immagine e un’identità di club transnazionale e cosmopolita. Avrebbe potuto (o perlomeno potuto tentare di) diventare la squadra “di tutti gli italiani” e, perché no, “di tutti gli europei”. Al contrario, a detta di molti, ha provato a “competere” col Verona nei cuori dei veronesi. L’ambizione però si è rivelata un boomerang, perché ha unito ancor di più i tifosi dell’Hellas e disperso l’ effetto “favola” sul fronte di mezzo. Il resto l’ha fatto il cambio di filosofia societaria attuato da via Galvani dopo la retrocessione del 2007: più pragmatica e meno sbarazzina, meno calcio “champagne” e risultati esaltanti (dei Delneri e Pillon) più raziocinio e “anonimato” da metà classifica (nelle ultime stagioni con Di Carlo, Pioli, ancora Di Carlo e Corini).

Il Verona degli ultimi anni, al contrario, ha vissuto un paradosso: più scendeva di categoria più si nutriva di epicità; più lottava tra la vita e la morte e più rinfoltiva il suo zoccolo duro (i diecimila abbonati della serie C non li aveva mai avuti nemmeno in B). La disperazione come collante, la tragedia come madre di un rinnovato sentimento identitario.

Sarà dunque una stracittadina inedita per Verona, forse la prima con le vere “stimmate” del derby. La speranza perciò è che ne seguano molti altre, chissà, per arrivare un giorno a raggiungere il rango di Milano, Roma, Genova e Torino. C’è la giusta e sana rivalità sportiva tra due fazioni e l’assenza (o la minore presenza) di “terzisti” e “cerchiobottisti” vari. Questo – me lo perdoneranno i puristi del bon ton istituzionale – non è detto per forza che sia un male.      

VUOTO DI POTERE A PALAZZO. E IL VERONA DI SETTI…

Il Milan disinveste e pensa soprattutto “al pareggio di bilancio” (Galliani dixit). Intanto alla corte di Berlusconi, in tutt’altre faccende affaccendato, scoppia la guerra tra la figlia Barbara e lo stesso Galliani.  “Battaglie da retroguardia” le ha definite Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, chiedendosi addirittura se il Milan esista ancora. Esiste in Lega, dove l’amministratore delegato rossonero sa ancora far valere tutto il peso di Berlusconi e di Fininvest nella battaglia per i diritti televisivi. Sull’altra sponda dei Navigli, Moratti cede l’Inter e il nuovo proprietario indonesiano Thohir dichiara di puntare sul low cost dei giovani promettenti. La Juve invece è sempre la Juve, potente e ricca, ma Agnelli Junior non è zio Gianni e nemmeno papà Umberto, Marotta non è Moggi e la Famiglia (leggi John Elkann) sembra più interessata a scalare il Corriere della Sera che la serie A. Avanza il centro-sud: la Roma coi dollari americani, il Napoli con un De Laurentis che ha eletto il pallone ad attività primaria e la stessa Fiorentina di Della Valle, sempre più intimo nei salotti del capitalismo italiano (leggi ancora la battaglia per le quote di via Solferino).

Tuttavia la sensazione è che l’attuale stagione calcistica segni la transizione tra vecchio e nuovo potere calcistico, quindi una momentanea assenza di padroni, con conseguenti possibili benefici anche sulla classe arbitrale. Lo si evince anche dalla battaglia in Lega per la “torta” dei diritti tv, con la storica “Santa Alleanza” tra Milan e Juventus che è un retaggio del passato e con le big divise: da una parte Milan, Napoli e Lazio, dall’altra Juventus, Inter, Roma e Fiorentina (e anche Verona).   

(http://espresso.repubblica.it/inchieste/2013/10/31/news/diritti-tv-cosi-adriano-galliani-e-il-milan-provano-a-comprarsi-la-serie-a-1.139629

Chissà che questo (momentaneo) vuoto di potere non disegni un campionato nel quale valgano esclusivamente i meriti sul campo e non le annose, quanto malcelate, logiche politiche. Chissà, soprattutto, che di questa lieve anarchia non ne possa approfittare anche l’ambizioso Verona di Setti. L’alta quota è più salubre: che ci facciano restare?   

MANDORLINI COME IL PRIMO BAGNOLI?

Sono finiti gli aggettivi e pure i sostantivi per descrivere le gesta di questo Verona. E siccome non sono Gianni Brera e nemmeno Gianni Clerici, non sarò certo io a inventarne di nuovi. Mi bastano quattro parole: organizzazione, qualità, esperienza, gruppo. E piccoli particolari che, forse, danno l’idea di come queste componenti – spesso retoricamente inflazionate – siano poco astratte e molto calzanti nel Verona di Mandorlini.

Agostini che a fine partita rimbrotta Jorginho per essersi scordato Conti nel 2-1 è la fotografia perfetta delle ambizioni di questa squadra. E di quanto incidono negli equilibri di spogliatoio i senatori. “Abbiamo vinto? Non importa, lì dovevi marcare” sembrava rimproverare il vecchio Ago al giovane campioncino brasiliano. L’episodio è confortante: scordatevi una volta per tutte che questo gruppo si culli sugli allori e molli. La rabbia perpetua dei vincenti c’è. Aggiungici l’esempio dei vari Toni, Maietta e Donati, leader riconosciuti. Merito della loro personalità e di Mandorlini che a Verona ha sempre individuato i “suoi” fedelissimi a prescindere dal valore tecnico assoluto e dalle chiacchiere di noi mass media (in questo il mister mi ricorda Lippi).

Sulla qualità poco da aggiungere rispetto a quanto detto le scorse volte. Ne abbiamo in abbondanza e oggi  ce l’ha confermato Jankovic, che a Verona sinora ha fatto poco, ma bene (il gol di oggi e l’assist a Toni col Milan sono due perle). La rosa a disposizione di Mandorlini ha tra i suoi petali tre campioni puri (Toni, Jorginho e Iturbe), un Romulo che poco ci manca, un bravo portiere, tanti talenti forse discontinui ma efficaci (Jankovic, Martinho, Gomez) e giocatori che se stanno bene hanno il loro peso specifico (Donati e Hallfredsson). Altri petali fiorenti (Sala, Cirigliano e Longo), per ovvi motivi, hanno trovato poco spazio, ma credo giocherebbero titolari in almeno altre sei-sette squadre di A.

Sull’organizzazione, anche qui mi devo ripetere, merito di Mandorlini e del suo staff. Con una postilla: il Verona anziché calare, cresce, con buona pace degli autoreferenziali media nazionali che continuano a minimizzare parlando di entusiasmo (che palle!). Cresce perché, fermo restando la qualità, ha puntellato l’organizzazione. La fase difensiva migliora di partita in partita e credo non sia un caso avendo il mister finalmente potuto schierare per due partite consecutive la stessa coppia centrale. Il Verona oggi  ha sofferto poco o niente anche quando è indietreggiato e ha fatto manovrare il Cagliari, che ha segnato al 90’ per uno svarione individuale dettato dalla poca concentrazione di Jorginho. Mandorlini ha spiegato la forza del suo Verona mercoledì sera nel post Sampdoria, con una frase che ai più è passata inosservata: “In ogni partita sappiamo che dobbiamo avere pazienza, non importa quando segniamo, noi dobbiamo continuare a seguire i nostri princìpi di gioco”. Il tutto asserito con una saggia pacatezza da monaco tibetano, che denota una serenità che mancava al mister lo scorso anno e ritrovata grazie alla piena fiducia estiva di Setti e Sogliano.

Fiducia ben riposta. Storico ein plein al Bentegodi (6 su 6), 7 vittorie, 1 pari e 3 sconfitte (ma con Roma, Juventus e Inter) in undici giornate, quinto posto a +7 dal settimo. Cifre da capogiro per una neopromossa. Sono realista e rimango della mia: se parlare di salvezza è ridicolo, aspetterei però a scomodare sogni europei. Siamo da parte sinistra della classifica, dunque da primi dieci posti, questo sì, ma la Fiorentina rimane superiore, forse anche la Lazio e lo stesso Milan può risalire. Non perdiamo di vista la nostra dimensione, anche se mi sovvengono le parole di Nico Penzo al Vighini Show di due settimane fa: “Ci sono delle analogie tra questo Verona e il primo di Bagnoli in A, quello del 1982-83 (che da neopromosso conquistò la zona Uefa, ndr)”. E se lo dice lui…

ADESSO CAPITE PERCHE’ MANDORLINI ERA COSI’ INCAZZATO?

Il Verona è squadra di rango. Questo certifica la vittoria di stasera. Un 2-0 scientifico, figlio della superiorità di Toni & C. nei confronti della Sampdoria. Il Verona ha avuto pazienza, ha comandato gioco e ritmi, messo gradualmente all’angolo i blucerchiati e colpito al momento giusto. Chapeau.

Squadre di pari fascia solo sulla carta, le due. Il campo ha confermato l’impressione che ho da qualche settimana: il Verona può ambire tranquillamente a un campionato da “parte sinistra della classifica”. La lotta per non retrocedere riguarda altre compagini, la Samp appunto.  Quindi non mi sentirete elencare frasi fatte tipo “meno 21 alla salvezza”. E non scriverò che stiamo volando “sulle ali dell’entusiasmo” e nemmeno che trattasi di “miracolo”. Consumati cliché questi, peraltro ingenerosi nei confronti di una società (in primis Sogliano) che ha operato benissimo sul mercato, di un Mandorlini che – dopo un anno di alti e bassi – ha costruito un rapporto titanico con la dirigenza e sta ricevendo adesso, in A, quello che il passato gli ha tolto (il tempo è galantuomo), e di giocatori che hanno poco o nulla da invidiare ai colleghi delle altre squadre.

Un 2-0 perfetto quello di stasera. Per i tre punti (5 su 5 in casa) e per altre due buone nuove: Rafael non ha subìto gol e Hallfredsson è in ripresa (questo non significa che non fosse giusto criticarlo, le alternative sono tante e deve giocare chi sta bene). Una postilla sulla difesa: Maietta si è risentito privatamente per le critiche, lo capisco, anche se lui sa che deve accettarle (fanno parte del gioco e il sottoscritto le ha espresse concedendo i dovuti alibi, leggi infortuni). Ciò detto sono il primo a complimentarmi col capitano e i suoi compagni per la prova di stasera e il primo ad augurarsi che questo sia solo l’inizio e non una felice parentesi. L’ho scritto nei giorni scorsi e lo ripeto: dal miglioramento del reparto arretrato dipendono parte dei destini del Verona, perché se è vero che per caratteristiche la miglior difesa dei gialloblù è l’attacco, non sempre puoi pensare di fare la partita. Difficilmente accadrà, ad esempio, nel momento che un vecchio campione come Toni avrà una fisiologica flessione.

Piccolo rimpianto:  il Verona, per quello che si è visto in queste prime dieci giornate, a San Siro avrebbe potuto fare punti. Adesso capite perché Mandorlini era così incazzato? Lui non solo vuole vincere sempre, ma sa che con questo Verona spesso può succedere. Anche a San Siro.

 

LA MIGLIOR DIFESA? L’ATTACCO

Mi viene da scomodare il Barone. “Se la palla ce l’abbiamo noi gli avversari non possono segnare”, era una delle massime di Nils Liedholm per spiegare che, a volte, la miglior difesa è l’attacco. Il calcio cambia, ma la filosofia che lo contiene è immortale.

Guardando giocare il Verona la sensazione è sempre quella: che dia il meglio quando è spavaldo e coraggioso e vada in difficoltà se sparagnino e timido. Poche ciance: siamo nati per offendere e non per difendere. Lo suggerisce la struttura della squadra e lo confermano le cifre dei gol fatti e subiti. Semplificando: la difesa è l’anello debole, il centrocampo e l’attacco sono i punti forti. L’avevo scritto già dopo la vittoria fortunosa con il Sassuolo, se lasciamo campo agli avversari e ce la giochiamo nell’uno contro uno difensivo, rischiamo di prenderle.

La sconfitta di ieri (che ci sta e non ne facciamo un dramma) conferma questa tendenza. Certo, si potrebbe discutere se inserire assieme Maietta e Moras, reduci da lunghi infortuni, sia stato un azzardo. Probabilmente sì, ma se ci fosse stato Marques credo che Maietta (che era fuori da più tempo) avrebbe aspettato un turno. E Gonzales e Bianchetti? Inutile girarci intorno:  non hanno convinto (sinora a ragione) Mandorlini. Tuttavia è evidente che la coppia centrale, qualsiasi essa sia, è il tallone d’Achille di questa squadra. E qui torniamo a Liedholm: meglio attaccare e sfruttare la forza e la classe di Jorginho, Romulo, Iturbe, Martinho e Toni, o difendere e subire le incertezze di Moras (il meno peggio), Maietta, Gonzales e compagnia? Forse la prima delle due, perché nonostante avessimo di fronte l’Inter – che comunque, con tutto il rispetto non è la Juve e non è la Roma – in zona d’attacco ci siamo fatti rispettare.

Questa è la nota confortante di una serata storta. Assieme alla  bile malcelata di Mandorlini negli spogliatoi, la stessa mostrata in quelli dello Juventus Stadium. La forza del Verona è riassunta nell’inquietudine del suo allenatore, che sa di disporre di una squadra che se la può giocare con (quasi) tutte. Me l’ha confermato Moras al Vighini Show di lunedì: “Il mister crede più di noi giocatori nella nostra forza”.

Nota stonata, l’arbitraggio. Il gol di Toni (sarebbe stato 4-3) era regolare. Branca domenica scorsa ha pianto mezz’ora in diretta tv. Solita Italia. Come diceva spesso Montanelli, che la sapeva lunga su vizi e virtù del Belpaese: “E’ la tecnica consumata del chiagni e fotti“. Tecnica evidentemente che paga ancora.

PIACENZA? PARAGONE RIDICOLO

Il fantasma aleggia. Gira che ti rigira si ritorna sempre lì. Qualche temerario (o forse semplicemente realista?) accenna ad alzare il tiro? Stoppato sul nascere. “Niente illusioni, ricordiamoci della retrocessione con Malesani”. Qualche fustigatore delle frasi fatte butta lì che, sì, forse si può azzardare a qualcosa in più di una salvezza? Zittito, magari con tanto di toccatine agli zebedei più partenopee che scaligere. “Voliamo basso, anche con Malesani…”.

Maledetta retrocessione, quella! Il pomeriggio di Piacenza ci perseguita dal 2002. Comprensibile che il trauma continuasse a riverberarsi nei polverosi anni d’inferno, quelli della C, di Cannella, dello spareggio a Busto, dell’eterno limbo vivere o morire. Meno adesso, che dovremmo solo godercela.

Chiudiamola qua una volta per tutte: il fantasma di Piacenza non esiste più. Troppo diversa, particolare e problematica quell’annata per azzardare qualsivoglia paragone con l’attuale. Mondi diversi, distanti anni luce. Allora subentrarono fattori che col calcio giocato non hanno nulla a che spartire, sia dentro la società, sia (di conseguenza) nello spogliatoio.

All’epoca successe di tutto, in primis il ciclone Parmalat (di dominio pubblico solo qualche anno dopo, ma già in atto) che creò qualche problema anche a Pastorello e generò un distruttivo effetto a catena. Il club non poté rispettare alcuni impegni economici coi giocatori, chiuse con mesi di anticipo le cessioni di alcuni di loro (Camoranesi e Oddo in particolare) e comunicò ad altri che non sarebbero rientrati nei piani futuri. La tempesta perfetta. Così la squadra, convinta di essere salva, inconsciamente mollò sul più bello, salvo annusare il pericolo troppo tardi. Infortuni veri, ma soprattutto presunti, la testa già altrove, una vita poco professionale di qualcuno anche fuori dal campo. “Quell’anno chi ci ha creduto sino all’ultimo sono stati Malesani e Mutu e pochi altri”, racconta in privato chi lavorava nel Verona dell’epoca.

Adesso, capite bene, la situazione è diversa. Setti ha costruito una società strutturata, con un obiettivo: consolidarsi in serie A e crescere. La variabile dipendente del business calcistico di Setti è solo una: restare dove siamo. Rimanendo in A anche Setti trae un vantaggio. A differenza di undici anni fa non dipendiamo da altro (su Volpi solo chiacchiere) e questo ci deve tranquillizzare. Gli stipendi vengono pagati puntualmente, i giocatori in prestito secco (l’unico prestito reale, i prestiti con diritto di riscatto sono possibili acquisti posticipati) sono pochi e molti rientrano nei piani societari anche per i prossimi anni. Risultato? Tra club e tesserati c’è fedeltà. Perciò chiudiamola qua e ragioniamo solo da un punto di vista tecnico. Si può ambire a più di una salvezza, o dipendiamo troppo da Toni? Nutrire qualche obiettivo più prestigioso è possibile, o abbiamo una difesa troppo debole? Ecco queste sono domande razionali, ma esorcizzare fantasmi inesistenti è ridicolo.  

    

L’ATTO D’AMORE DI MARTINELLI

La storia di Giovanni Martinelli al Verona nasce il 30 gennaio del 2009 da un atto d’amore. Quello per suo figlio Diego, morto dieci anni prima in un incidente stradale e tifoso dell’Hellas. Giovanni Martinelli comprò il Verona, dopo una lunga rincorsa (ci provò già ai tempi di Pastorello), proprio in omaggio al figlio scomparso. Parto da qui, perché questo spiega molte cose avvenute poi. Spiega la tenacia e la costanza con cui Martinelli tirò fuori dalle secche (finanziarie e sportive) il club. L’irrazionalità per cui un imprenditore così oculato potesse sborsare fior di quattrini per una società di calcio dissestata e di cui, sino ad allora, non era stato neppure granché tifoso. La ribellione alla fusione col Chievo, che in un primo momento avallò, salvo poi far saltare il tavolo a cose (praticamente) fatte.

C’è un emozionante contrasto nella storia di Martinelli al Verona. L’amore per il club che di giorno in giorno cresceva man mano che la malattia debilitava e rimpiccioliva il suo corpo. Una storia di presenza e di coraggio. Il coraggio di mostrarsi in pubblico nonostante il visibile male: un gesto non banale per uno come lui, abituato a comandare e non certo a farsi compatire. Un gesto che nella sua essenza spiega tutto del personaggio: la missione, lo scopo erano più importanti di qualsiasi narcistica vanità.

Martinelli (forse) è stato il presidente più importante della storia del Verona. (Forse) più di Giorgio Mondadori, il patron della prima serie A. (Forse) più del mitico Saverio Garonzi, l’uomo che lanciò il Verona stabilmente ai massimi livelli. (Forse) addirittura più di Tino Guidotti, il presidente dello scudetto (ma il proprietario era Nando Chiampan). Certo, l’uomo di Sandrà – tanto minuto nel fisico e bonario nei modi, quanto deciso e determinato nella tempra – il Verona non l’ha portato al tricolore e neppure in serie A, ha “solo” (si fa per dire) compiuto un miracolo che non risulterà mai in nessun albo d’oro: l’ha salvato da morte certa.

Quando nel gennaio del 2009 Martinelli acquistò il Verona dal povero Arvedi, infatti, il club era praticamente in bancarotta, privo di liquidità in cassa, spogliato nel patrimonio (i giocatori erano quasi tutti in prestito) e sommerso dai debiti. Martinelli tentato inizialmente dalle sirene della fusione (un desiderio più subìto che voluto a onor del vero), si fece perdonare cogli interessi: azzerò i debiti e spese fior di quattrini per farci uscire dall’inferno della serie C. Ci riuscì al secondo tentativo (dopo che il fallimento del primo avrebbe ammazzato un toro), coadiuvato dalla bravura di Mauro Gibellini (subentrato al borioso Bonato) e soprattutto dal carisma e dalla “follia” incazzata di un Andrea Mandorlini all’epoca con le stimmate del Savonarola.

Martinelli stabilizzò il Verona in cadetteria, gettando le basi societarie e tecniche (blindò Rafael, Maietta, Jorginho, Gomez, Hallfredsson e lo stesso Mandorlini) per il salto in A, poi avvenuto grazie a Setti e Sogliano. Come tutti i grandi, quelli autentici (Lucio Battisti, Mina, Edberg, Platini, Prost), Martinelli ha saputo fermarsi al momento giusto, ne prima ne dopo. Un po’ la malattia che già avanzava, un po’ l’orizzonte di nuovi investimenti per lui insostenibili, capì che non poteva dare di più a una piazza che agognava la serie A. L’ultimo suo capolavoro è stato il congedo, cioè scegliere a chi cedere (Setti) e come (tenendosi il 10% delle quote per qualche mese, come garanzia morale).   

Si è guadagnato la posterità in eterno, Martinelli. Riposi in pace e felice, ha vissuto per lasciare il segno. Non lo dimenticheremo.

SETTI “BLINDI” SOGLIANO

L’intuizione più importante di Maurizio Setti, da presidente del Verona, è stata la prima. Ingaggiare Sean Sogliano. Il ds è l’uomo forte del Verona, probabilmente il principale artefice della promozione in serie A e del felice momento gialloblù. Lui non lo ammetterà mai, ovvio. Chi è bravo davvero non lo dice, eppoi Sogliano è un personaggio naif, anche fisicamente. Quello sguardo da bel tenebroso che piace tanto alle donne, infatti, è più da Centovetrine che da star hollywoodiana. Mentre le gambe vistosamente storte (stile ispettore Zenigata di Lupin), unite a una statura media e un fisico non troppo slanciato, lo allontanano in via definitiva dal rischio di sembrare un altero manager impettito.

Modesto, concreto e minimalista, Sogliano appare poco, ma è molto. Non ha l’ego smisurato di Mandorlini e nemmeno lo yuppismo rampante di Setti. Non ha neppure l’eleganza, il fine eloquio e l’espressione marmorea dell’altro direttore  gialloblù, il cardinalizio e cosmopolita Gardini. Le cravatte lui le soffre proprio (le porta di rado e sfilacciate), le interviste pure. Alcune sue conferenze stampa rimangono leggendarie, tra inglesismi declinati alla maccheronica (auzzaider), congiuntivi inesistenti, ma soprattutto la percepibile irrequietudine nel trovarsi lì, imprigionato a un rigido protocollo.

Sogliano – ex discreto difensore negli anni ‘90 e figlio di Riccardo, a sua volta ex giocatore (del grande Milan di Rocco e Rivera) e dirigente – è infatti un cavallo che ama galoppare libero. Senza briglie e altre imposizioni che non siano il budget (quello lo decide Setti). “Il presidente mi ha dato carta bianca, a differenza di altri” raccontò una volta. Gli “altri” sarebbero  Zamparini, che lo imbrigliò ai tempi di Palermo costringendolo a precoci dimissioni. “Ho stracciato tre anni di un ottimo contratto e rinunciato alla serie A, perché non potevo lavorare come volevo io. Non sono attaccato ai contratti e ai soldi, se non sento piena fiducia mi faccio da parte e tolgo il disturbo. Non si sta in paradiso a dispetto dei santi, questo principio lo applico anche a miei giocatori e allenatori” confessò a un Vighini Show. Un atto rivoluzionario nel Paese dove non si dimette mai nessuno.

Sogliano è un direttore sportivo anomalo nel calcio moderno. All’antica. Frequenta gli allenamenti e va in panchina, quando gli altri suoi colleghi girano l’Italia e il mondo tutto l’anno. I viaggi di lavoro lui li concentra in periodi circoscritti, soprattutto in estate. “Mi ispiro ai vecchi ds di una volta, quelli che stavano nello spogliatoio, vivevano la squadra, sedevano in panchina e supportavano quotidianamente l’allenatore. Quando mi hai definito badante mi hai fatto un complimento”, mi disse tempo fa. Nonostante sia uno degli uomini mercato più giovani, è già il “re” del Sudamerica (Iturbe e Cirigliano non li porti al Verona se non hai relazioni privilegiate). Il suo metodo di lavoro è tracciato. Non potendo il Verona  (come generalmente le piccole-medie società) contare su una fitta rete mondiale di osservatori, Sogliano ha la sua cerchia di intermediari e procuratori fidati, che gli segnalano i giocatori più interessanti secondo il budget indicato. Dopodiché va a vederli e, se gli piacciono, prova a ingaggiarli. Così sono arrivati Gonzalez, Marques, Cirigliano e Iturbe.

Le accuse che gli muovono i (pochi) detrattori sono essenzialmente due: l’anno scorso, nonostante la promozione, ha sbagliato diversi acquisti e ogni anno cambia troppo. La prima è in parte vera: Rivas, Carrozza, Grossi e Fatic (Bojinov e Crespo sono scelte presidenziali) hanno deluso, d’altro canto Cacciatore, Moras, Agostini, Laner, Martinho e Cacia (scusate se è poco) sono stati gli artefici del salto di qualità. “Cambiare tanto invece è stata sempre una necessità da quando sono a Verona”, mi ha detto la scorsa estate. “Il primo anno c’era da rimettere mano a una squadra che aveva fatto bene, ma aveva dato tutto, allora abbiamo portato giocatori forti per la B, pronti a vincere, così da andare sul sicuro. Per lo stesso motivo, appunto l’aver ingaggiato molti giocatori da B, quest’anno abbiamo dovuto cambiare ancora”.

L’importante è che non si sia costretti a cambiare lui. Sogliano può aprire un ciclo a Verona (va in scadenza nel 2015). Setti lo blindi.

P.S. Sogliano ovviamente va in scadenza nel 2015 avendo a giugno 2012 firmato un contratto triennale, come confermò lo stesso Setti al Vighini show del maggio scorso, a cui ero presente. Ho corretto lo sbaglio e me ne scuso coi lettori. E’ chiaro che la sostanza dell’articolo non cambia, dal momento che i contratti al giorno d’oggi non valgono in senso assoluto e che Sogliano è un ds emergente e già ambìto. “Blindarlo”, al di là di un eventuale prolungamento, significa continuare coi progetti ambiziosi che sembrano esserci.

 

MASSIMO FINI: “L’AGGRESSIVITA’ E’ PREZIOSA. ELIMINARLA E’ UN PERICOLO”

Copio e incollo un articolo di Massimo Fini uscito ieri sul Fatto Quotidiano. Non aggiungo altro

“Questa storia del Milan il cui campo è stato squalificato per un turno per ‘discriminazione territoriale’ perchè a Torino, durante la partita con la Juve, i tifosi rossoneri cantavano cori antinapoletani («Noi non siamo napoletani», embè?) non è solo grottesca, è pericolosa. Perchè in questa società che nella sua smania di ‘politically correct’ tende a reprimere tutti gli istinti e anche i sentimenti, come l’odio (vedi tutti i reati liberticidi previsti dalla legge Mancino cui adesso si è aggiunta anche l’omofobia per cui uno non puo’ più dare del ‘finocchio’ a un finocchio senza andare in galera) a favore di un’astratta razionalità, ci si è dimenticati che l’aggressività fa parte della vitalità e che volerla eliminare del tutto ha gravi conseguenze.

La prima è di svilirizzare un popolo. E questo è il motivo per cui noi ci troviamo tanto in difficoltà con gli immigrati soprattutto di origine slava che la violenza ce l’hanno, beati loro, nel sangue («Un po’ di violenza non fa mai mal/leggi un romanzo di Mickey Spillane» era uno slogan di anni un po’ meno codini dei nostri). La seconda è che a furia di reprimerla l’aggressività poi esplode in forme mostruose, molto meno innocue di un coro da stadio. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra lo sapevano e il loro sforzo è stato quello di canalizzare la violenza in modo da poterla controllare e tenerla entro la soglia di una ragionevole tollerabilità. I neri africani, maestri del genere prima che l’Occidente ne violentasse le culture, si erano inventati la guerra ‘finta’ (chiamata fra i Bambara rotana per distinguerla dalla diembi la guerra vera), levando le alette dalle frecce in modo da rendere il tiro impreciso e innocuo, la festa orgiastica. Fra gli Ashanti, tribù, un tempo, molto bellicosa, c’era una settimana in cui tutti potevano insultare a sangue chiunque, anche il re, senza conseguenze. Poi tutto rientrava nella normalità. In fondo anche il Carnevale europeo, finchè è stato tale, aveva questa funzione di sfogo. Fra i Greci il meteco, il ‘capro espiatorio’ che veniva sacrificato quando in città si creavano tensioni pericolose, aveva il significativo nome di pharmakos.

In tempi moderni lo stadio aveva fra le sue funzioni, non marginali, quella di canalizzare e rendere sostanzialmente innocue l’aggressività e la violenza che devono essere, entro certi limiti, tollerate, sugli spalti e in campo. Altrimenti si finisce con ‘i delitti delle villette a schiera’ come li chiama Ceronetti. In Sampdoria-Torino ho visto l’arbitro, Gervasoni, appioppare otto ammonizioni per contrasti che un tempo non sarebbero stati considerati nemmeno falli. Il campo di calcio è stato trasformato in una sorta di ‘tea party’. La Tv ha completato il tutto (sono stati quei morbosi segaioli di Sky a cogliere un coro che nessuno aveva sentito). Un calciatore che ha ricevuto un pestone tremendo non puo’ nemmeno urlare una sacrosanta bestemmia, che l’arbitro non ha sentito o ha saggiamente ignorato, che, zac, la moviola la traduce sul labiale. La Tv ha invaso il sacrario. Basta, via, raus, foera de ball. Ridateci il calcio di una volta. «Un po’ di violenza non fa mai mal».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2013