QUELL’AMORE CHE CI FA (ANCORA) SPERARE

Scorgi speranze nelle parole, accarezzi rivalse nelle interviste: l’eterna fiera degli auspici, l’imperitura mostra degli intenti. Poi c’è il campo, crudo e amaro, dagli echi sordi e l’esito spietato. Poi c’è il calcio, questo immancabile assente negli arancio-giallo-fluo-blu navy. Ma si sa, anche “i colori non sono importanti” (sic) disse Richelieu, che infatti veste sempre di grigio, e poi anche Ranzani in tv, a domanda di un tifoso, tuonò sarcastico al riguardo, avendo dimenticato l’empatia oltre che i calzini. “Conta lo spirito”, ci raccontò Gardini, a cui noi – umani, sentimentali, deboli che ci innamoriamo della vita, del Verona, della musica, della carnalità, degli edonistici tormenti di Hemingway, delle donne – cediamo incantati al fascino del suo statuario celarsi, alla superiorità del suo disincanto. E lo spirito in effetti c’è, nel senso che è un fantasma e non si vede.

Palpabile invece è lo shock, il nostro, per la piega surreale che ha preso la stagione e per come viene (mal) gestita la crisi: con dichiarazioni sconcertanti, poca umiltà, alibi alla lunga grotteschi, infortuni muscolari dopo una sosta di due settimane, disperata ricerca di inesistenti nemici. Setti ci racconta di un grande mercato e di una società che mai ha lavorato così bene, puntualizza che il Verona è suo (e noi gli crediamo), senza tuttavia smontare punto per punto l’articolo del Corriere della Sera sulle finanziarie; Bigon spiega che lui è contro i ritiri, ma poi comincia a mandare la squadra puntualmente in ritiro; sempre Bigon convoca conferenze stampa per fare domande anziché dare risposte; ancora Bigon concede un “mi prendo le colpe”, salvo poi non specificare quali e anzi negarne un bel po’; Gardini – che poi è quello che decide – invece se ne sta dietro le quinte, mentre Mandorlini, spaesato, non sa più che fare e dire (e mi dispiace, per il Verona, ma anche per lui, che è colpevole, ma meno di altri, e poi a forza di criticarlo mi ci sono affezionato e non dimentico cosa ha fatto assieme a Martinelli, Gibellini e Sogliano).

Ma noi, che abbiamo vissuto un’infanzia felice, di affetto familiare, gioco, amici, curiosità e amore per il Verona non vogliamo incupirci, anzi è proprio l’amore per l’Hellas che ci tiene aggrappati, pur affannati, impauriti, forse increduli, alla speranza. Ci affidiamo al rientro di Toni, al vecchio stellone (dove sei?) di Mandorlini e alle parole di un uomo vero come Vangelis Moras (“siamo sempre usciti dalle difficoltà”). Con Frosinone e Empoli avremo il groppo in gola e lo stomaco spettinato per l’ansia: ci giochiamo le residue speranze di salvezza. Teniamole vive.

COMANDA SETTI, MA DECIDE GARDINI

Il “rappresentante della proprietà” (cit.) è Maurizio Setti, ma chi decide, nel Verona, di fatto è Giovanni Gardini, personaggio che, nel ‘cono d’ombra’ in cui ama rifugiarsi, detta la linea al titolare di Manila Grace, che invece appare e scompare, tra Ranzani e Godot, tra gli istrionici interventi con lustrini e paillettes per presentare Pazzini e le significative ‘fughe’ di sabato sera.

Il Cardinale Richelieu, che è un abile tessitore politico, intelligente, scaltro, cinico quanto basta, è l’uomo che esce vincitore dalla ‘vicenda Mandorlini’ (alla resa dei conti spero vinca anche il Verona, ma lasciatemi i miei umani e modesti dubbi). E’ lui infatti il ‘padre’ del biennale al tecnico romagnolo; ed è lui – dice chi lo conosce bene – che in questi giorni si è prodigato nel ‘lavorare ai fianchi’ Setti per evitare l’esonero del suo pupillo. Il mantra utilizzato? Il solito: con il recupero degli infortunati, e soprattutto di Toni, la situazione migliorerà e bla bla bla. A fronte di queste ‘alte’ motivazioni non ci resta che inventarci una speranza, aggrapparci alle “fantasie che volano libere” di vaschiana memoria. Nel frattempo vorrei smontare qualche luogo comune di questi giorni.

Non è vero che Mandorlini rimane perché “non c’erano alternative”. Le alternative a questi livelli ci sono sempre, dipende ovviamente dal peso delle proposte. Anzi, più un dirigente (sportivo e non solo) sa individuare alternative a ciò che non funziona, più è bravo. In sintesi: chi vuole può e chi non vuole non può.

Non è vero che “piuttosto di Ballardini e Di Carlo, meglio Mandorlini”, come sostengono gli ottimisti (si fa per dire). Come ho detto sabato a 91° minuto, Mandorlini ora è il più antimandorliniano degli antimandorliniani. Mesto e rassegnato in sala stampa, inerme e inefficace in panchina. Certo, non si dimetterà mai (c’è un biennale in ballo), ma sabato parlava già da ex (“non sarò mai un problema per il Verona”). Quale filo logico-sportivo può aver indotto alla sua riconferma? Io non lo trovo, ma Gardini è senz’altro più intelligente di me. La sensazione, anzi la quasi certezza, è che rispetto a questo Mandorlini, anche i vituperati Ballardini (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che oggi ha firmato per il Palermo, non la Longobarda) e Di Carlo (che non è Ancelotti e nemmeno Guidolin, ma che in A ha un pedigree migliore di Mandorlini) avrebbero fatto la loro figura. Ma non solo loro.

Non credo nemmeno che “siano finiti i soldi”, altro ritornello da social e nei sussurri del bar. Perché allora non si spiegherebbero i milioni di euro spesi in estate per il cartellino di Viviani e per contrattualizzare cinque anni il 31enne Pazzini. Certo, tante cose non si spiegano, ad esempio perché dopo i botti di luglio ci si sia ridotti a ingaggiare a settembre lo svincolato e stagionato Matuzalem, determinante come Mauro Repetto negli 883. Ma questo, abbiate pazienza, ce lo spiegherà Max Pezzali.

SETTI RIFLETTA ANCHE SULL’ASSETTO SOCIETARIO

In principio furono le maglie, con quei colori sociali così sconosciuti. Due anni fa qualcuno mi disse e scrisse che in fondo “è un dettaglio”, e “conta la serie A”, e “sono discorsi estivi” eccetera, come se l’argomento identità fosse equiparato a una ‘sveltina’ estiva da rotocalco patinato, o Parigi valesse bene una messa. In realtà il sottoscritto – memore di un grande proverbio popolare, rivisitato alla sua maniera dal Manuel Fantoni di Borotalco – ha sempre pensato che “l’abito fa il monaco, eccome se lo fa!” e vedeva nella scelta di Gardini di abdicare alla tradizione in nome del puro marketing, la cartina di tornasole di una certa freddezza della dirigenza nei confronti dell’ambiente e della piazza.

Con l’addio di Sogliano, ancora acerbo sul piano “politico” (le vicende di Carpi lo confermano) ma uomo passionale e “di campo”, e la promozione del ‘cardinale’ Gardini (attraverso la nomina del ‘parroco’ Bigon alla direzione sportiva) a deus ex machina di via Belgio, questa freddezza si è riverberata anche nella sfera tecnica. E così ecco un calciomercato estivo verticistico, con non pochi denari, ma senza intuito e fantasia, condotto dagli uffici (Bigon ha dichiarato che lui non visiona direttamente i giocatori, ma delega al suo scouting) e ridotto perlopiù a un collezionismo di ‘figurine’ di giocatori imbolsiti (Pazzini, quinquiennale a 31 anni), poco utili (Bianchetti, riscattato a 1 milione) e in discutibili condizioni fisiche (Viviani, costato 4 milioni). Aggiungici un Mandorlini gestito come mai si dovrebbe: blindato da un biennale (lui che il meglio di sé lo ha sempre dato sotto pressione) e senza un sano rompicoglioni alla Sogliano a fargli da contraltare.

Ora (quasi) tutti chiedono l’esonero di Mandorlini ed è comprensibile vista la fallimentare gestione tecnica di queste prime 12 partite. Tuttavia io mi chiedo se non sia il caso che Setti rifletta anche sull’assetto dirigenziale. Lo schema della netta separazione tra aree (amministrativa e tecnico-sportiva) funzionava alla perfezione. Perché non riproporlo?

“LA SITUAZIONE È GRAVE, MA NON È SERIA”

Seconda peggior difesa; peggior attacco; solo un gol su azione. E zero vittorie in 11 partite. Numeri impietosi, che dicono (quasi) tutto, senza bisogno di ulteriori commenti. Invece i commenti – in ordine temporale – di direttore sportivo, direttore generale, ancora ds e infine – per dirla con il collega Benny Calasanzio – del “rappresentante della proprietà” Maurizio Setti, senza contare quelli bisettimanali (pre e post partita) dell’allenatore, sono improntati a sminuire, snocciolare alibi, parlare d’altro e individuare stucchevolmente a tutti i costi nemici immaginari.

Mai un’analisi seria della crisi, un’autocritica, un affrontare a muso duro la realtà (anziché alcuni giornalisti, che hanno il ‘demerito’ di saper fare il loro mestiere). Solo fatalismo, frasi fatte e l’immancabile “ci rifaremo alla prossima”.

E allora avanti con il Bologna, parso rinsavito con Donadoni, tecnico di recente accostato al Verona e faccia che qualcuno giura di aver avvistato in città nelle settimane scorse. Avanti con il Bologna e speriamo bene, appellandoci alla fortuna e alla statistica (prima o poi una la dovremo anche vincere). D’altro canto come diceva sarcasticamente Flaiano “la situazione è grave, ma non è seria”. E infatti Mandorlini, superando se stesso e riguadagnando il primato nella sfida, tutta interna, delle strane dichiarazioni, ci ha ricordato che “abbiamo preso un punto sul Frosinone” e “fatto la partita”. Sono soddisfazioni.

LISTA DELLA SPESA

Dopo gli stanchi ritornelli di queste settimane (e di ieri) ho immaginato la lista della spesa in via Belgio. No, la discutibile campagna acquisti up and down dei costosi e celeri botti Pazzini e Viviani e dell’affannoso colpo di coda Matuzalem non c’entra, anche perché come ha detto ieri sera Maurizio Setti alle tv locali nei suoi quasi dodici-minuti-dodici di ‘tutto va bene madama la marchesa’: “Gennaio è lontano”. E quanto alla situazione infortunati, certo si potrebbe accendere un cero al santo che più ci aggrada (magari santo spirito, una parola talmente gettonata negli ambienti gialloblu da far invidia a quelli clericali), ma forse aiuterebbe anche, sfiga a parte, essere più giudiziosi in sede di mercato e poi nella gestione fisica degli stessi calciatori.

La lista della spesa prevede barattoli di colla per “stare uniti”, perché, va da sé, a furia di sentirlo ripetere, il sospetto che lo spogliatoio non sia proprio in totale armonia nasce; allora ecco che l’antico metodo superattack può tornare utile. Seguono squadra e righello per “fare quadrato”, altra hit del momento, sebbene la geometria servirebbe soprattutto in campo. L’auspicio, ovviamente, è che in qualche market immaginario vendano anche il gioco, le soluzioni alternative al centravanti classico (la vecchia e cara ‘palla a terra’), e si possano barattare un po’ dei soliti alibi che società e allenatore sciorinano ogni due per tre con quel tanto che basta di tempra per limitare i danni e restare a galla.

Il resto lo fa l’ideologia dell’attendismo, a cui pare essersi votato anche Setti, che pur tra qualche afflato calvinista da self-made man qual è (“Mi hanno insegnato che più si lavora più si possono ottenere risultati”), ha indicato la via del fato per guarire: aspettare dicembre e sperare (che l’infermeria si svuoti). Anch’io spero: che non sia già troppo tardi.

L’ULTIMATUM DI BIGON A MANDORLINI

Solo sette giorni fa Bigon e Mandorlini ci avevano segnalato che il Verona, nei primi tempi, è una delle migliori squadre d’Italia. Un po’ come avere una donna, ma  accontentarsi di un bacio asessuato e del letto vuoto. Fu l’apice delle ‘simpatiche’ dichiarazioni che da tempo tendono a giustificare, derubricare, minimizzare ogni delusione. Ma un bel tacer non fu mai scritto, verrebbe da dire dopo i 45′ di Marassi, che hanno spazzato via ogni no sense racchiuso negli insipidi brodini del solito “bisogna lavorare” (frase che non vuol dire nulla) e dell’immancabile “stiamo uniti” (per certi versi irrispettoso rivolto a un ambiente che non ha mai contestato). L’inquietante realtà invece l’ha fotografata oggi Giampaolo Pazzini: “Dopo il loro gol abbiamo smesso di giocare”. Parole che rimbombano sorde e grevi nel solito cianciare di circostanza. Perché questa arrendevolezza non è un bel viatico in vista non tanto della proibitiva Fiorentina, ma soprattutto dei tre scontri diretti (Carpi, Bologna, Frosinone) nelle prossime cinque partite, quando l’animus pugnandi conterà più di tutto.

Una rassegnazione che ha colpito pure il ‘pretesco’ Bigon, che dopo la gaffe di sette giorni fa sulla ‘vox populi’, si è pesantemente smarcato dall’allenatore, blindato solo una settimana fa, ora invece messo a un palmo di distanza ché non si sa mai: “Mandorlini? Vediamo di giornata in giornata”. Se non è un ultimatum, poco ci manca. Nel mare delle solite ovvietà e nel giorno dell’ennesima brutta figura, è questa l’unica novità in casa Hellas. Siamo alla resa dei conti? Quel che è certo è che Mandorlini è solo come non mai. Sogliano l’anno scorso e tre anni fa gli si piantò davanti come scudo, ora nel bene o nel male il tecnico dovrà cavarsela da sé.

GARDINI NON È PIÙ RICHELIEU

Benedetta fu la sosta. L’infermeria del Verona si è svuotata (Toni a parte, che però difficilmente rivedremo a breve) e gli acciaccati hanno potuto allenarsi con regolarità per ritrovare atletismo e nerbo. La pausa spero sia stata un toccasana anche moralmente: per tirare somme e sottrazioni di questo avvio negativo, per riannodare i fili, ritrovare slancio e autostima.

“Siamo preoccupati il giusto” ha detto il deus ex machina del Verona, al secolo Giovanni Gardini, fu Richelieu in un’epoca recente eppure, oggi, così lontana. L’epoca di quando il nostro, nascosto nelle retrovie, volutamente anonimo come i completi grigi di alta fattura che ama indossare, non muoveva un sopracciglio e non si scomponeva in quello sguardo perfettamente annodato come il nodo delle sue cravatte. Ora Richelieu non esiste più: dalla recente conferenza stampa all’Hellas Store Gardini è come tutti noi: si spazientisce, qua e là mostra le corde del nervosismo, le smorfie tradiscono l’umorale umanità di noi comuni mortali.

Credo dipenda dalla consapevolezza del doversi mostrare. Per indole e proverbiale riservatezza lui eviterebbe, ma glielo impone il ruolo di uomo forte di via Belgio nel post Sogliano. Il resto lo fa un avvio di campionato chiaramente non all’altezza delle aspettative presidenziali. Tuttavia il fu Richelieu, tra una risposta e l’altra ai cronisti, ha tenuto la barra dritta della coerenza sugli obiettivi del Verona, confermando le parole estive di Setti e poi del suo uomo di fiducia Bigon: “L’obiettivo resta quello di una salvezza tranquilla”. Il non voler rinegoziare al ribasso l’obiettivo, anzi il ribadirlo con chiarezza, dimostra nella fattispecie la serietà del direttore generale, che non ha cercato furbi riposizionamenti volti a sminuire o normalizzare la (momentanea) crisi. Gliene do atto.

Spero che abbia ragione lui e che il calciomercato estivo (economicamente frizzante, ma a mio modo di vedere non del tutto indovinato), la rosa e l’allenatore siano adeguati a un campionato meno travagliato, consono agli obiettivi e al Verona degli ultimi anni. Dieci giorni fa chi vi scrive si è espresso diversamente, chiedendo alla società di abbassare il tiro, paventando, a differenza di Gardini, un campionato di sofferenza. Ma qui siamo (ancora) nel campo delle opinioni e mi auguro ovviamente che quella sbagliata sia la mia.

LA SOCIETÀ ABBASSI IL TIRO

Premessa: in serie A le parole sono importanti, non solo quelle dentro lo spogliatoio, ma anche quelle rivolte alla stampa, utilizzata dagli addetti ai lavori per parlare ai tifosi. Setti al ‘Vighini Show’ lo scorso maggio, poi in estate, scolpì le sue parole nella pietra: “L’obiettivo è confermare o migliorare l’ultimo campionato, lo garantisco”. Bigon il 2 settembre ribadì: “Abbiamo costruito un organico clamorosamente competitivo per centrare l’obiettivo della salvezza”.  Ieri Eros Pisano è ritornato sul medesimo concetto: “L’obiettivo è quello di una salvezza tranquilla”. Tradotto: metà classifica, o comunque ben lontani dalla mischia di quelle 5-6 squadre in affanno. Come è sempre stato dal ritorno in A.

Dopo sette partite credo si possa dire che potrebbe non essere così, anzi: il Verona è nelle ‘sabbie mobili’ e forse dovrà lottare sino all’ultimo per uscirne, nonostante un mercato molto pubblicizzato e non certo sparagnino. L’unico vero e sacrosanto alibi che concedo sono gli infortuni a stretto giro di posta di Toni e Pazzini, ma come scrive Vighini in determinate circostanze sono mancate le prestazioni anche quando quell’alibi non reggeva. Credo siano state fatte delle valutazioni errate sul mercato, come ho avuto modo di spiegare in articoli recenti, ma anche in tempi non sospetti. Lo dico non per fare polemica, ma per capire, perché non ci può essere crescita senza consapevolezza: dal centrocampo trascurato, nonostante Ionita e Romulo fossero reduci da infortuni e non dessero piene garanzie già in precampionato (salvo poi ripiegare sullo svincolato Matuzalem a mercato finito); a riscatti non certo a costo zero (Bianchetti) forse avventati. Inoltre, come ha rimarcato sempre Bigon, quella della rosa ristretta (più i giovani) è stata una precisa scelta, se è vero che da regolamento un paio di tasselli erano ancora disponibili.

Ora molti, anche gli insospettabili, tirano in ballo Mandorlini. Lo ripeto: lui è sempre lo stesso, il suo calcio anche (al di là dei moduli). Ma ora il suo calcio è orfano di Toni – e di Iturbe e Romulo, e di Cacia e Martinho in B, ma anche di riserve bistrattate che l’anno scorso solo di gol ci hanno dato una decina di punti (ed escludo l’infortunato Ionita dall’elenco, sennò saremmo a 16). Non è una differenza da poco. Ci sono allenatori che con la tattica e il lavoro ‘di campo’ fanno la differenza; altri che basano le loro fortune sulla qualità dei singoli e l’efficace gestione del gruppo. Mandorlini appartiene alla seconda categoria: l’ho scritto, detto e pensato quando vinceva, lo scrivo, dico e penso ora che la classifica piange. E non è una diminutio affermarlo, o una critica, ma una constatazione, che forse può a sua volta spiegare il momento.

Ora sia benedetta la sosta. Pazzini è sulla via del recupero e gli acciaccati possono ritrovare la condizione. Speriamo di recuperare anche quell’abnegazione per “portare a casa il pane” (autocit.) che sinora spesso è mancata, tra barriere che si aprono, palloni persi banalmente in zone nevralgiche, rimonte subite, palloni in tribuna non pervenuti (e che ci vorrebbero). Il Verona affronterà l’Udinese in casa, avversario alla portata, Mandorlini Colantuono, un suo “gemello” per temperamento e modo di fare calcio. Serve solo vincere, spero se ne stiano accorgendo anche i cantori delle sconfitte, o gli esegeti dei pareggi, o i lacrimanti degli infortuni. Nel frattempo personalmente gradirei che la società approfittasse della pausa per dare un messaggio ben lontano da quel siamo “clamorosamente competitivi per la salvezza” di bigoniana memoria e lo stesso Setti abbassasse il tiro rispetto ai suoi (legittimi) auspici estivi. Sarebbe un intelligente passo indietro, un’apprezzabile lezione di umiltà. Una nuova consapevolezza. Un punto da cui ricominciare.

 

IL VERONA NON È MANDORLINI (NEL BENE E NEL MALE)

Il Verona, nel bene e nel male, non è Mandorlini. Lo scrivevo quando la popolarità dell’istrionico allenatore era ai massimi e oscurava i paritari meriti altrui (di Martinelli e Setti, di Gibellini e Sogliano); lo ribadisco ora che il suo share sembra in ribasso e lui l’unico responsabile della crisi dell’Hellas.

Lo scrivevo quando il tecnico approfittava dei risultati per attaccare i critici e dividere la piazza in pro o contro la sua persona (quasi che lui fosse il Verona e criticarlo volesse dire non essere tifosi); lo ribadisco ora che sembra il Malaussène di Pennac, di professione capro espiatorio.

Il Verona, nel bene e nel male, non è Mandorlini. Ho sempre ritenuto malsano considerare una vittoria del Verona una ‘sua’ vittoria; derubricare adesso ogni sconfitta a ‘sua’ sconfitta è persino deleterio. Non mi piace l’affermazione: “Mandorlini dalla sua ha sempre avuto i risultati”, perché sottintende che li ha ottenuti da solo, senza l’aiuto di dirigenti e calciatori bravi. Mi piace ancora meno però l’epitaffio dei giorni nostri: “Mandorlini ha finito un ciclo”, come se le colpe ora fossero tutte sue. Lui non mi garba, è risaputo, anzi dirò di più: io e lui ci stiamo cordialmente sulle palle. Ma questo aspetto non ha nessuna importanza: l’unico autografo chiesto in vita mia credo sia stato a Iuzzolino (Elkjaer l’ho sempre mancato) e non ho mai frequentato dirigenti, allenatori e calciatori (al mondo ci sono un sacco di persone più interessanti), neppure per una birra (sia chiaro, non ho nulla contro chi lo fa).  E’ noto pure che il suo calcio non mi fa impazzire, ma il suo calcio è sempre stato questo, con la differenza che ora sono andati in tilt i perni che gli permettono di proporlo efficacemente, o per infortunio (leggi il centravanti), o per scarso rendimento  (Viviani, che colleziona assist sui calci piazzati ma è fuorigiri in campo, e Sala). Eppure credo che Mandorlini vada sostenuto da Setti, Gardini e Bigon, anche pubblicamente, come è stato sostenuto da Setti, Gardini e Sogliano tre anni fa e l’anno scorso.

Perché Mandorlini, nel bene e nel male, non è il Verona,  ma è l’allenatore del Verona e anche chi non lo ama lo sostiene perché ama il Verona. E’ un sillogismo banale questo, che forse qualcuno  negli ultimi anni di vittorie ha dimenticato (con stucchevoli plebiscitarismi personali e l’Hellas in secondo piano), ma che va ricordato ora nelle sconfitte.

PORTARE A CASA IL PANE

“Sconfitta immeritata, ma dobbiamo fare ancora di più, perché in questo momento non basta quello che facciamo. Il calcio è impietoso, pensiamo alla Lazio”. Questo in sintesi il Mandorlini pensiero e mi trova d’accordo. L’emergenza c’è, fatta di sfortuna vera (Toni, Pazzini e Hallfredsson), ma anche di gestioni discutibili (Romulo, Ionita e Marquez). L’emergenza c’è, ma in questo momento compiacersi di aver perso “bene” non aiuta a uscire dalla crisi e Mandorlini, a differenza dei buonisti, ha mostrato di esserne consapevole, al netto delle (reali) attenuanti (Pazzini e arbitraggio). La sfortuna, tanta o poca che sia, non la governi, i miglioramenti o i peggioramenti sì. Parlare del fato rischia di immergerci in un torpore oppiaceo senza fine.

L’emergenza deve rendere partecipi, non assopire di comprensibile ma pericoloso vittimismo. Per affrontare ‘alla morte’ la Lazio, come se fosse l’ultima spiaggia, come se stessimo vivendo un epico spartiacque poi da raccontare. Portare a casa il pane, come in un vecchio film neorealista in bianco e nero. Non altro, non importa come: se in attacco o in trincea, se di fioretto o di spada, se con le maglie imbiancate di ritrovata classe, o sudate e infangate di vittorioso affanno. L’ho detto ieri in tv: in questa situazione non è disdicevole giocare per il punto, per muovere la classifica, waiting in the world to change. I fattori di fiducia non mancano: Sala cresce, Siligardi è più a suo agio nel vivo del gioco, Greco non sta facendo rimpiangere Hallfredsson, Bianchetti, Helander e Zaccagni promettono; ma come ha detto Mandorlini serve “fare ancora di più”, perché così “non basta”. E’ vero.