CHIEVOLANDIA: LA CADUTA DELL’ULTIMO TABU’

“Isola felice”, “miracolo”, “favola di quartiere”. Ricordate la retorica dei corazzieri mediatici sul Chievo in tutti questi anni? Quattro lustri a raccontare le gesta di un club considerato mosca bianca nel calcio frenetico, milionario e asettico del nuovo millennio. La trama giornalistica era semplice ed efficace: la società (la sola) “pane e salame” come “spot dell’altro calcio”,  avverso s’intende a quello dei “paperoni” (tutti gli altri, indistintamente); un angolo di mondo scevro di pressioni e (pur umanissime) invidie e gelosie. Insomma, a leggere i fiumi di inchiostro dedicati in tutti questi anni al club della Diga pareva di essere capitati – almeno a livello calcistico – nell’anarchica e immaginaria isola di Utopia di Tommaso Moro, fondata al suo interno da solidarietà, collettivismo individuale (e non ideologico) e amicizia.

Ma poi venne il giorno… Già, poi è arrivato il giorno in cui tutta questa solenne prosopopea si è sbriciolata in cinque minuti. Le dimissioni, avvolte nel mistero, di una figura storica come quella di Giovanni Sartori perlomeno hanno avuto il merito di mostrare il Chievo per quello che è e forse è sempre stato: una società come tutte le altre nei suoi pregi e nei suoi difetti, coi suoi talenti ma anche i suoi narcisismi, la sua organizzazione ma anche i suoi egoismi, dove si può condividere, ma anche litigare, sopportare e addirittura divorziare, perfino dall’artefice della scalata dalla C ai preliminari di Champions League.

L’addio di Sartori è, se vogliamo, la rottura dell’ultimo tabù della Chievolandia mai esistita (se non sui giornali). A chi in passato gli chiedeva del perché si fosse fermato così a lungo nella società della Diga, il ds spiegava: “Non mi vedo lontano da qui, me ne andrò solo se non mi vorranno più”. Parole eloquenti, probabilmente Sartori si è sentito messo da parte senza troppi complimenti. Del resto non succede in tutti i club, in tutte le aziende e in tutti gli uffici?

Piuttosto, finalmente spatinato dalla retorica della favola, per il Chievo comincia ora la sfida più difficile: continuare a fare calcio, ma  da “normali” anche agli occhi dell’opinione pubblica. E’ questa la vera rivoluzione, altroché.

I CALCIATORI? CONTA SOLO IL VERONA

I petroldollari arabi hanno sedotto Marquinho, così sul web leggo commenti poco simpatici nei confronti del centrocampista brasiliano. Eppure mi chiedo, quanti altri al suo posto avrebbero fatto diversamente? Qualcuno ha paragonato il “mercenarismo” dell’ex romanista alla fedeltà di Maietta, tuttavia il confronto non regge. Il buon Mimmo (che va ringraziato per quanto ci ha dato in questi quattro anni e che rimane una persona genuina al di là delle polemiche di questi giorni ) un’offerta del genere non l’ha ricevuta e ad oggi – in attesa di trovare una buona sistemazione per i suoi desiderata – la migliore soluzione per lui è rispettare il contratto che lo lega a Via Belgio. Giusto così, com’è giusta la scelta di Marquinho.

Attenzione, scrivo con l’inchiostro del disincanto, non con quello del mondo che vorrei, perché stiamo parlando di professionisti, sempre e comunque, anche nei casi più insospettabili. Professionista, non bandiera, fu Del Piero quando decise di rimanere alla Juventus in B, forte di un contratto plurimilionario che altrove non avrebbe trovato (era reduce da due anni da panchinaro); al di là di tutta la retorica che si fece all’epoca. Professionista è stato Hallfredsson a gennaio, quando prima del rinnovo contrattuale si è guardato intorno tirando un po’ la corda. Professionista è Iturbe, che attende con la pazienza di chi sa che – comunque vada – andrà a guadagnare di più su palcoscenici agonisticamente più importanti. Professionista è Romulo e lo è il suo procuratore che cerca di sfruttare il più possibile il valore di mercato attuale del suo assistito. Professionista è Prandelli, che nonostante le promesse e un tatuaggio lasciò Verona per un contratto col Venezia (non con la Juve, il Milan o l’Inter) e adesso si dimette da ct triplicando il suo ingaggio al Galatasaray. Professionista è Sogliano, che prima o poi al Milan andrà (ma intanto teniamocelo stretto!), e professionista è Mandorlini, il cui il legame con la città è vero, ma che se lo chiamasse una grande o un danaroso club straniero probabilmente faticherebbe a rifiutare. E professionisti sono, pur in situazioni di mercato opposte, sia Marquinho, che ha diritto a firmare con gli arabi, che Maietta, che a 32 anni ha piena ragione di voler aspettare una chiamata dalla A.

Perché ricordo questo banalissimo concetto? Perché credo serva a farci riflettere, intendo noi giornalisti e una parte dei tifosi. A volte non dovremmo cedere alle tentazioni omologanti, ma invece ispirarci al motto della curva sud “cambieranno i giocatori, il presidente e l’allenator, ma il Verona resterà per sempre nel mio cuor”. Oggi più che mai. Quindi basta isterie (buone o cattive) mediatiche su questo o quel giocatore, piuttosto concentriamoci sul patrimonio identitario (storia, maglia, simboli, colori, senso di appartenenza) che rappresenta il Verona Hellas. Gli onanismi da calciomercato, gli psicodrammi collettivi per l’addio del campione di turno, le ipertrofie all’americana del numero di maglia da ritirare, i cori per tizio, caio o sempronio lasciamoli ad altre città, ad altre squadre e ad altri tifosi. Perché, come declama un altro coro, l’unico campione è l’Hellas Verona. Il resto è avanspettacolo.

CARO-ABBONAMENTI? RIAPRITE CURVA NORD E PARTERRE

Il mio Mondiale in un’immagine: Parolo che si scalda nell’intervallo di Italia-Uruguay. Un riflesso condizionato e… sono scattato urlante: “Remondina cambia!”. Certi amori non finiscono cantava Venditti; be’ caro Antonello nemmeno certi malinconici ricordi. Quel Verona di serie C, che ora sembra lontano anni luce, era povero e con dei limiti, il suo allenatore bravino e precisino, insomma troppo “ino”, cioè puntuale nella didattica ma senza genio e grande talento, eppure quell’anno sfiorammo i playoff promozione e rivivemmo piccole speranze sepolte da tempo (il calcio come passione popolare vive di grandi slanci, traguardi raggiunti o solo lambiti, storie di vinti e vincenti, in quale categoria poco conta). E appunto il vituperato Remondina, uomo onesto e (troppo) perbene per i tempi che corrono, si barcamenò tra mille incognite societarie (il rischio fallimento, la morte di Arvedì e il passaggio di proprietà a Martinelli con la paventata fusione). Voglio dire, non sarà stato il più grande allenatore che abbiamo avuto il gentil Remo, e vederlo allacciare alla vita la maglia della tuta come un improvvisato escursionista sul Carega non lo faceva brillare per carisma e immagine; e poi non attaccava i giornalisti e quindi non li intimoriva, e men che meno non regalava loro titoli e soffiate, ma il Depardieu di Rovato credo debba essere un tantino rivalutato: in fin dei conti ha tenuto a galla la barca facendo il lavoro sporco in un momentaccio della nostra storia, perdendo poi il campionato successivo con una squadra sopravvalutata da dirigenti (vero Bonato?) e mass media e la “guerra” interna in società. Ben più fallimentari di lui i meglio remunerati Reja, Cagni, Salvioni, Colomba e Giannini.

“Remondina cambia” del resto è un sempreverde cavallo di battaglia che potremmo adattare all’attuale calcio italiano, perché se Parolo – con tutto il rispetto – può dire di aver giocato un Mondiale significa che il nostro football è in stato comatoso e servirebbe una rivoluzione. Certo, se la soluzione è il ticket Macalli-Lotito come si prospetta, be’ altro che coma, prepariamoci a celebrare un bel funerale. I miei candidati sono Andrea Abodi e Damiano Tommasi, sebbene quest’ultimo un giorno lo vorrei nei quadri dirigenziali del Verona con un incarico simile a quello di Facchetti nell’Inter di Moratti. Chissà…

Il Verona ha aumentato i prezzi degli abbonamenti. Sicuramente la società avrà avuto le sue motivazioni, tra certosine ricerche di marketing e precisi indici statistici, ma io avrei preferito che la fedeltà dimostrata dai tifosi gialloblu in questi anni venisse riconosciuta con un gesto concreto. Più in generale, citando il mitico Lubrano, la domanda sorge spontanea: ma il calcio è (ancora) davvero di tutti? A Verona sì, a patto che il club (assieme al Comune proprietario dello stadio) riesca a far riaprire i settori popolari chiusi da una vita, cioè parte della curva nord e del parterre, vendendo poi i singoli biglietti a prezzi accessibili. Setti e Gardini – l’ho già detto in passato e lo ripeterò alla noia – nel giusto intento di dare managerialità e promuovere il brand non facciano l’errore di pensare al calcio solo come… managerialità e brand appunto. La migliore mossa di marketing, che di riflesso tirerebbe tutte le altre, è uno stadio pieno in tutti i settori, come in Germania. E Setti non ha detto più volte di ispirarsi al modello tedesco?

SETTI, IL FUTURO E L’IDENTITA’

In principio fu Ranzani. Mi divertivo a chiamarlo così, Maurizio Setti, nei primi tempi da presidente del Verona. Era un modo ironico per parodiare i tic e i vezzi dell’industriale di Carpi, tipico self-made man della provincia italiana, che mi ricordava l’imprenditore di Cantù un po’ smargiasso e un po’ rampante inventato da dj Angelo a Radio Deejay e portato sugli schermi Mediaset da Albertino a Zelig.

Ora il ranzanismo è bypassato: a distanza di due anni Setti ha dimostrato di essere persona sì esuberante e visionaria, eppure terribilmente concreta e – a differenza delle apparenze iniziali – poco incline a raccontarla e a raccontarcela.

Lontano dalla logica da padre padrone del “ghe pensi mi”, Setti ha creato una struttura moderna e orizzontale, divisa per aree di competenza dove la figura di riferimento delegata ha un potere autonomo. E i risultati sportivi e manageriali sono sotto gli occhi di tutti, anche del partito dei diffidenti che due anni fa spaccava il capello in quattro “perché Setti non è veronese” (come se questa fosse la discriminante per essere o non essere un buon presidente). Io all’epoca scrissi provocatoriamente “per fortuna”, perché così non saremmo stati fagocitati da certe logiche salottiere e gelosie di bottega tipiche della provincia.

E così è stato: Setti, dal punto di vista della gestione, ha sprovincializzato il club, slegandolo dal paternalismo ambiguo (eufemismo) di Pastorello, da quello ingenuo di Arvedi e da quello buono di Martinelli. Il suo obiettivo, neanche tanto celato, è espandere il brand fuori dalla provincia, dando al Verona un’ immagine moderna, e patrimonializzare la società (da qui l’Hellas Store e l’ambizione del centro sportivo per il settore giovanile). Nell’idea presidenziale il Verona deve vivere di luce propria e autofinanziarsi (perché come Setti sovente ricorda “non sono uno sceicco e l’epoca dei mecenati è finita”). In tal senso i diritti tv sono determinanti, ma non devono essere la sola voce di bilancio: il resto lo fanno la valorizzazione dei calciatori, del vivaio e il merchandising.

L’importante è che nell’intento di sprovincializzare (intento necessario se vuoi restare a galla nel calcio ahimè globalizzato di oggi) si salvaguardi sempre la cultura identitaria del Verona Hellas, un’anomalia positiva nel panorama calcistico italiano, una risorsa e, aggiungerei, anche un anticorpo all’omologazione che può fare la differenza, anche a livello di immagine. Credo che in questi due anni di conoscenza della piazza, Setti e il dg Gardini l’abbiano capito. Vecchio e nuovo assieme, il passato per consolidare il futuro, modernità e non modernismo. Questo è il must: non ci si scappa.

NON SI RIPARTE DA ZERO

“Cambieremo molti giocatori”, ha confidato Sogliano a Vighini. Non mi stupisce, l’avevo preannunciato il 14 aprile: “Aria di rivoluzione” scrivevo. Del resto il ds non è uomo da nascondere la polvere sotto il tappeto e sa che molti petali della rosa attuale sono appassiti. Non inganni infatti il bel campionato di quest’anno: come ho più volte evidenziato i problemi ci sono stati, spesso celati dal fosforo di Romulo, dal genio di Iturbe e dai gol di Toni (senza dimenticare il talento di Jorginho per metà torneo, “solo” 22 punti senza di lui nel ritorno). Ed è ovvio che coi probabili addii dei due sudamericani – entrambi in rampa di lancio – e con un Toni più vecchio e privo dello stimolo del mondiale, è necessario ripensare da cima a fondo alla squadra.

Come? Partiamo da un presupposto: grazie alle cessioni eccellenti (Iturbe, Romulo e la seconda metà di Jorginho) il Verona si ritroverà un tesoretto di circa 20-25 milioni di euro, a cui vanno sommati i diritti tv. Non tutto verrà reinvestito nella squadra (c’è in ballo anche il centro sportivo di proprietà, il sogno di Setti), però è chiaro che si può andare sul mercato con una certa autorevolezza. I ruoli chiave dove il club spenderà saranno: un centrale difensivo, un centrocampista centrale e una prima punta (Toni o non Toni).

In difesa cambierà quasi tutto, eccetto Moras e Rafael, comunque a loro volta in discussione. Qui sarebbe il caso di puntare meno su sudamericani inesperti e ballerini e più sul “made in Italy” (comprendendo nella categoria anche gli stranieri con esperienza nel nostro campionato). Certo i nostri sono più difficili da reperire e spesso costano di più, tuttavia non vedo alternative: se com’è presumibile avremo meno qualità davanti, dovremo garantirci dietro. Parallelamente Sogliano, come ha fatto intuire nell’ultima puntata del “Vighini Show”, chiederà miglioramenti tattici nella fase difensiva di Mandorlini curata dal suo vice Bordin. Stop agli eccessivi arretramenti in fase di non possesso che creano precarietà e affanni negli uno contro uno e in marcatura.

A centrocampo bisogna uscire da un equivoco, che riguarda il ruolo chiave, cioè il regista basso, o metodista che dir si voglia. Jorginho era talmente forte che metteva d’accordo tutti, ma non è un mistero che Sogliano in quella zona del campo preferisca giocatori “di tocco”, tecnici e capaci di fare gioco, mentre Mandorlini abbia più nelle corde i mediani interditori. A meno che non arrivi uno davvero forte, sarebbe il caso di accontentare il mister, vista la delicatezza del ruolo. Poi è tassativo riconfermare Marquinho, il “collante” della fase offensiva.

Davanti per sostituire Iturbe si pescherà ancora tra i giovani talenti del Sudamerica, ma Sogliano non ha fretta, perché non vuole sbagliare. Ma è sul centravanti che, rimanga o meno Toni, il Verona spenderà e andrà sul sicuro. Anche qui serve pazienza, sappiamo che il mercato delle punte entra nel vivo nelle ultime due settimane di agosto.

Postilla: niente paragoni col Catania e il Bologna di quest’anno, retrocesse dopo il brillante campionato precedente e alcune dolorose cessioni. Per carità, le loro storie ci devono insegnare a rimanere sull’attenti, ma il Verona ha una solidità societaria e finanziaria nemmeno lontanamente paragonabile a quella di etnei e felsinei. Mettiamocelo in testa: si riparte, ma non da zero.

IL VERONA? MOLTO PIU’ DI UNA CLASSIFICA

“Col Napoli non è una partita come un’altra e sarebbe servito un altro atteggiamento, al di là di classifica, punti e di fine o non fine stagione”. Ieri sera al Vighini Show ho esordito così. Il calcio non è solo matematica, marketing o business, ma soprattutto senso evocativo e identitario (suggestioni di cui peraltro si nutre lo stesso marketing) e ci sono partite che hanno una loro narrazione e il cui significato prescinde da tutto il resto.

Checché ne dicano i buonisti d’accatto, i quali blaterano di modello inglese (brividi sulla schiena, Oltremanica hanno nascosto la polvere sotto il tappetto ed eliminato la cosiddetta working class dagli stadi), di “stadi-teatro”, di curve plastificate stile commodore 64 e altre mostruosità simili, il calcio è senso di appartenenza, fazione, rivalità. Popolare e interclassista per definizione, esso è permeato di contrapposizioni del tutto naturali: odio (sportivo s’intende) contro amore, amico contro nemico ecc.

Come già accaduto altre volte (all’andata col Chievo, o lo stesso Napoli e con l’Inter al Bentegodi) in questa bellissima stagione, il Verona ha prestato il fianco a un rilassamento psicologico che, riverberatosi in campo, si è tuttavia alimentato di vigilie troppo morbide e mielose. Ricordate il pareggio impresa con la Juventus? O la vittoria contro il Milan di Balotelli? O il derby di ritorno? Ma anche le sconfitte combattute con le stesse Juve e Milan a casa loro? Quelle domeniche (o quei sabati) ci siamo emozionati non per questioni di classifica, ma per la storia intrisa di rivalsa e rivalità che quelle partite ci suggerivano, per le suggestioni che evocavano. Per le stesse ragioni la sconfitta di domenica sera e le altre succitate ci hanno lasciato un filo di amarezza.

E’ un po’ il discorso dei “40 punti”. Nessuno pretendeva l’Europa, ma solo di sognarla e inseguirla, e non per fregole tecniche o improvvise ambizioni (che lasciamo volentieri a quei club e a quei tifosi che pensano che il senso del calcio sia solo primeggiare), ma per uno slancio romantico, per costruirci il nostro romanzo. L’immaginario di noi tifosi si nutre di sfide: scudetto e gloriosi anni ’80 a parte, ci ricordiamo più dei mediocri anni di Mutti (non me ne voglia il buon Lino), o degli spareggi di Terni, Reggio Calabria, Busto Arsizio, Salerno?

La società, Mandorlini e i ragazzi ci hanno provato a inseguire il sogno (chi non ci crede vada a rivedersi le facce di Setti, Sogliano e del mister all’Olimpico dopo il “furto” di Mazzoleni), tuttavia la sensazione è che abbiano cominciato a farlo troppo tardi. Grida vendetta quel mese di marzo post “40 punti”, quelle 4-5 partite un po’ così…

La speranza è che il prossimo anno, comunque vada (che ci si ripeta, che si navighi a metà classifica, o che si lotti per la salvezza non importa), si tenga sempre tirato il filo della tensione. Perché vestire gialloblu va oltre a punti, classifiche e obiettivi. Vestire gialloblu va oltre a questo calcio moderno sparagnino e calcolatore.

Detto questo, che scrivo in ottica positivista come sprone per il futuro, dobbiamo fare i complimenti a società, allenatore e squadra. Sento in giro: “Stagione irripetibile”. E chi l’ha detto?

 

GRAZIE VERONA!

Va bene va bene così, cantava Vasco. Quel pezzo era più una rassegnata e fatalistica scrollata di spalle, che un gioioso accontentarsi. Ho colto la stessa delusa rassegnazione nella parole di Mandorlini ieri in sala stampa dopo Verona-Udinese. Più che l’orgoglio per il brillante campionato della sua squadra, il tecnico mostrava rammarico per l’obiettivo sfumato dell’Europa League: “Siamo contenti per quanto fatto, ma è ancora troppo fresca la delusione, permettetemi quindi di essere un po’ così…”, il suo esordio davanti ai microfoni.

Quindi oggi anche noi scriviamo “va bene va bene così”, ma a caldo (e solo a caldo) sappiamo che va bene a metà. L’occasione era ghiotta ed è sfumata per gli episodi di Roma lunedì e qualche punto di troppo lasciato per strada.

Il “furto con scasso” (per la sua grossolanità) di Mazzoleni ancora si faceva sentire ieri in campo. Mandorlini alla fine l’ha confermato: “Se avessimo vinto a Roma, avremmo giocato con un altro spirito oggi”. Invece si è visto un Hellas scarico, come se la benzina fosse finita, arroccato sulla difensiva e a maglie larghe nella propria area di rigore. Un Verona che ha confermato quanto diciamo dall’inizio: costruito per offendere e non difendersi, dà spettacolo quando impone il suo gioco, mentre se si “abbassa” troppo prende paga, per caratteristiche e anche per il livello non eccelso dei suoi difensori.

Peccato dunque, ma resta l’orgoglio di essersi riaffermati a grandi livelli dopo tanti anni. Adesso verrà il difficile, confermarsi, ma la sfida sarà anche affascinante. Ma per il futuro c’è tempo, ora digeriamo la delusione e sorridiamo per quanto il Verona ci ha regalato. Troppi anni di retrovie, pugni nei denti e foto scolorite in soffitta, quest’anno ci siamo ripresi il palcoscenico e il voluttuoso piacere di attimi di superba gioia. Grazie Verona!

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FURTO CON SCASSO

Furto con scasso. Altro che “Malox per pettinarci lo stomaco” (cit.), qui brucia tutto e non si pettina un bel niente. Quel rigore alla Lazio grida vendetta. Senso di impotenza, pugni all’aria, nervi a fior di pelle. Sogliano si morde la lingua e chissà quanto gli deve costare. Mandorlini, imbufalito con l’arbitro Mazzoleni, sfiora la rissa con Reja: interviene Gardini che se lo porta via per evitargli guai peggiori (o forse li evita Reja). Mazzoleni, angosciato e remissivo come un bambino scoperto a rubare la caramella, guadagna l’uscita: ha timbrato il cartellino e compiuto il suo dovere.

Italia del Gattopardo. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, spiegava arguto e spregiudicato Tancredi Falconeri nel romanzo di Tomasi di Lampedusa. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci s’azzecca”, sosteneva Belzebù Andreotti, che di cose maligne se ne intendeva.

Lazio-Verona per il Palazzo doveva finire pari e pari è stato. A cosa è servito Moggi? Perché l’ex arbitro De Santis è stato radiato? L’avete mai letto il corrosivo e sarcastico Daniel Pennac? Inventò il signor Malaussène, di professione capro espiatorio. Designare chi si prende le colpe e sacrificarlo è un modo per fingere di fare pulizia e nel frattempo “gattopardescamente” riciclarsi e combinarne di peggio.

Il calcio non è pulito, non lo è mai stato e Genny ‘a Carogna stavolta non c’entra. Lo sporca anche (soprattutto?) chi non ha tatuaggi, ma porta la cravatta e copiosi sorrisi di circostanza. Signori in abiti eleganti che la faranno franca, fino al prossimo scandalo, fino al prossimo capro espiatorio, fino alla prossima rivoluzione del “tutto cambi perché tutto rimanga com’è”. E mentre noi quel giorno alzeremo le spalle rassegnati e senza stupore, un nugolo di squali complici si mostreranno verginelle violate scandalizzate, in attesa di servire il prossimo Gattopardo. E’ il “circo mangione” (cit.), rutilante e falso, eterno e trasformista. Venghino signori venghino…

P.S. Grazie Verona, società, staff tecnico e giocatori: ci avete fatto divertire e sognare!

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16 MARZO 1988: VENTISEI ANNI DOPO…

“Te lo ricordi?”, cantavano struggenti gli Stadio nel 2000. Dodici anni prima, il 16 marzo 1988, il Verona giocava la sua ultima partita in Europa. “Te lo ricordi?”. Dannata serata di Brema: quarti di finale, Kutzop del Werder che indovina l’incrocio da trenta metri nonostante il volo impossibile di Giuliani, Volpecina che di testa pareggia e ridà fiato alla speranza. Vanamente, alla resa dei conti. L’andata a Verona era finita 1-0 per i tedeschi, sigillo di Neubarth, nervosismo di Elkjaer, assente al ritorno. Il cammino sin lì era stato esaltante, calcisticamente e letterariamente, tra trasferte impossibili negli allora regimi comunisti di Polonia (Stettino) e Romania. “Te lo ricordi?”, la neve della grigia Bucarest, i cronisti di allora che narravano di stucchevoli disagi logistici, Ceausescu che sarà giustiziato appena due anni dopo… A noi bambini attaccati a un sogno quelli sembravano mondi impossibili, specie in quei gaudenti anni ’80, e quelle imprese ai nostri occhi acquisivano ancora più solennità.

Eravamo in film… con un brutto finale. Brema infatti segnò, ipso facto, l’epilogo del grande Verona di Bagnoli. Sebbene l’Osvaldo resterà ancora due stagioni in gialloblù, la magia si spezzò ineluttabilmente quella sera al Weserstadium, contro i verdi di Herr Otto Rehnagel e di Frank Neubarth e Karl Heinz Riedle. Il canto del cigno si formalizzò con un finale di campionato mediocre e le partenze estive degli ultimi reduci dello scudetto, Elkjaer, Di Gennaro, Fontolan e Volpati.

Da lì in poi quasi tutti dolori: Cesena e il condor Agostini, le “Fata Morgana” Caniggia e Stojkovic, la stanca fragilità del Verona di Reja, la mediocrità degli anni di Mutti, la sfacciata presunzione di Cagni, le illusioni di Malesani, gli inganni di Pastorello, i raggiri subiti da Arvedi in un verminaio di cardinali e soldi falsi, faccendieri e malaparata. In mezzo sublimi quanto effimere gioie: la promozione nell’anno del fallimento con Fascetti, l’acquisto di Piksi e l’esaltazione “da spiaggia” di Eros Mazzi (“stano nemo in Uefa!”), “Perotti sì sì sì stano ghe la femo nemo su dalla B”, il gioco arioso di Prandelli e l’indolente genio di Morfeo, la corsa sotto la curva di Malesani e i dribbling di Mutu, le speranze di Ficcadenti…

Fino a Martinelli, fino a Mandorlini, fino a Setti, fino a Sogliano… Fino a questo esaltante campionato che adesso, a tre partite dal traguardo, ha maturato un pensiero proibito: l’Europa League.

Difficile, ma possibile. Mandorlini ci crede eccome, più di quanto dia a vedere. I giocatori idem. Ci riescano o meno, sarà stato bello comunque, ovvio; però tornare a varcare confini che ora non esistono più sarebbe la chiusura dell’ennesimo cerchio. Brema è ancora lì, ventisei anni dopo. “Te lo ricordi?”.

PERCHE’ DEVE FINIRE PROPRIO ORA?

Peccato che sia quasi finita. Paradossi: c’è spazio pure per un filo di rimpianto. Il Verona avvincente di quest’anno si sta superando, lambendo la perfezione a poche giornate dalla conclusione. Un tridente spettacolare, dove l’innesto e la crescita di un centrocampista puro come Marquinho permette a Iturbe (i terzinacci avversari gli consentiranno di finire una partita?) o a Gomez più libertà e quindi a Toni più sostegno. Un Sala nuovo campioncino da coltivare. La scoperta (tardiva?) di Pillud e la virata decisa (finalmente!) verso la coppia centrale (Moras-Marques) più forte. Mandorlini più flessibile e coraggioso. Che diceva Lubrano? La domanda sorge spontanea: perché deve finire proprio ora?

Stiamo coltivando un sogno che non avremmo mai più pensato dopo i leggendari anni ’80. Sarà difficile raggiungere l’Europa League, ma è già bello essere lì a provarci. Serviranno come minimo altri sette punti nelle tre partite che restano, dunque un’impresa a Roma con la Lazio, o a Napoli. Godiamocela.

P.S. Errore madornale la sostituzione di Toni, ma ancora più sbagliata la sua reazione. Non togli alla mezz’ora contro l’ultima in classifica il tuo bomber che sta lottando per i cannonieri, è l’abc della psicologia. Ma quello che ne è seguito è ingiustificabile e fuori luogo.

P.P.S. Mandorlini supera Bagnoli nel computo delle vittorie in serie A in un singolo campionato. Complimenti.

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