CARO HELLAS, SENZA IL GIOCO BASTA IL CUORE

“Francé devi tirà in porta con ‘sto ciuccio de portiere”, mi urlava indemoniato il Gigi, con voce calda da fumatore, fisico appesantito da ex militare e baffo intimidatorio. Seguivano come un rosario, bestemmie e improperi in stretto dialetto molisano quale blasfemo condimento. L’ho pensato il mio mister degli allievi ieri sera, il quale rinvangava sino alla noia pure i suoi trascorsi in serie C e millantava la sua cultura classica (leggasi sopra). Chissà che avrebbe detto a Cacia & C. al cospetto di Fiorillo, portiere a tratti imbarazzante (si veda il gol di Martinho preso sul suo palo), eppure ieri sera quasi inoperoso, se si eccettua un tiro fotocopia dello stesso Martinho poco dopo il gol, la punizione centrale di Laner dai venti metri e poco altro.

Hai voglia di recriminare, ma recriminare cosa? Il Verona ha giocato l’ultima mezz’ora con un uomo in più senza concludere uno straccio di tiro in porta contro l’esangue e stremato Livorno, che comprensibilmente ha festeggiato il punto come uno scudetto. Molti cross da trequarti, molte palle sporche in area, grande intensità ma poche idee e ancor meno lucidità nell’eseguire quelle poche, tra un Cacia dormiente su due palloni facili, il “mediano” Gomez impalpabile (toglierli mai?) e la solita dipendenza dalle sortite individuali di Martinho, dalla luna instabile di Halfredsson e dalla regia di Jorginho.

Ma il Verona è questo, ormai lo conosciamo: molta qualità individuale, ottima organizzazione difensiva, ma poco gioco negli ultimi 30 metri. E incapacità cronica di  cambiare le situazioni tattiche in base all’evoluzione della partita (leggasi ingresso tardivo di Ferrari dopo l’espulsione di Duncan). Intransigenza tout court, insomma, alla faccia del camaleontismo del calcio moderno. Chi ha visto Prandelli e Ficcadenti (cito non caso gli allenatori che hanno fatto campionati di vertice in B) ha motivi di capire perché il Verona segna poco ed entusiasma ancora meno. Chi conosce la carriera, le caratteristiche e le personalità di Gomez, Rivas, Carrozza (le tre grandi delusioni della stagione), coglie anche i motivi tattici e i risvolti psicologici per cui, chi l’uno chi l’altro, non stanno rendendo secondo le aspettative, le loro capacità tecniche e il loro valore di mercato estivo (adesso deprezzato). Chi ragiona laicamente e non ammorbato dall’amore cieco (“La ballata dell’amore cieco” di De Andrè potrebbe insegnare qualcosa ai secondi) forse capisce le difficoltà di una squadra costruita per attaccare e allenata da un difensivista e, viceversa, le difficoltà di allenatore che ama i marcantoni da spadone, soldati da trincea e contropiede corsaro fedeli alla causa, e si ritrova invece talentuosi anarchici da fioretto sofferenti ai tatticismi.

Tuttavia ormai è difficile cambiare pelle a 11 partite dalle fine. Dunque è necessario vedere il bicchiere mezzo pieno, se non altro per professione di fede (gialloblù). Detto del gioco latitante, il Verona è migliorato nell’aspetto agonistico. Ieri ci ha messo cuore e polmoni fino alla fine, seguendo l’appello di Sogliano “giochiamo da outsider” (appello grottesco solo per chi non conosce le cose “interne” al Verona). Questo potrebbe essere sufficiente contro un Livorno che è più scarso, che rimane solo a due punti di distanza e che – cosa non da sottovalutare – mi è sembrato un po’ alla “canna del gas” (anche se l’essere uscito indenne dal Bentegodi può ringalluzzirlo). Basta poco, per dirla alla Vasco, data la mediocrità generale, ma quel “poco” (cioè l’agonismo) va messo sempre e non solo nei big match, e per 90 minuti. 11 gare, 23 punti da raccogliere. La serie A passa da quelli.

 

IL VERONA VINCE SE SOTTOPRESSIONE

L’ennesima controprova la si è avuta ieri a Grosseto: il Verona e Mandorlini rendono di più  se sottopressione. I gialloblù, quest’anno, non hanno mai sbagliato le partite “spartiacque”, quelle giocate a termine di settimane “chiacchierate”, nelle quali la critica – solitamente all’acqua di rose qui a Verona rispetto ad altre piazze calde, come ben ha sottolineato giovedì scorso al “Vighini Show” Giovanni Vitacchio – era stata un po’ meno tiepida e più pressante ed aveva messo in discussione società, allenatore e giocatori. E, soprattutto, la stessa la società aveva messo sotto la lente di ingrandimento il lavoro dell’allenatore e il rendimento della squadra.

“Troppi complimenti fanno male” disse a suo tempo Maurizio Setti parlando della sua idea di azienda e di società calcistica. Ha ragione. Io aggiungo che la cortigianeria, la libertà di applauso non fanno bene. Rilassano. Il Verona è il Verona, ha storia, tradizione, passione e di conseguenza aspettative. Ed è stato costruito per vincere, col primo budget della serie B per stipendi e valore di mercato (in estate) di giocatori e staff tecnico.  Allenatore e giocatori dunque non devono abbassare la guardia proprio ora, alla vigilia della partita più importante  e, peggio, bearsi di questi tre punti. Non deve farlo soprattutto la critica, i media, che hanno il dovere di fare la parte del poliziotto cattivo e sono lì per ricordare la realtà. Abbiamo vinto con l’ultima in classifica (che ha battuto il Sassuolo in casa sua, lo so bene, ma è pur sempre il fanalino di coda, ricordiamolo, sennò poi ci gasiamo) e ad oggi, a 12 partite dalla fine, saremmo ancora ai play off, quindi sotto l’obiettivo prefissato.

Venerdì col Livorno Maietta & C. dovranno pensare proprio a questo. Non hanno fatto ancora niente, ma si può cominciare a farlo. Andiamo a prenderci il secondo posto, è il momento è giusto. La serie A è lì a due passi.

TUTTI COLPEVOLI, TRANNE UNO

Allucinazioni di un lunedì sera. Figure oniriche da togliere il sonno. Non posso giocare nemmeno all’artista maledetto, chessò mettere in mezzo John Lennon, i Beatles e LSD. Non ci azzecca nemmeno la Beat Generation e il William Burroughs di Pasto Nudo. Eppoi ieri ho bevuto solo acqua e la vita d’artista non fa per me. Eppure durante di Verona-Padova sono stato pervaso da ombre e visioni del tutto soggettive.

Ho visto il primo guardalinee della storia vestito di gialloblù, peraltro senza bandierina. Alessandro Sgrigna della “sezione” di Roma, mi pare fosse, non pervenuto in quel ruolo. Tanto vale gli facessero fare il “quarto uomo” in panchina. Che si sentisse orfano della bandierina? Pare di sì, mi ha suggerito una vocina tendenziosa e sicuramente “disfattista” della mia mente alienata. Sembra infatti gliel’abbia ceduta, ben volentieri peraltro, Juanito Gomez, un po’ più intraprendente del solito, e disobbediente  – per una sera e non troppo sia chiaro – all’amaro esilio della sua Sant’Elena, la fascia destra. In esilio stavolta c’è finito Martinho, ma da sinistra, confinato in terza linea come un novello Silvio Pellico con le sue prigioni. Il trip è salito nel vedere Cacia camminare per tutta la partita, inerme sulle palle alte e vaganti come un omino del subbuteo. Non può essere, mi son detto, i calciatori in campo corrono, saltano, anticipano. Certo se sono sani, ma è un dettaglio da poco e poi non lo diceva anche Liedholm? “In dieci si gioca meglio che in undici”. Mandorlini romanticamente devoto al calcio anni ’80 deve averlo preso alla lettera il Barone. Altro che Trap! Ma l’up allucinogeno è stato scoprire che le partite durano 45’ e non più 90’. Nel mio match parallelo e sicuramente improponibile, il Verona il secondo tempo non l’ha proprio giocato, dopo aver costruito nel primo almeno cinque palle gol, al cospetto di una difesa padovana a tratti imbarazzante.

Fortunatamente sono state solo allucinazioni. In realtà siamo stati al solito sfortunati, e “se finisci il primo tempo in vantaggio 2-0 c’è poco da dire”, quindi di che ci lamentiamo? Del resto “Cacia sta benissimo, è carico” (Bordin alla vigilia), il “campionato è ancora lungo” (lo sarà anche a maggio?) e “i play off non si faranno”. E comunque è colpa di “Sassuolo e Livorno che stanno andando oltre le aspettative”, o meglio “di Sogliano che parla e di Setti che non parla”, di più “dei giocatori senza palle”, oppure di “Cacia mercenario” (giuro letta anche questa), colpevole senz’altro di aver fatto 15 gol tutti decisivi (è una grossa colpa, c’è da giurarlo) e di giocare con le infiltrazioni. Anzi i veri colpevoli sono i giornalisti “disfattisti” (termine da Mini.Cul.Pop), che “destabilizzano l’ambiente”, perché poi i tifosi poverini “si fanno idee strane” (cit. Moras, che deve avere una certa considerazione dell’intelligenza dei tifosi).

Insomma tutti colpevoli. Tutti, tranne uno. Indovinate chi?

IL VERONA VINCE, MA NON CONVINCE

Massimo risultato col minimo sforzo. Così, i vecchi cronisti, definivano le vittorie sparagnine. Il Verona di Bari non ha entusiasmato sul piano del gioco (e non è una novità), ma ha vinto e questo, alle soglie della primavera, è ciò che più conta. Verona spento e con poche idee fino al gol, realizzato alla prima sortita degna di nota dal redivivo Martinho (quanto ci è mancato!). L’1-0 ha sbloccato i gialloblù,  che avrebbero potuto chiudere la partita già prima del riposo, per manifesta superiorità. Nella ripresa gli annosi problemi di una linea difensiva che si “abbassa”, di un Verona che si fa rubare campo dagli avversari e va in difficoltà. Fortunatamente la pochezza del modestissimo Bari ha permesso di limitare i danni, sino al raddoppio sul finire del match.

Note positive. Innanzitutto i tre punti rosicchiati a un Livorno ufficialmente in crisi, in attesa dello scontro diretto del 15 marzo. Il recupero di Martinho, inspiegabilmente in panchina a Novara. L’ex Catania con Jorginho è il giocatore più forte del Verona, imprescindibile dovunque lo metti, perché escluderlo? La crescita di Albertazzi, giocatore di sicuro avvenire, e la sicurezza di Ceccarelli, che quest’anno non è da meno (anzi) di Maietta. Infine l’imminente calendario, sulla carta meno ostico di quello del Livorno. Con Padova e Grossetto il Verona può dare un segnale (quasi) decisivo al suo campionato.  Nel frattempo il rientro dell’ottimo Agostini è vicino.

Le nota stonata è la gestione di Cacia, che soffre di pubalgia e non è lui (vedi il gol sbagliato davanti a Lamanna). Sarebbe opportuno concedergli un turno di riposo. Il caso Halfredsson della scorsa stagione dovrebbe insegnare qualcosa, e quest’anno non regge nemmeno l’alibi della panchina “corta”. Le alternative, infatti, non mancano. Restando all’attacco, le cronache consegnano l’ennesima prova incolore di Gomez, che – non mi stancherò mai di ripetere – gioca troppo lontano dalla porta, e senza Ferrari tutto ciò è un nonsense. L’argentino non ha le caratteristiche (passo, gamba, resistenza) del tornante, il meglio lo dà sul breve.  Idem Sgrigna, che sull’esterno è un po’ sprecato, e visto come si muove in area le volte che ci arriva, vederlo più spesso nel cuore dell’azione non sarebbe male. Ma è il prezzo da pagare al 4-5-1: marchio di fabbrica di un Verona prudente, tornato vincente, ma non ancora convincente.

 

SETTI IMITI MORAS E ABBRACCI MANDORLINI

Non uso Instagram e non ho l’Iphone.  Le immagini mi scorrono solo nella mente. Le più belle di un sabato bestiale al Bentegodi. Il coro della curva sud “Non vi lasceremo mai. Soli insieme a voi” particolarmente riuscito al 15’ del secondo tempo.  La reazione di un Verona finalmente guerriero e poco civettuolo, come la stagione scorsa. Le parate di un Rafael definito al meglio da Ebagua: “Batman”. E soprattutto quell’abbraccio di Moras a Mandorlini, che cancella una volta per tutte le ambiguità che stanno accompagnando il Verona da inizio torneo. Un po’ meno convincente il greco quando in sala stampa se l’è presa coi soliti “giornalisti cattivi” (sai che originalità!) che hanno osato denunciare ai tifosi le difficoltà e gli alti e bassi del rapporto tra l’allenatore e la società. “Poi i tifosi si fanno idee strane” ha detto Moras. I tifosi hanno diritto di sapere e di manifestare, secondo il principio liberale “conoscere per deliberare”.  Il problema semmai sono le ambiguità. Quindi sia benedetta Novara che ha scoperchiato gli altarini e paradossalmente rinforzato Mandorlini e dunque il Verona. Sia benedetto il Varese, vittima di un Verona finalmente incazzato e compatto, che soffre le piccole ma si esalta con le sue pari. Adesso sarebbe ancora più benedetto Maurizio Setti, se uscisse dal silenzio e facesse come Moras: abbracciare idealmente Mandorlini. Perché Sogliano non basta. Perché momenti di difficoltà da qui a giugno ce ne saranno ancora, ma di ambiguità non ce ne dovranno essere più. Perché se la stampa ha il dovere di criticare e di denunciare, la società deve in primis difendere e legittimare i suoi tesserati, anche pubblicamente.  Certi silenzi pesano più di certe dichiarazioni, specie in certi momenti.

SOGLIANO E MANDORLINI: LA RESA DEI CONTI

Lupus in fabula, Devis Mangia! Il suo nome si sussurra nell’ambiente del Verona da luglio, adesso finalmente compare coi crismi dell’ufficialità. I segreti, del resto, hanno vita breve e le bugie le gambe corte. Scrive Gianluca Di Marzio, uno dei giornalisti più autorevoli in materia di calciomercato: “Mandorlini a rischio dopo la sconfitta contro il Novara. L’idea sarebbe infatti di dare la panchina a Devis Mangia, ora c.t. dell’Under 21”. Il vaso di pandora che si scoperchia, il segreto di pulcinella che diventa pubblico. Insomma, sai che novità!

Tra gli addetti ai lavori è noto: Mandorlini convive con l’ombra di Mangia dal ritiro estivo.  Mangia che, nei piani di via Torricelli, avrebbe dovuto essere l’allenatore del Verona già quest’anno e quasi certamente lo sarà nella prossima stagione. Forse, chissà, potrebbe esserlo già da domani. Personalmente non lo credo e non me lo auguro, perché un esonero a febbraio significa che i problemi di una squadra sono profondi e difficilmente risolvibili. E ne andrebbe di mezzo il Verona che – come ho sempre scritto – conta più di Mandorlini nel bene (quando il mister veniva osannato) e nel male (adesso che lo stesso sembra la causa di tutti i mali). Non mi sono mai piaciuti i “pro” e gli “anti” e odio tutti gli ismi. Detesto gli “ottosettembrini” alla Badoglio e le sindromi da piazzale Loreto. Mi piacciono i fatti  e raccontarli.

Lo scorso giugno Mangia, impegnato nel Supercorso di Coverciano, confidava ai colleghi che avrebbe allenato il Verona del suo mentore Sogliano. Setti aveva già deciso, contratto pronto e ampio progetto, salvo poi frenarsi per quella che potremmo definire comunemente la “ragion di Stato”.  Un assemblement di tante cose:  le pressioni della piazza, quelle della critica, i “suggerimenti” dell’ex presidente e socio di minoranza Martinelli, la prudenza della nuova proprietà nel non voler presentarsi con un gesto impopolare (il licenziamento di un personaggio amato) col rischio di ottenere un effetto boomerang e mettere una bomba a orologeria sul sedere di Mangia medesimo. Da lì la retromarcia, suggellata dal  confronto serrato che ci fu prima del ritiro tra il ds Sogliano, il vero deus ex machina dell’Hellas, e Mandorlini, nel quale il ds fece chiarezza: “Il mercato lo faccio io, tu alleni i giocatori che ti metto a disposizione”. Il risultato? Un matrimonio di interesse e non di amore, e soprattutto con un uomo solo al comando: il direttore sportivo. Sogliano non avrebbe mai accettato commistioni e delegittimazioni come nella precedente gestione, e soprattutto la sua idea era fin da subito una: nello spogliatoio ci metto i “miei” giocatori col “mio” progetto tattico, tu Mandorlini ti adegui. Un matrimonio, in buona sostanza, non paritario, e tra caratteri, valori e ideali incompatibili. Due visioni culturali opposte, ma obbligate a convivere.

Ed è questo, senza ombra di dubbio, il grande equivoco che sta logorando il Verona (bene supremo, ripetiamolo sempre). Lo denunciai già la scorsa estate con due blog che fecero discutere (“Non sopporto Mandorlini ma lo difendo” ed “E’ veramente il Verona di Mandorlini?”) e che molti miei detrattori non capirono, concentrati ottusamente sul “dito” (la mia dichiarata antipatia per Mandorlini, quasi fosse importante) e non sulla “luna” (i fatti, spiegavo come Mandorlini non fosse pienamente legittimato dalla società). Fui facile profeta, ma sai che vanto.

Il punto è che Mandorlini è Sogliano sono due personalità forti, collaborative finché vuoi (la buona volontà ce la stanno mettendo entrambi, domani un altro summit, forse il decisivo), ma incompatibili e poco malleabili.  Sogliano vuole comandare (“non ci ha mai chiesto un parere su un giocatore” diceva qualche mese fa un componente dello staff tecnico), Mandorlini è Mandorlini e l’unica cosa che sa fare è… il Mandorlini, cioè – con questa società e questa squadra – votarsi al suicidio. L’errore di Sogliano in tutti questi mesi invece è stato pensare che Mandorlini potesse cambiare, sottovalutando la sua testardaggine. Risultato? Tira e molla sfiancanti, risultati non soddisfacenti e appunto un grande equivoco di fondo. Da risolvere una volta per tutte, senza mezze misure, domani nel redde rationem tra ds e mister. Delle due l’una: Mandorlini deve essere confermato convintamente, altrimenti meglio esonerarlo. I tempi dei Don Abbondio e degli equilibristi sono finiti.

 

MA ANCHE ELKJAER E’ ANTIMANDORLINIANO?

Anche un trafiletto può fare notizia. Specie se di mezzo c’è Preben Larsen Elkjaer. Su L’Arena di oggi, l’ex “cavallo pazzo” danese degli anni d’oro del Verona parla dell’Hellas attuale: “Seguo tutto da qui (Copenaghen, ndr). La squadra è forte, ma c’è una cosa che mi chiedo sempre. Se il Verona è così forte perché non siamo primi? Il terzo posto non mi sta bene, la prossima volta che mi chiamate il Verona dovrà essere almeno secondo”. Che sia antimandorliano anche Preben? Uno che “rema contro” (espressione da regime, sig)? Uno che non capisce il remissivismo dei più, sintetizzato dal fastidioso low profile del “siccome abbiamo mangiato la merda per anni, ora non dobbiamo criticare e chi critica se ne torni a guardare la Lega Pro”? O forse è un “renso” anche lui, il grande Preben, il quale colto in un afflato di disperata ricerca di visibilità, come un “signor nessuno” qualunque, muove un  appunto al rendimento del Verona?

Elkjaer chiaramente non è nulla di tutto questo. Il più forte giocatore della storia del Verona si è limitato a dire una semplice verità, contro ogni retorica celebrativa molto in voga, ma piuttosto miope. Per qualità tecnica, budget (che comprende anche i lauti stipendi, per la B, di allenatore e giocatori) e aspettative, se il Verona vince il campionato è una cosa normale. Il secondo posto va ancora bene, ma col terzo sono play off, assolutamente da evitare perchè, afferma il danese, “sono un terno al lotto, non sai mai come va a finire”.

Quella di Elkjaer è se vogliamo una lezione: ricordarci cos’è il Verona, che quest’anno è obbligato a vincere. Forse “gli anni a mangiare merda” ce l’hanno fatto dimenticare troppo in fretta, abbiamo abbassato l’asticella delle ambizioni, probabilmente soffriamo un po’ della sindrome della squadretta capitata lì per caso,  del “tutto va bene comunque, se vinciamo tanto meglio”.  La realtà però è diversa: Setti e Sogliano hanno speso e costruito per primeggiare e dominare senza passare dagli spareggi. L’anormalità è essere terzi. Il Sassuolo è vicino, corriamo a prenderlo.

 

 

IL CUSTODE DELLO STADIO E’ BORDIN

“Il Verona è talmente forte che potrebbe allenarlo anche il custode dello stadio” sentenziò qualche mese fa a Sportitalia l’ex diesse Mauro Gibellini. Una sparata a salve. Un sarcasmo tendenzioso nelle intenzioni, ma innocuo nelle conseguenze, e che affermava l’ovvio: nel calcio i giocatori contano più dell’allenatore.  Noi zitelle acide, anziché derubricare un’uscita del genere con una sonora risata, o con l’indifferenza,  la prendemmo a male. Si sa il calcio è religione e i suoi protagonisti Dei nell’Olimpo. Così si scatenò l’inferno e montò la polemica.

Mandorlini – checché se ne dica – non è Mourinho e sprovvisto dell’ironia pungente del portoghese (“Lo Monaco chi? Io conosco Bayern Monaco, Gran Premio di Monaco, Monaco di Tibet”) si offese non poco e attaccò frontalmente  il Gibo. Alcuni tifosi – i più brillanti oserei dire, e di sicuro astemi – si scatenarono sostenendo con un fine sillogismo che “Gibellini è un ubriacone perché gli piace bere” (un delitto, si sa). Come dire che una ragazza è zoccola perché le piace scopare.

Ma sono quisquillie, avrebbe detto Totò, e ognuno si tenga la propria opinione. La verità è che siamo stati tutti un po’ ottusi in questa storia. Guelfi, Ghibellini e svizzeri (nel senso di neutrali). La polemica infatti ci ha reso ciechi, in primis noi addetti ai lavori. Presi dal contestare, o dall’analizzare il match verbale Gibellini vs Mandorlini, con rispettivi tifosi al seguito, ammantati di amore verso l’uno o l’altro, gravidi di moralismo sul senso di opportunità della chiosa e della replica, abbiamo perso di vista la notizia. Il “fantasma” del custode dello stadio in realtà da tempo si annidava e aleggiava silente negli spogliatoi e anche in panchina, un po’ come Robert Redford finto carcerato in Brubaker. Salvo poi rivelarsi all’improvviso, come una verità solenne, col bottino in mano:  undici punti in cinque partite. Il custode dello stadio è Bordin, ora è ufficiale. Che Gibellini lo sapesse già?

“LA MAGLIA GIALLOBLU'”: UN VIAGGIO NELLA STORIA

Definire “La maglia gialloblù” solo un libro sarebbe riduttivo, per l’amore e la cura dei dettagli messa dagli autori, il giornalista Matteo Fontana, il fotografo Gianluigi Rossi, il collezionista William Sembenini e il deus ex machina di tutto Massimiliano Tezza,  una vita in curva sud nel cuore del tifo più caldo. Non è nemmeno un almanacco, termine nobile ma un tantino asettico, e quindi inadatto, per quello che è prima di tutto un vero “viaggio” nella storia del Verona.

Un “viaggio” perché grafica, foto d’epoca, testi e impaginazione imprimono a “La maglia gialloblù” una dimensione romantica, il fascino di un disco vintage, il calore di un juke box, o la rarità di un mobile antico. Un’opera itinerante lungo 110 anni di vita del primo club cittadino, raccontata attraverso le maglie (tutte originali quelle fotografate e riportate, un lavoro di ricerca non da poco), attrici protagoniste e al contempo testimoni e voci narranti di una storia fatta di molto altro. L’età pioneristica, il dopoguerra e le prime stille di organizzazione professionistica portate da imprenditori quali Chiampan padre e Mondadori negli anni 50. Le grandi vittorie (lo scudetto, le coppe, gli anni ’80) e le autentiche leggende (le maglie e i personaggi degli anni ’70 meritano un cenno a parte), ma anche, da contraltare, i periodi anonimi, o peggio burrascosi.

Interessanti anche gli intrecci che fanno da sfondo al “viaggio”: il cambio della moda e degli stili negli anni, dall’affascinante ed eterno minimalismo degli anni ’70 (collo a V giallo e maglia blu slavato), agli sponsorizzati ’80, coi gioielli dell’Adidas (maglie simili di anno in anno ma con finezze ogni volta diverse) e l’avvenirismo della danese Hummel. Dopodiché la tradizione, e spesso anche l’estetica, sono state travolte dalle logiche del marketing, con la Errea capace nel giro di un anno di disegnare una delle maglie più orrende (98-99) e una delle più belle (99-00) della storia. Fino agli anni recenti, dove fortunatamente si sta recuperando un po’ di buon senso, sebbene la strada per riavvicinarsi allo stile che fu è ancora lunga.

Per sapere dove trovare “La maglia gialloblù” potete consultare la pagina di facebook “la maglia gialloblù”, o scrivendo a  lamagliagialloblu@gmail.com.

E voi a quale maglia, o stagione siete più affezionati?