MA SETTI, GARDINI E BIGON DOV’ERANO?

Gigi Delneri, stasera: “Fisicamente abbiamo margini di miglioramento elevatissimi. Dobbiamo riempire il serbatoio, oggi al termine eravamo sfiniti, a Milano anche. I giocatori dovranno lavorare anche in questi sette giorni di riposo, da casa, poi andremo in ritiro e se sarà necessario faremo anche lavoro doppio. A metà gennaio dovremmo essere a posto”.

Parole che sarebbero normali a fine agosto, o ai primi di settembre, dopo i turni eliminatori di Coppa Italia o le prime giornate di campionato, ma che suonano inquietanti il 20 dicembre, dopo quasi quattro mesi di campionato e cinque dall’inizio della preparazione. La domanda sorge spontanea: che situazione ha ereditato, il 30 di novembre, Delneri da Mandorlini? Come si lavorava prima? Giovanni Vitacchio, stasera, ha riferito le parole di Maurizio D’Angelo, collaboratore tecnico di Delneri, sugli esiti drammatici dei test atletici effettuati sui giocatori dal nuovo staff tecnico al suo insediamento. Eppure Setti, Gardini e Bigon, che avrebbero dovuto, da dirigenti, monitorare, analizzare e controllare, per lunghi mesi ci hanno detto che i cattivi risultati erano solo sfortuna e colpa degli infortuni, e non hanno mosso foglia. Non si sono accorti di nulla? I test atletici prima non erano consuetudine? E se sì, non ne hanno chiesto conto? Hanno fatto finta di niente, sperando che accadesse l’imponderabile a segnare una svolta positiva alla stagione? Perché, intendiamoci, con siffatta condizione atletica (tralasciando quella tattica per carità di patria), quella che, per dirla con Delneri, “i macchinari ci segnalano”, solo l’imponderabile o la biblica manna dal cielo avrebbero potuto resuscitarci.

In entrambi i casi, insipienza o noncuranza, saremmo di fronte a un errore gravissimo della dirigenza. Un errore che solo un miracolo sportivo potrebbe non rendere esiziale.

DELNERI E QUELLA LETTERA A SANTA LUCIA…

La settimana scorsa avevo parlato di tempo perduto, riferendomi al tardivo cambio di allenatore. Adesso vorrei scrivere di speranza. Flebile, piccola, ma una speranza c’è. Ce la riconsegna Santa Lucia; la letterina l’ha scritta Gigi Delneri, che si è dimostrato non meritevole del carbone, dando al Verona nuova linfa attraverso tre elementi: la tattica, la psicologia e il carisma.

TATTICA. “Ora c’è una logica” aveva detto Delneri, nonostante l’immeritata sconfitta, nella sala stampa del Bentegodi dopo la partita con l’Empoli. Aveva ragione e la partita di San Siro lo ha confermato. “L’Empoli non è stato un fuoco di paglia” ha chiosato, rinfrancato, ieri il baffo di Aquileia. Già, l’Hellas ora è disposto in campo con criteri moderni, squadra più alta e più corta, l’assetto favorisce un regista come Viviani, che la palla la sa far correre, l’estro di Siligardi, che ha bisogno di minuti per affinare una condizione atletica che ancora non gli permette di essere lucido nell’ultimo tocco e nei cross dal fondo, e l’universalità di Ionita, che già qualche mese fa annoveravo come il centrocampista più completo della rosa. E’ chiaro che, al di là dei moduli (4-1-4-1 o 4-2-3-1 con Ionita guastatore, o il proverbiale e presumibile 4-4-2 delneriano con il rientro di Pazzini) giocando così servirebbe reperire sul mercato un ala destra di valore, ma di mercato parleremo nello specifico dopo il Sassuolo.

PSICOLOGIA. Delneri lo ripete come un mantra: “Non guardiamo la classifica”. Non è una frase di circostanza, ma uno slogan che racchiude una filosofia: predisporsi mentalmente per la partita singola, ricercare la motivazione nella bellezza che può rappresentare l’impresa domenicale. “Dobbiamo giocare per il senso di appartenenza che rappresentiamo, cioè il club con la sua storia e i suoi tifosi, e dobbiamo giocare anche per noi stessi e la nostra dignità”. Delneri non vuole caricare il gruppo con l’ansia dell’ultima spiaggia, nel timore di perderlo mentalmente in caso di incidenti di percorso. Ovvio che il confine è labile: lo stress da classifica fisiologicamente subentra comunque, ma Delneri lavora per ridimensionarlo. E’ una finezza per nulla scontata.

CARISMA. Delneri ha pedigree e storia, ha guidato grandi club (Porto, Roma, Juventus) e allenato in piazze calde (Samp, Palermo e Atalanta) e non ha nulla da perdere e solo da guadagnare (è subentrato a situazione compromessa). Ecco spiegata la serenità e la convinzione che emana e che è riuscito a trasmettere alla squadra. A sentirlo parlare e nel vedere il Verona in campo, se non conoscessimo la classifica, ci sembrerebbe di essere in piena corsa salvezza.

Basterà? Razionalmente no. Ma oggi una speranza c’è. Viviamola.

L’AMAREZZA DEL TEMPO PERSO

Dopo aver visto il Verona di ieri (difesa alta, squadra corta, gioco e intensità) abbiamo la conferma che nulla prima aveva senso. Non lo aveva la squadra in campo; non lo aveva il campionario di frasi fatte per giustificare ogni debacle; non lo aveva una mentalità fatta di amici e nemici, di iconologici gufi e presunte cornacchie, da additare al pubblico ludibrio per abbandonarsi poi al furbo vittimismo; non lo aveva la difesa ad oltranza dell’indifendibile.

Ma abbiamo perso. Abbiamo perso ancora, obietterà qualcuno. Certo, contro l’Empoli sorpresa del torneo (capace di battere la Lazio e fermare Napoli e Fiorentina). Ma abbiamo perso e nel calcio, si sa, contano i risultati. Magari perderemo anche con il Milan e la Juve e non batteremo il Sassuolo. Il calendario (Palermo a parte) da qui a fine girone di andata è proibitivo e giocare con l’affanno psicologico di chi è disperato e all’ultima spiaggia porta a perdere partite come quella di ieri, quando l’Empoli – inferiore sul piano delle occasioni e del possesso palla, ma sornione, lucido e libero – alla lunga ha vinto sui nervi.

Eppure ieri abbiamo visto… calcio. Tiri in porta. Giocatori nel loro ruolo. Un’organizzazione di base. “Ora abbiamo una mentalità con la quale possiamo cercare di andare a vincere in ogni campo” ha detto in sala stampa Luca Toni a Giovanni Vitacchio. (Già, ora).

Straordinariamente ordinario, sorprendentemente banale. Irrimediabilmente amaro nel retrogusto di un’inquietante consapevolezza: quella di aver perso tanto, troppo, tempo.

P.s. Inopportune le parole di Toni sul suo ritiro a fine stagione, ma dettate da istintivo sconforto, dalla comprensibile e nervosa amarezza del momento, dai gol sbagliati (come ha ammesso lui stesso) e da una condizione che ancora non arriva. Non da dietrologie o secondi fini, come ho letto.

UNA GESTIONE CONFUSA

C’è un’assenza nel tempestoso flusso di cronaca. C’è un vuoto nella frenesia di queste ore. Lucidità, questa sconosciuta, pare, in via Belgio. La gestione dell’esonero di Mandorlini e della nomina del suo successore mostra la confusione che da qualche mese a questa parte alberga nella dirigenza del Verona.

Ricapitoliamo. Ieri Mandorlini si presenta a Peschiera, dove si allena la squadra, da esonerato (di fatto). Contemporaneamente, e per lunghe ore, si consuma il surreale triangolo Verona-Corini-Chievo. Vallo a spiegare a un tifoso dell’Hellas che per avere Corini (non Ferguson, non Ancelotti), simbolo Chievo, con un plus di vecchie ruggini per un derby passato, devi chiedere permesso a Campedelli, per i tifosi del Verona simpatico come una zanzara in camera da letto (ciò non toglie che Campedelli, avendo Corini sotto contratto, ha tutto il diritto di tutelare i suoi interessi per svincolarlo). Ieri un maestro del giornalismo come Adalberto Scemma è stato tranchant: “Pensare a Corini è da neuroni scollegati”. Ovviamente Scemma esagera, utilizzando da abile maestro qual è il genere giornalistico dell’invettiva, tuttavia appare chiaro come la dirigenza sia arrivata con il fiatone a pensare al dopo Mandorlini. E col senno di poi forse si spiegano le numerose chanches, quasi a sfiorare il grottesco, concesse al vecchio allenatore, che sarebbe stato da esonerare prima di arrivare alla disperazione.

Lo scrivo con disincanto, al di là del carico di sentimenti (innegabili) che l’allontanamento di uno come Mandorlini porta con sé: per i suoi cinque anni carichi di significato, per i risultati ottenuti con Martinelli, Gibellini e Sogliano, e soprattutto per il rapporto intenso con la piazza, da capopopolo prima, da intoccabile a prescindere o capro espiatorio di tutti i mali poi, quando il suo nome è diventato divisivo. Di Mandorlini non mi è mai piaciuta la tendenza a prendersi i meriti e ad additare i suoi critici come ‘non tifosi’ del Verona (invece l’amore per il Verona e la critica a un allenatore-dirigente-calciatore sono due piani distinti e non sovrapponibili). Non ho mai amato la sua tentazione di scaricare le colpe (il ritornello dei “18 giocatori nuovi” dell’anno scorso) e cercare nemici inesistenti. Avrei preferito senz’altro che il suo gioco non fosse monotematico e che evitasse fissazioni per alcuni giocatori e idiosincrasia per altri. Mi è piaciuto da matti invece nel suo politicamente scorretto: la tuta in panchina anche in serie A, lo spareggio di Salerno, le corna di Cittadella, la canzone degli Skiantos. Cose di calcio, cose di campo, cose di nervi, cose di fazione, che dovrebbero lì nascere e morire, e invece (purtroppo) puntualmente vengono megafonate in negativo da un circuito mediatico ipocrita e paraculo.

Non so cosa riuscirà a combinare Gigi Delneri, che ho conosciuto nella sua seconda esperienza al Chievo nel 2006-07, ai tempi in cui per il Corriere di Verona e il Corriere del Veneto seguivo giornalisticamente le vicende del club di via Galvani. Una carriera scostante quella del ‘baffo di Aquileia’, di grandi alti e grossi tonfi, prima precursore tattico (la difesa altissima e il fuorigioco sistematico) e poi dimenticato.  Con lui ebbi anche uno ‘scazzo’ a Veronello per un articolo, ma gli ho sempre riconosciuto la ruvida sincerità del ‘non mandarle a dire’.

La situazione è disperata e le sorti del Verona sembrano segnate. Ma “io credo nei miracoli” canta l’eclettica Cristina Donà. Metto lo stereo e mi affido a lei.

QUELL’AMORE CHE CI FA (ANCORA) SPERARE

Scorgi speranze nelle parole, accarezzi rivalse nelle interviste: l’eterna fiera degli auspici, l’imperitura mostra degli intenti. Poi c’è il campo, crudo e amaro, dagli echi sordi e l’esito spietato. Poi c’è il calcio, questo immancabile assente negli arancio-giallo-fluo-blu navy. Ma si sa, anche “i colori non sono importanti” (sic) disse Richelieu, che infatti veste sempre di grigio, e poi anche Ranzani in tv, a domanda di un tifoso, tuonò sarcastico al riguardo, avendo dimenticato l’empatia oltre che i calzini. “Conta lo spirito”, ci raccontò Gardini, a cui noi – umani, sentimentali, deboli che ci innamoriamo della vita, del Verona, della musica, della carnalità, degli edonistici tormenti di Hemingway, delle donne – cediamo incantati al fascino del suo statuario celarsi, alla superiorità del suo disincanto. E lo spirito in effetti c’è, nel senso che è un fantasma e non si vede.

Palpabile invece è lo shock, il nostro, per la piega surreale che ha preso la stagione e per come viene (mal) gestita la crisi: con dichiarazioni sconcertanti, poca umiltà, alibi alla lunga grotteschi, infortuni muscolari dopo una sosta di due settimane, disperata ricerca di inesistenti nemici. Setti ci racconta di un grande mercato e di una società che mai ha lavorato così bene, puntualizza che il Verona è suo (e noi gli crediamo), senza tuttavia smontare punto per punto l’articolo del Corriere della Sera sulle finanziarie; Bigon spiega che lui è contro i ritiri, ma poi comincia a mandare la squadra puntualmente in ritiro; sempre Bigon convoca conferenze stampa per fare domande anziché dare risposte; ancora Bigon concede un “mi prendo le colpe”, salvo poi non specificare quali e anzi negarne un bel po’; Gardini – che poi è quello che decide – invece se ne sta dietro le quinte, mentre Mandorlini, spaesato, non sa più che fare e dire (e mi dispiace, per il Verona, ma anche per lui, che è colpevole, ma meno di altri, e poi a forza di criticarlo mi ci sono affezionato e non dimentico cosa ha fatto assieme a Martinelli, Gibellini e Sogliano).

Ma noi, che abbiamo vissuto un’infanzia felice, di affetto familiare, gioco, amici, curiosità e amore per il Verona non vogliamo incupirci, anzi è proprio l’amore per l’Hellas che ci tiene aggrappati, pur affannati, impauriti, forse increduli, alla speranza. Ci affidiamo al rientro di Toni, al vecchio stellone (dove sei?) di Mandorlini e alle parole di un uomo vero come Vangelis Moras (“siamo sempre usciti dalle difficoltà”). Con Frosinone e Empoli avremo il groppo in gola e lo stomaco spettinato per l’ansia: ci giochiamo le residue speranze di salvezza. Teniamole vive.

COMANDA SETTI, MA DECIDE GARDINI

Il “rappresentante della proprietà” (cit.) è Maurizio Setti, ma chi decide, nel Verona, di fatto è Giovanni Gardini, personaggio che, nel ‘cono d’ombra’ in cui ama rifugiarsi, detta la linea al titolare di Manila Grace, che invece appare e scompare, tra Ranzani e Godot, tra gli istrionici interventi con lustrini e paillettes per presentare Pazzini e le significative ‘fughe’ di sabato sera.

Il Cardinale Richelieu, che è un abile tessitore politico, intelligente, scaltro, cinico quanto basta, è l’uomo che esce vincitore dalla ‘vicenda Mandorlini’ (alla resa dei conti spero vinca anche il Verona, ma lasciatemi i miei umani e modesti dubbi). E’ lui infatti il ‘padre’ del biennale al tecnico romagnolo; ed è lui – dice chi lo conosce bene – che in questi giorni si è prodigato nel ‘lavorare ai fianchi’ Setti per evitare l’esonero del suo pupillo. Il mantra utilizzato? Il solito: con il recupero degli infortunati, e soprattutto di Toni, la situazione migliorerà e bla bla bla. A fronte di queste ‘alte’ motivazioni non ci resta che inventarci una speranza, aggrapparci alle “fantasie che volano libere” di vaschiana memoria. Nel frattempo vorrei smontare qualche luogo comune di questi giorni.

Non è vero che Mandorlini rimane perché “non c’erano alternative”. Le alternative a questi livelli ci sono sempre, dipende ovviamente dal peso delle proposte. Anzi, più un dirigente (sportivo e non solo) sa individuare alternative a ciò che non funziona, più è bravo. In sintesi: chi vuole può e chi non vuole non può.

Non è vero che “piuttosto di Ballardini e Di Carlo, meglio Mandorlini”, come sostengono gli ottimisti (si fa per dire). Come ho detto sabato a 91° minuto, Mandorlini ora è il più antimandorliniano degli antimandorliniani. Mesto e rassegnato in sala stampa, inerme e inefficace in panchina. Certo, non si dimetterà mai (c’è un biennale in ballo), ma sabato parlava già da ex (“non sarò mai un problema per il Verona”). Quale filo logico-sportivo può aver indotto alla sua riconferma? Io non lo trovo, ma Gardini è senz’altro più intelligente di me. La sensazione, anzi la quasi certezza, è che rispetto a questo Mandorlini, anche i vituperati Ballardini (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che oggi ha firmato per il Palermo, non la Longobarda) e Di Carlo (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che in A ha un pedigree migliore di Mandorlini) avrebbero fatto la loro figura. Ma non solo loro.

Non credo nemmeno che “siano finiti i soldi”, altro ritornello da social e nei sussurri del bar. Perché allora non si spiegherebbero i milioni di euro spesi in estate per il cartellino di Viviani e per contrattualizzare cinque anni il 31enne Pazzini. Certo, tante cose non si spiegano, ad esempio perché dopo i botti di luglio ci si sia ridotti a ingaggiare a settembre lo svincolato e stagionato Matuzalem, determinante come Mauro Repetto negli 883. Ma questo, abbiate pazienza, ce lo spiegherà Max Pezzali.

SETTI RIFLETTA ANCHE SULL’ASSETTO SOCIETARIO

In principio furono le maglie, con quei colori sociali così sconosciuti. Due anni fa qualcuno mi disse e scrisse che in fondo “è un dettaglio”, e “conta la serie A”, e “sono discorsi estivi” eccetera, come se l’argomento identità fosse equiparato a una ‘sveltina’ estiva da rotocalco patinato, o Parigi valesse bene una messa. In realtà il sottoscritto – memore di un grande proverbio popolare, rivisitato alla sua maniera dal Manuel Fantoni di Borotalco – ha sempre pensato che “l’abito fa il monaco, eccome se lo fa!” e vedeva nella scelta di Gardini di abdicare alla tradizione in nome del puro marketing, la cartina di tornasole di una certa freddezza della dirigenza nei confronti dell’ambiente e della piazza.

Con l’addio di Sogliano, ancora acerbo sul piano “politico” (le vicende di Carpi lo confermano) ma uomo passionale e “di campo”, e la promozione del ‘cardinale’ Gardini (attraverso la nomina del ‘parroco’ Bigon alla direzione sportiva) a deus ex machina di via Belgio, questa freddezza si è riverberata anche nella sfera tecnica. E così ecco un calciomercato estivo verticistico, con non pochi denari, ma senza intuito e fantasia, condotto dagli uffici (Bigon ha dichiarato che lui non visiona direttamente i giocatori, ma delega al suo scouting) e ridotto perlopiù a un collezionismo di ‘figurine’ di giocatori imbolsiti (Pazzini, quinquiennale a 31 anni), poco utili (Bianchetti, riscattato a 1 milione) e in discutibili condizioni fisiche (Viviani, costato 4 milioni). Aggiungici un Mandorlini gestito come mai si dovrebbe: blindato da un biennale (lui che il meglio di sé lo ha sempre dato sotto pressione) e senza un sano rompicoglioni alla Sogliano a fargli da contraltare.

Ora (quasi) tutti chiedono l’esonero di Mandorlini ed è comprensibile vista la fallimentare gestione tecnica di queste prime 12 partite. Tuttavia io mi chiedo se non sia il caso che Setti rifletta anche sull’assetto dirigenziale. Lo schema della netta separazione tra aree (amministrativa e tecnico-sportiva) funzionava alla perfezione. Perché non riproporlo?

“LA SITUAZIONE È GRAVE, MA NON È SERIA”

Seconda peggior difesa; peggior attacco; solo un gol su azione. E zero vittorie in 11 partite. Numeri impietosi, che dicono (quasi) tutto, senza bisogno di ulteriori commenti. Invece i commenti – in ordine temporale – di direttore sportivo, direttore generale, ancora ds e infine – per dirla con il collega Benny Calasanzio – del “rappresentante della proprietà” Maurizio Setti, senza contare quelli bisettimanali (pre e post partita) dell’allenatore, sono improntati a sminuire, snocciolare alibi, parlare d’altro e individuare stucchevolmente a tutti i costi nemici immaginari.

Mai un’analisi seria della crisi, un’autocritica, un affrontare a muso duro la realtà (anziché alcuni giornalisti, che hanno il ‘demerito’ di saper fare il loro mestiere). Solo fatalismo, frasi fatte e l’immancabile “ci rifaremo alla prossima”.

E allora avanti con il Bologna, parso rinsavito con Donadoni, tecnico di recente accostato al Verona e faccia che qualcuno giura di aver avvistato in città nelle settimane scorse. Avanti con il Bologna e speriamo bene, appellandoci alla fortuna e alla statistica (prima o poi una la dovremo anche vincere). D’altro canto come diceva sarcasticamente Flaiano “la situazione è grave, ma non è seria”. E infatti Mandorlini, superando se stesso e riguadagnando il primato nella sfida, tutta interna, delle strane dichiarazioni, ci ha ricordato che “abbiamo preso un punto sul Frosinone” e “fatto la partita”. Sono soddisfazioni.

LISTA DELLA SPESA

Dopo gli stanchi ritornelli di queste settimane (e di ieri) ho immaginato la lista della spesa in via Belgio. No, la discutibile campagna acquisti up and down dei costosi e celeri botti Pazzini e Viviani e dell’affannoso colpo di coda Matuzalem non c’entra, anche perché come ha detto ieri sera Maurizio Setti alle tv locali nei suoi quasi dodici-minuti-dodici di ‘tutto va bene madama la marchesa’: “Gennaio è lontano”. E quanto alla situazione infortunati, certo si potrebbe accendere un cero al santo che più ci aggrada (magari santo spirito, una parola talmente gettonata negli ambienti gialloblu da far invidia a quelli clericali), ma forse aiuterebbe anche, sfiga a parte, essere più giudiziosi in sede di mercato e poi nella gestione fisica degli stessi calciatori.

La lista della spesa prevede barattoli di colla per “stare uniti”, perché, va da sé, a furia di sentirlo ripetere, il sospetto che lo spogliatoio non sia proprio in totale armonia nasce; allora ecco che l’antico metodo superattack può tornare utile. Seguono squadra e righello per “fare quadrato”, altra hit del momento, sebbene la geometria servirebbe soprattutto in campo. L’auspicio, ovviamente, è che in qualche market immaginario vendano anche il gioco, le soluzioni alternative al centravanti classico (la vecchia e cara ‘palla a terra’), e si possano barattare un po’ dei soliti alibi che società e allenatore sciorinano ogni due per tre con quel tanto che basta di tempra per limitare i danni e restare a galla.

Il resto lo fa l’ideologia dell’attendismo, a cui pare essersi votato anche Setti, che pur tra qualche afflato calvinista da self-made man qual è (“Mi hanno insegnato che più si lavora più si possono ottenere risultati”), ha indicato la via del fato per guarire: aspettare dicembre e sperare (che l’infermeria si svuoti). Anch’io spero: che non sia già troppo tardi.

L’ULTIMATUM DI BIGON A MANDORLINI

Solo sette giorni fa Bigon e Mandorlini ci avevano segnalato che il Verona, nei primi tempi, è una delle migliori squadre d’Italia. Un po’ come avere una donna, ma  accontentarsi di un bacio asessuato e del letto vuoto. Fu l’apice delle ‘simpatiche’ dichiarazioni che da tempo tendono a giustificare, derubricare, minimizzare ogni delusione. Ma un bel tacer non fu mai scritto, verrebbe da dire dopo i 45′ di Marassi, che hanno spazzato via ogni no sense racchiuso negli insipidi brodini del solito “bisogna lavorare” (frase che non vuol dire nulla) e dell’immancabile “stiamo uniti” (per certi versi irrispettoso rivolto a un ambiente che non ha mai contestato). L’inquietante realtà invece l’ha fotografata oggi Giampaolo Pazzini: “Dopo il loro gol abbiamo smesso di giocare”. Parole che rimbombano sorde e grevi nel solito cianciare di circostanza. Perché questa arrendevolezza non è un bel viatico in vista non tanto della proibitiva Fiorentina, ma soprattutto dei tre scontri diretti (Carpi, Bologna, Frosinone) nelle prossime cinque partite, quando l’animus pugnandi conterà più di tutto.

Una rassegnazione che ha colpito pure il ‘pretesco’ Bigon, che dopo la gaffe di sette giorni fa sulla ‘vox populi’, si è pesantemente smarcato dall’allenatore, blindato solo una settimana fa, ora invece messo a un palmo di distanza ché non si sa mai: “Mandorlini? Vediamo di giornata in giornata”. Se non è un ultimatum, poco ci manca. Nel mare delle solite ovvietà e nel giorno dell’ennesima brutta figura, è questa l’unica novità in casa Hellas. Siamo alla resa dei conti? Quel che è certo è che Mandorlini è solo come non mai. Sogliano l’anno scorso e tre anni fa gli si piantò davanti come scudo, ora nel bene o nel male il tecnico dovrà cavarsela da sé.