GARDINI NON È PIÙ RICHELIEU

Benedetta fu la sosta. L’infermeria del Verona si è svuotata (Toni a parte, che però difficilmente rivedremo a breve) e gli acciaccati hanno potuto allenarsi con regolarità per ritrovare atletismo e nerbo. La pausa spero sia stata un toccasana anche moralmente: per tirare somme e sottrazioni di questo avvio negativo, per riannodare i fili, ritrovare slancio e autostima.

“Siamo preoccupati il giusto” ha detto il deus ex machina del Verona, al secolo Giovanni Gardini, fu Richelieu in un’epoca recente eppure, oggi, così lontana. L’epoca di quando il nostro, nascosto nelle retrovie, volutamente anonimo come i completi grigi di alta fattura che ama indossare, non muoveva un sopracciglio e non si scomponeva in quello sguardo perfettamente annodato come il nodo delle sue cravatte. Ora Richelieu non esiste più: dalla recente conferenza stampa all’Hellas Store Gardini è come tutti noi: si spazientisce, qua e là mostra le corde del nervosismo, le smorfie tradiscono l’umorale umanità di noi comuni mortali.

Credo dipenda dalla consapevolezza del doversi mostrare. Per indole e proverbiale riservatezza lui eviterebbe, ma glielo impone il ruolo di uomo forte di via Belgio nel post Sogliano. Il resto lo fa un avvio di campionato chiaramente non all’altezza delle aspettative presidenziali. Tuttavia il fu Richelieu, tra una risposta e l’altra ai cronisti, ha tenuto la barra dritta della coerenza sugli obiettivi del Verona, confermando le parole estive di Setti e poi del suo uomo di fiducia Bigon: “L’obiettivo resta quello di una salvezza tranquilla”. Il non voler rinegoziare al ribasso l’obiettivo, anzi il ribadirlo con chiarezza, dimostra nella fattispecie la serietà del direttore generale, che non ha cercato furbi riposizionamenti volti a sminuire o normalizzare la (momentanea) crisi. Gliene do atto.

Spero che abbia ragione lui e che il calciomercato estivo (economicamente frizzante, ma a mio modo di vedere non del tutto indovinato), la rosa e l’allenatore siano adeguati a un campionato meno travagliato, consono agli obiettivi e al Verona degli ultimi anni. Dieci giorni fa chi vi scrive si è espresso diversamente, chiedendo alla società di abbassare il tiro, paventando, a differenza di Gardini, un campionato di sofferenza. Ma qui siamo (ancora) nel campo delle opinioni e mi auguro ovviamente che quella sbagliata sia la mia.

LA SOCIETÀ ABBASSI IL TIRO

Premessa: in serie A le parole sono importanti, non solo quelle dentro lo spogliatoio, ma anche quelle rivolte alla stampa, utilizzata dagli addetti ai lavori per parlare ai tifosi. Setti al ‘Vighini Show’ lo scorso maggio, poi in estate, scolpì le sue parole nella pietra: “L’obiettivo è confermare o migliorare l’ultimo campionato, lo garantisco”. Bigon il 2 settembre ribadì: “Abbiamo costruito un organico clamorosamente competitivo per centrare l’obiettivo della salvezza”.  Ieri Eros Pisano è ritornato sul medesimo concetto: “L’obiettivo è quello di una salvezza tranquilla”. Tradotto: metà classifica, o comunque ben lontani dalla mischia di quelle 5-6 squadre in affanno. Come è sempre stato dal ritorno in A.

Dopo sette partite credo si possa dire che potrebbe non essere così, anzi: il Verona è nelle ‘sabbie mobili’ e forse dovrà lottare sino all’ultimo per uscirne, nonostante un mercato molto pubblicizzato e non certo sparagnino. L’unico vero e sacrosanto alibi che concedo sono gli infortuni a stretto giro di posta di Toni e Pazzini, ma come scrive Vighini in determinate circostanze sono mancate le prestazioni anche quando quell’alibi non reggeva. Credo siano state fatte delle valutazioni errate sul mercato, come ho avuto modo di spiegare in articoli recenti, ma anche in tempi non sospetti. Lo dico non per fare polemica, ma per capire, perché non ci può essere crescita senza consapevolezza: dal centrocampo trascurato, nonostante Ionita e Romulo fossero reduci da infortuni e non dessero piene garanzie già in precampionato (salvo poi ripiegare sullo svincolato Matuzalem a mercato finito); a riscatti non certo a costo zero (Bianchetti) forse avventati. Inoltre, come ha rimarcato sempre Bigon, quella della rosa ristretta (più i giovani) è stata una precisa scelta, se è vero che da regolamento un paio di tasselli erano ancora disponibili.

Ora molti, anche gli insospettabili, tirano in ballo Mandorlini. Lo ripeto: lui è sempre lo stesso, il suo calcio anche (al di là dei moduli). Ma ora il suo calcio è orfano di Toni – e di Iturbe e Romulo, e di Cacia e Martinho in B, ma anche di riserve bistrattate che l’anno scorso solo di gol ci hanno dato una decina di punti (ed escludo l’infortunato Ionita dall’elenco, sennò saremmo a 16). Non è una differenza da poco. Ci sono allenatori che con la tattica e il lavoro ‘di campo’ fanno la differenza; altri che basano le loro fortune sulla qualità dei singoli e l’efficace gestione del gruppo. Mandorlini appartiene alla seconda categoria: l’ho scritto, detto e pensato quando vinceva, lo scrivo, dico e penso ora che la classifica piange. E non è una diminutio affermarlo, o una critica, ma una constatazione, che forse può a sua volta spiegare il momento.

Ora sia benedetta la sosta. Pazzini è sulla via del recupero e gli acciaccati possono ritrovare la condizione. Speriamo di recuperare anche quell’abnegazione per “portare a casa il pane” (autocit.) che sinora spesso è mancata, tra barriere che si aprono, palloni persi banalmente in zone nevralgiche, rimonte subite, palloni in tribuna non pervenuti (e che ci vorrebbero). Il Verona affronterà l’Udinese in casa, avversario alla portata, Mandorlini Colantuono, un suo “gemello” per temperamento e modo di fare calcio. Serve solo vincere, spero se ne stiano accorgendo anche i cantori delle sconfitte, o gli esegeti dei pareggi, o i lacrimanti degli infortuni. Nel frattempo personalmente gradirei che la società approfittasse della pausa per dare un messaggio ben lontano da quel siamo “clamorosamente competitivi per la salvezza” di bigoniana memoria e lo stesso Setti abbassasse il tiro rispetto ai suoi (legittimi) auspici estivi. Sarebbe un intelligente passo indietro, un’apprezzabile lezione di umiltà. Una nuova consapevolezza. Un punto da cui ricominciare.

 

IL VERONA NON È MANDORLINI (NEL BENE E NEL MALE)

Il Verona, nel bene e nel male, non è Mandorlini. Lo scrivevo quando la popolarità dell’istrionico allenatore era ai massimi e oscurava i paritari meriti altrui (di Martinelli e Setti, di Gibellini e Sogliano); lo ribadisco ora che il suo share sembra in ribasso e lui l’unico responsabile della crisi dell’Hellas.

Lo scrivevo quando il tecnico approfittava dei risultati per attaccare i critici e dividere la piazza in pro o contro la sua persona (quasi che lui fosse il Verona e criticarlo volesse dire non essere tifosi); lo ribadisco ora che sembra il Malaussène di Pennac, di professione capro espiatorio.

Il Verona, nel bene e nel male, non è Mandorlini. Ho sempre ritenuto malsano considerare una vittoria del Verona una ‘sua’ vittoria; derubricare adesso ogni sconfitta a ‘sua’ sconfitta è persino deleterio. Non mi piace l’affermazione: “Mandorlini dalla sua ha sempre avuto i risultati”, perché sottintende che li ha ottenuti da solo, senza l’aiuto di dirigenti e calciatori bravi. Mi piace ancora meno però l’epitaffio dei giorni nostri: “Mandorlini ha finito un ciclo”, come se le colpe ora fossero tutte sue. Lui non mi garba, è risaputo, anzi dirò di più: io e lui ci stiamo cordialmente sulle palle. Ma questo aspetto non ha nessuna importanza: l’unico autografo chiesto in vita mia credo sia stato a Iuzzolino (Elkjaer l’ho sempre mancato) e non ho mai frequentato dirigenti, allenatori e calciatori (al mondo ci sono un sacco di persone più interessanti), neppure per una birra (sia chiaro, non ho nulla contro chi lo fa).  E’ noto pure che il suo calcio non mi fa impazzire, ma il suo calcio è sempre stato questo, con la differenza che ora sono andati in tilt i perni che gli permettono di proporlo efficacemente, o per infortunio (leggi il centravanti), o per scarso rendimento  (Viviani, che colleziona assist sui calci piazzati ma è fuorigiri in campo, e Sala). Eppure credo che Mandorlini vada sostenuto da Setti, Gardini e Bigon, anche pubblicamente, come è stato sostenuto da Setti, Gardini e Sogliano tre anni fa e l’anno scorso.

Perché Mandorlini, nel bene e nel male, non è il Verona,  ma è l’allenatore del Verona e anche chi non lo ama lo sostiene perché ama il Verona. E’ un sillogismo banale questo, che forse qualcuno  negli ultimi anni di vittorie ha dimenticato (con stucchevoli plebiscitarismi personali e l’Hellas in secondo piano), ma che va ricordato ora nelle sconfitte.

PORTARE A CASA IL PANE

“Sconfitta immeritata, ma dobbiamo fare ancora di più, perché in questo momento non basta quello che facciamo. Il calcio è impietoso, pensiamo alla Lazio”. Questo in sintesi il Mandorlini pensiero e mi trova d’accordo. L’emergenza c’è, fatta di sfortuna vera (Toni, Pazzini e Hallfredsson), ma anche di gestioni discutibili (Romulo, Ionita e Marquez). L’emergenza c’è, ma in questo momento compiacersi di aver perso “bene” non aiuta a uscire dalla crisi e Mandorlini, a differenza dei buonisti, ha mostrato di esserne consapevole, al netto delle (reali) attenuanti (Pazzini e arbitraggio). La sfortuna, tanta o poca che sia, non la governi, i miglioramenti o i peggioramenti sì. Parlare del fato rischia di immergerci in un torpore oppiaceo senza fine.

L’emergenza deve rendere partecipi, non assopire di comprensibile ma pericoloso vittimismo. Per affrontare ‘alla morte’ la Lazio, come se fosse l’ultima spiaggia, come se stessimo vivendo un epico spartiacque poi da raccontare. Portare a casa il pane, come in un vecchio film neorealista in bianco e nero. Non altro, non importa come: se in attacco o in trincea, se di fioretto o di spada, se con le maglie imbiancate di ritrovata classe, o sudate e infangate di vittorioso affanno. L’ho detto ieri in tv: in questa situazione non è disdicevole giocare per il punto, per muovere la classifica, waiting in the world to change. I fattori di fiducia non mancano: Sala cresce, Siligardi è più a suo agio nel vivo del gioco, Greco non sta facendo rimpiangere Hallfredsson, Bianchetti, Helander e Zaccagni promettono; ma come ha detto Mandorlini serve “fare ancora di più”, perché così “non basta”. E’ vero.

MOMENTO DELICATO

Ci sono dettagli che fotografano un momento. Ieri ero a Bergamo, seduto nella tribuna centrale dietro alle panchine. Mandorlini dopo qualche minuto era già accovacciato con lo sguardo a terra, subitaneamente conscio del cattivo approccio alla partita del Verona. Già nel primo tempo, da un lato chiedeva di alzare i ritmi, dall’altro esortava a rallentare le rimesse in gioco, quasi che si rendesse conto che in quelle condizioni anche un rabberciato pareggio sarebbe stato oro. E così è stato. Il gioco latita (palla lunga per il centravanti e morta lì), il centrocampo è contato (ma delle condizioni di Ionita e Romulo si sospettava dall’inizio, vero Bigon e Gardini?) e Toni – da due anni frontman del monotema tattico mandorliniano – si è fatto male. Tutto sembra girare contro e ci aspetta un trittico (Inter, Lazio e Chievo) mica da scherzo. Pure Mandorlini, mai visto così abbattuto e critico in sala stampa, ha rinunciato a rinvangare il suo romantico passato a chi gli chiedeva dell’Inter. E’ un segnale: non è tempo di ricordi, ma di punti che servono come il pane. Perché è vero che siamo solo all’inizio, ma ritrovarsi già a rincorrere renderebbe tutto più complicato.

SI FACCIA CHIAREZZA SU PAZZINI

Dichiarazione ‘pesante’ di Mandorlini a Sky: “Toni e Pazzini per ora non possono giocare insieme, più avanti vedremo”.  Dichiarazione anche curiosa per quell’avverbio “ora”. Dunque è solo questione di tempo? Per quale motivo? Forse la squadra – nonostante la stagione sia iniziata da quasi due mesi – non è ancora in grado di sostenere tatticamente i due attaccanti? Oppure Mandorlini è convinto in assoluto che la convivenza non sia possibile e con quel “per ora” vuole solo guadagnare tempo? Sarebbe bene chiarire la questione, perché Pazzini non è venuto a Verona per stare a guardare e la filastrocca che lui è “il futuro”, nel senso di erede di Toni, è una cazzata per i creduloni. Nel calcio non esiste futuro, per un attaccante men che meno, specie nell’anno dell’Europeo. Lo stesso Pazzini lo ha ribadito senza giri di parole qualche settimana fa: “Io e Toni possiamo giocare assieme, sennò non sarei venuto a Verona”.

Parole che non lasciano adito a interpretazioni, come il passato dell’attaccante di Pescia, che lasciò la Fiorentina per le troppe panchine e l’anno scorso ha avuto vivaci confronti con Inzaghi al Milan per lo stesso motivo. Insomma su Pazzini va fatta chiarezza assoluta per non farlo diventare un ‘caso’. L’esborso economico della società è stato notevole e Setti  ha detto chiaro e tondo che l’ingaggio del giocatore è stato condiviso con l’allenatore (e Mandorlini non ha mai smentito, né dato da intendere il contrario). La mancanza di risultati poi non contribuisce alla serenità delle parti in causa.

Questo non significa ovviamente che il Verona non vince perché non c’è Pazzini. Il problema è di fondo: l’Hellas non sa imporre il suo ritmo (nel primo tempo il Toro camminava, ma il Verona attaccava senza aggressività) e subisce quello altrui (Marassi la partita simbolo, ma anche lo spento Torino è riuscito a infilarci nelle rare accelerazioni). Succede per la poca condizione di uomini cardine come Sala (male), Toni e Viviani (oggi comunque positivi), ma anche per la mancanza a tratti di imprevedibilità. Questo non è un vizio recente: l’anno scorso un Toni straordinario celò molte pecche generali, quello precedente la squadra era individualmente molto forte; ora siamo gli stessi della scorsa stagione ma con un Toni lontano dal formato extraterrestre. Augurandoci che Toni torni al top e ci dimezzi i problemi, credo non sia follia pensare a qualche variante nel tipo di calcio proposto. Non è una questione di moduli, ma di saper sfruttare le caratteristiche dei giocatori più bravi.  E qui torniamo a Pazzini, ma anche a Siligardi, poco adatto ai ripiegamenti del 4-5-1 muscolare di Mandorlini. Forse un po’ di flessibilità tattica non farebbe male.

 

 

 

DAL ‘VANGELO’ SECONDO LUCA (TONI)…

Luca Toni, domenica 30 agosto, nella sala stampa di Marassi: “La Roma ci aveva un po’ sottovalutato (…). Prendiamo tanti gol e non sempre se ne possono fare tanti, quindi la cosa principale è cominciare a prenderne meno. E’ una cosa su cui penso voglia lavorare il mister…”.

Riccardo Bigon, ds del Verona, due giorni dopo: “Ci sono squadre che hanno centrali molto meno bravi dei nostri, ma che sono impostate difensivamente molto bene e subiscono pochi gol. Noi siamo impostati per essere propositivi e fare tanti gol, ovvio patire qualcosa”.

Dichiarazioni contrastanti: l’attaccante dice che non sarà sempre possibile segnare tanto, il ds invece risponde che siamo impostati per segnare. Toni ha voluto redistribuire le responsabilità (tradotto “non posso pensarci sempre io”) e lanciato la palla al suo allenatore (come dire “fa in modo di risolvere il problema”), mentre Bigon ha spiegato che il problema è l’atteggiamento tattico e non sono i singoli, difendendo neanche troppo velatamente il suo operato in risposta a chi gli chiedeva conto del mancato acquisto di un difensore. Peraltro l’ex dirigente del Napoli ha pubblicizzato Helander e Bianchetti (“per me sono dei titolari”) ed è un fatto da tener presente riguardo le future scelte di Mandorlini.

Ma al di là delle dichiarazioni divergenti dei due, registro che finalmente l’annoso problema dei gol subiti viene pubblicamente affrontato con sincerità (e anche un filo di tensione) dagli stessi tesserati del Verona, senza le solite frasi di rito. Voglio dire, perlomeno se ne parla davvero. Mi direte: ma in privato ne avranno sempre parlato anche negli anni scorsi. Sì, ma sappiamo che passare dal privato al pubblico cambia la percezione della gravità del problema anche negli stessi tesserati. Proprio per questo il tempismo delle dichiarazioni di Toni (fatte alla 2^ giornata) non è casuale. Il suo non è solo un campanello di allarme, ma una presa di coscienza che il campione del mondo vuole condividere. Da due anni il Verona campa sui suoi gol, eppure Toni è il primo a sapere che alla sua età ogni anno che passa è un nuovo macigno e che dunque non può garantire automaticamente 20 gol a campionato. Lo si dice ogni anno? Sì ed è giusto, perché quello che ha fatto Toni fino oggi non è normale, ma straordinario.

Dobbiamo prenderne atto immediatamente, anziché crogiolarci con rassicuranti chiose (“la squadra è la stessa dell’anno scorso e quindi può solo essere più forte”) e partire da due assunti: la squadra è diversa anche se è la stessa (ogni annata fa storia a sé, altrimenti tutti club che hanno fatto bene l’anno precedente confermerebbero in blocco i propri giocatori, e poi i nostri titolari non sono giovanissimi); e quest’anno non possiamo cullarci sulle prodezze di Toni o Pazzini.

P.S. il “vangelo” del titolo rigorosamente tra virgolette, questo è solo calcio.

 

 

 

 

 

LA ‘ROMETTA’ CI HA ILLUSO…

Luca Toni, ieri sera dopo il KO di Marassi, ha centrato il bersaglio con una dichiarazione dai più sottovalutata, o nel migliore dei casi fraintesa: “Eravamo fisicamente superiori, ma loro avevano più ‘gamba’ di noi”. Credo che con il termine gergale “gamba” Toni non volesse additare tanto la condizione atletica, quanto una caratteristica del Verona, che dispone di giocatori muscolari, ma non velocissimi, specie nelle zone nevralgiche del campo, e che dunque può andare in sofferenza contro avversarie che su dinamismo e aggressività basano il loro calcio.

Scrivevo una settimana fa su questo blog: “Aspetto il Verona contro squadre più dinamiche e organizzate della Roma vista a Verona, forte nei singoli, ma apparsa senza un’idea di gioco e con uno sterile e lento tiki-taka a centrocampo che certamente ha favorito la nostra zona centrale dei non fulmini di guerra Greco, Moras e dello stesso Marquez. A Marassi contro un Genoa gasperiniano meno forte della Roma, ma in casa tradizionalmente “verticale” nel gioco, atletico e dai ritmi alti di manovra, sarà una partita più difficile per le nostre caratteristiche”.

Come temevo con avversari di quella pasta soffriamo da matti. Almeno Marassi dice questo. “Ma abbiamo fermato la Roma che ha battuto la Juve”, affermeranno coloro che si aggrappano a sillogismi fuorvianti.  Marco Gaburro ieri sera a Telenuovo ha detto bene:  Genoa-Verona è stata una partita di altro spessore sul piano del ritmo rispetto a Verona-Roma, ma anche rispetto a Roma-Juventus. In buona sostanza, come ho ricordato dagli stessi studi: non si possono confrontare due partite diverse, quella Roma non fa testo proprio perché atleticamente abulica e quindi incapace di mettere in luce i nostri difetti.

Come fare, allora con squadre tipo Genoa? Non lasciare loro il pallino del gioco e imporre la propria fisicità giocando con due punte come Pazzini e Toni. Ripeto, non sempre, ma quando l’avversario ha le caratteristiche di cui sopra. Poi certo possiamo disquisire di tattica, moduli e atteggiamento, o di Sala distratto dal mercato. Ma sono discorsi sterili. Piuttosto ascoltiamo Toni e riflettiamo.

GRANDE VERONA, MA NON ILLUDA LA ‘ROMETTA’

Pressing. Fase difensiva. E un terzino sinistro. Queste le buone nuove di ieri. Aggiungiamoci un Mandorlini rilassato in sala stampa, spogliato da bizzose polemiche e riferimenti più o meno diretti alla rosa e al mercato, e a suo agio nel ruolo che meglio gli riesce: allenare, senza guerre e nemici, senza Montecchi e Capuleti. Ovviamente aspetterei per giudizi definitivi, perché la Roma del Bentegodi è apparsa una squadra in crisi di gioco e identità. Mandorlini invece non ha sbagliato una virgola.

FASE DIFENSIVA. Il Verona non ha rinculato nella propria trequarti e ha tenuto alte e corte le linee di centrocampo e difesa. Cosa rara nelle scorse stagioni. Con questo atteggiamento ne hanno giovato anche Marquez e Moras, mai impegnati in affannosi e pericolosi ‘uno contro uno’, a dimostrazione di una tesi che abbiamo sempre sostenuto: se migliora la tattica migliorano anche i singoli, frettolosamente e superficialmente messi sul banco degli imputati in passato. Permettetemi una parola su Marquez: per i suoi trascorsi di campione e la sua professionalità meritava la conferma; il messicano è una risorsa e non un problema, a patto che la sua classe e le sue caratteristiche vengano salvaguardate e non messe alla berlina con gli atteggiamenti tattici sovente suicidi dell’anno scorso. Precisiamo, sarebbe sbagliato e riduttivo colpevolizzare il solo Bordin, ma i fatti dicono che con il cambio dello staff tecnico (e dunque l’autocritica dello stesso Mandorlini) qualcosa di nuovo e migliore si è visto.

SOUPRAYEN. II francese ha ripetuto la promettente prova con il Foggia. L’impressione? Piede educato, elegante falcata e personalità. Se si conferma abbiamo trovato un fluidificante coi fiocchi che mancava dai tempi di Falsini e Seric e permette una soluzione offensiva in più. Se è questo, un plauso a Gardini e Bigon.

DIECI UNDICESIMI. Mandorlini ha schierato la squadra dello scorso anno, ad eccezione di Souprayen, a dimostrazione del valore della rosa costruita un anno fa, a torto criticata. Tuttavia Gardini e Bigon, al di là della dichiarazioni di facciata sul mercato chiuso in entrata, devono provare a colmare le lacune attuali. In difesa serve un centrale, mentre a centrocampo, oltre all’assenza del regista, c’è un problema numerico, specie dovesse partire Sala.

NO ILLUSIONI. Sì all’entusiasmo, che è linfa vitale, non alle precoci illusioni. Aspetto il Verona contro squadre più dinamiche e organizzate della Roma vista a Verona, forte nei singoli, ma apparsa senza un’idea di gioco e con uno sterile e lento tiki-taka a centrocampo che certamente ha favorito la nostra zona centrale dei non fulmini di guerra Greco, Moras e dello stesso Marquez. A Marassi contro un Genoa gasperiniano meno forte della Roma, ma in casa tradizionalmente “verticale” nel gioco, atletico e dai ritmi alti di manovra, sarà una partita più difficile per le nostre caratteristiche. Ma se il Verona è questo può vincere anche lì.

IL CALCIO E’ SOFFERENZA (E CI MANCAVA FOTTUTAMENTE)

“Ho cominciato a provare gusto nella sofferenza che il calcio procura”. Lo so, citare l’inflazionato (ma sempre eterno) “Febbre a 90’” non è il massimo dell’originalità, ma domani riparte quell’antico rito che è il campionato e solo chi vive il calcio (non chi lo segue) può capire la frase di Nick Hornby. Perché, cari sportivi, inculcatevelo in testa, il calcio non è spettacolo, divertissement, ma sofferenza. Sofferenza pure masochistica, perché in fondo ci piace, tanto da sentirci smarriti e orfani poi nel piattume estivo, così crudo, povero e impalpabile nella sua inerzia da rispolverare – per descriverne il vuoto – il “sono andato a letto presto” di Robert De Niro-“Noodles” di ‘C’era una volta in America’.

Sia benedetto dunque il campionato. Sia benedetto questo stato d’irrequietudine che ci accompagnerà come un’ombra nelle nostre 38 settimane di vita parallela. Sia benedetta questa voglia di tornare a tifare, condividere una gradinata, “sacramentare”, godere, o piangere, o tutte e due le cose insieme. Domani all’entrata dello stadio l’emozione sarà nuova e antica allo stesso tempo, perché come scrive Hornby “la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione”.

Con le sue liturgie laiche, con i suoi riti pagani che ci mancavano fottutamente. Bambini o adulti non importa, perché in fondo poi è lo stesso,  perché del resto ci vuole “del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti” (“La canzone dei vecchi amanti” versione Battiato) e il Verona in questo un po’ ci aiuta. Buon campionato vecchio Hellas!