“DI QUESTA PARTITA NON CE NE FREGA UN C…”

“La verità è sovversiva” scrive Luis Sepulveda. La verità è anche dissacrante e l’unica verità del sabato sera di Verona-Inter è quel coro intonato dai butei della sud sul finire: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”. Un vecchio tormentone, ma ieri sera improvvisato sulle emozionanti note di “I will follow him” e dunque particolarmente riuscito.

Il significato di quelle parole è da sempre chiaro: si tifa innanzitutto… il tifo e la curva, poi il Verona, ma inteso come “istituzione”, maglia, simboli e colori. La partita in sé è un contorno, un pretesto, il grimaldello ideale per questa autocelebrazione settimanale di uno stile unico in Italia. E giocatori e allenatore sono solo delle comparse (da qua il must che non si dedicano loro cori).

Ma ieri – preso atto di come la stagione del Verona stia scivolando verso un grigio anonimato – quelle parole partite dalla curva, ma poi intonate da tutto stadio, assumono forse senza volerlo anche un significato dissacratorio della sfera più prettamente calcistica. Infatti, cosa vogliamo ormai scrivere di partite come Bologna, Parma e Inter? Il Verona ha mollato qualcosa a livello di tensione emotiva e di furore agonistico. Veri obiettivi, almeno per quest’anno, non ce ne sono più, per colpa di una paranoia esclusivamente italiana per cui i piccoli-medi club, di anno in anno, vivono, lottano e vegetano solo per fottuta rotta dei 40 punti. La parola “salvezza” nel resto del mondo pallonaro non è nemmeno contemplata, qua ormai è bagaglio antropologico di ognuno di noi, in perfetta linea con la nostra cultura remissiva, di piccolo cabotaggio, anti-rivoluzionaria e cripto-democristiana che ci ammanta da secoli e ci ammanterà nei secoli e nei secoli (amen).

E allora di cosa scriviamo? Ci mettiamo a fare una disamina tecnica di Verona-Inter? La mia è telegrafica: il nostro punto di riferimento Luca Toni, ieri come a Parma, è apparso un po’ “sulle gambe”. Se lui non è al top l’Hellas ne risente , dal momento che il calcio, nel bene o nel male, lo fanno i calciatori e non i “demiurghi” della panchina, da Mourinho in giù. E Toni quest’anno è stato metà squadra, un po’ come Gilardino nel Bologna di Pioli la scorsa stagione (questo sappiamolo in vista della prossima annata).  Potremmo poi parlare di un Iturbe “spremuto” da un lavoraccio di mesi e mesi a tutto campo e ieri costantemente raddoppiato (altri sbocchi non ne abbiamo?). Nel secondo tempo Mandorlini ha chiesto all’argentino di restare “alto”, il tentativo giustamente era di provare a pareggiare, ma (sarà un caso) poco dopo abbiamo preso il raddoppio (come dire, non abbiamo meccanismi difensivi tali da poterci permettere gli esterni d’attacco “alti”?). La frittata è stata servita da un centrocampo scombiccherato, col compassato (eufemismo) Donati, l’ancor intangibile Marquinho e il debuttante Sala, bravo (lo si vede) ma ora come ora un tantino’ affannoso, e una difesa che non per niente è la stessa della serie B (e il calo dei nostri attaccanti è lì impietosamente ad evidenziarlo).

Ma ogni disamina tecnica è nulla rispetto a quella che è una sensazione. Checché ne dica Moras (abolire le interviste di fine partita, no?), non percepisco più quel “sacro fuoco” nei ragazzotti in maglia gialloblù (o blu-arancio, ma qui entriamo in un’altra sfera a me cara e lasciamo perdere per carità di patria). L’auspicio è che sia solo un periodo storto, mettiamola così. Lo dico anche alla critica veronese: è ora di finirla coi discorsi autoassolutori che “tanto siamo salvi”, “ci siamo divertiti” e balle varie. Rimangono dieci partite da giocare ed è prestino per abbassare le serrande e appendere il cartello “chiuso per ferie”. Obiettivi? Vincere il derby, raggiungere i 55 punti e restare tra le prime otto. Non vedo alternative.

RASSEGNATI, MA FELICI

Colgo in una parte dei tifosi una felice rassegnazione. “Pazienza”, la parola più gettonata a commento della sconfitta di oggi. E’ la fetta dei tifosi “moderni”, figli inconsapevoli di questo calcio malato e liquido. Perché, diciamocelo, fossimo ancorati nel mondo antico e meno insano del football che fu, saremmo incazzati con Di Marco – che come un Massa qualsiasi si è bendato gli occhi sulla randellata a Sala in area parmense – ma anche coi nostri, che incuranti dei duemila e passa tifosi al loro seguito hanno cominciato a giocare solo negli ultimi venti minuti. Rilassamento? Forse. Giocatori scarichi mentalmente? Chissà. Una cosa è certa, dopo l’exploit di Livorno non è più il Verona che conosciamo. E attenzione, non è questione di vincere o perdere, ma di atteggiamento. Oggi l’Hellas ha dato l’impressione di poter pareggiare solo nell’ultimo scorcio di partita, prima si è limitato al piccolo trotto e a un’unica fiammata del solito Iturbe.

Esistono illustri (e recenti) precedenti di squadre di piccolo-medio cabotaggio che arrivate a una precoce salvezza, per un motivo o per l’altro, rallentano. Senza andare troppo lontano, il Catania di un anno fa. Alzare l’asticella degli obiettivi, lo riconosco, spesso è un esercizio psicologico non facile. Eppure è un obbligo morale, in particolare nello sport, dove agonismo e competizione sono tutto.

Sia ben chiaro, il calcio – per come è concepito da vent’anni a questa parte – non invoglia troppo a farlo. L’hanno mutato geneticamente, trasformandolo da sport a prodotto, per giunta logorante e iniquo, con un calendario fitto e un gap incolmabile tra i pochi club ricchi e tutti gli altri. Il meccanismo ha partorito figli e figliastri, in un sistema che si auto-perpetua nella sua degenerazione. I milioni della Champions fanno gola, ma spettano a chi è già ricco; le briciole della vecchia e gloriosa coppa Uefa, ora Europa League, agli altri, ma non se le fila nessuno, poiché è più lo scazzo che il guadagno. Il resto, non mi stancherò mai di dirlo, lo fa una serie A a venti squadre con tre sole retrocessioni.

Risultato? Un calcio a compartimenti stagni; le solite 4-5 “lottizzate” a priori che si disputano i posti in Champions, altre 4-5 la salvezza, e le restanti che già in primavera potrebbero pure andare in ferie. E come biasimarle, questo è il calcio di oggi e anche i tifosi si adeguano. Quindi “pazienza”, ci capita di proferire senza troppa emozione, dopo aver perso uno scontro diretto. Rassegnati, ma felici.

MANDORLINI, DA “CAPOPOPOLO” A “IMPIEGATO” (ALLA FACCIA MIA!)

Antonio Tabucchi in “Sostiene Pereira” scrive che tutti noi abbiamo un “io dominante”, ma che negli anni questo può cambiare a seconda del mutamento delle circostanze. E’ un concetto simile a quello che, ancor prima, Hermann Hesse aveva ampiamente trattato  nella sua letteratura, in particolare in “Siddharta” e “Il lupo della steppa”.

L’amico Marco Gaburro, nel suo blog, scrive di un Mandorlini più “aziendalista” rispetto al passato, vedi l’esclusione di Cacia per i noti problemi contrattuali del giocatore. E’ vero ed è un segno di intelligenza. Il mister ha saputo modificarsi una volta che ha capito che l’aria attorno a lui era cambiata, ergo gli interlocutori in società. Martinelli, managerialmente, non era quello che è Setti ora. Il compianto e indimenticato presidente della promozione in B (ricordiamolo sempre) aveva del club una gestione patriarcale “vecchia maniera”, più romantica e basata in un certo senso sugli affetti, così trovò nel Mandorlini “caudillo” l’uomo giusto per surrogare alle mancanze organizzative di quella struttura.

Setti, attraverso il lavoro di Gardini e Sogliano, una volta arrivato ha rivoltato quell’assetto deficitario come un calzino, ritrovandosi tra i piedi un allenatore inizialmente sgradito, ma amato dalla “piazza” e soprattutto vincolato a un biennale. Mandorlini, per quel suo temperamento “sudamericano”, infatti non calzava nel disegno del nuovo corso. Un temperamento che col tempo, tuttavia, si è attenuato, attraversando anche tempeste e periodi di tensione costellati di rapporti ai “minimi storici”, come i lettori di questo blog sanno bene. Con la stagione attuale, assieme a quelle che per Setti e Sogliano sono state le prime significative vittorie (per via Belgio la promozione dell’anno scorso è il minimo sindacale), si sono normalizzate anche le relazioni tra le parti.

Lo stesso presidente l’ha riconosciuto ieri: “Con Mandorlini sarebbe bello continuare, specie dopo tutto il percorso che è stato fatto assieme”. Con la parola “percorso” Setti non si riferisce solo ai risultati (che, fuori da ogni ipocrisia, rimangono comunque la cosa più importante), ma anche alla crescente sintonia tra il tecnico di Ravenna e la dirigenza, se non umana (ma chissenefrega), quantomeno professionale.

Scrivevo l’8 agosto 2012, primo – e per lungo tempo unico – a rendere di pubblico dominio le ambiguità allora esistenti tra il mister e la società: “Mandorlini, emotivo, dittatoriale, “padre padrone”, per indole anarchica e solitaria  poco aziendalista, lui stesso essenza del “potere carismatico e non democratico” (cit.) per dirla col sociologo Max Weber, è capace di fare “solo” il tecnico? Di “limitarsi” ad allenare giocatori non scelti da lui? Be’ sono perplesso. Mandorlini come tutti gli emotivi (razza che conosco bene) necessita di sentirsi sulla pelle la creatura che ha in mano. Mandorlini, per inciso, non è e non potrà essere mai un mero esecutore”.

Mi sbagliavo. Il Mandorlini “capopopolo” è diventato un ligio dipendente. Complimenti.

P.S. Mandorlini che – è risaputo – “non mi sente”, eppure so che ci vede benissimo. Mi dicono infatti che sia uno dei miei più affezionati lettori e che quelle (poche) volte che non può leggermi è solito chiedere in giro: “Che scrive Barana?”. Non si scomodi mister, il sottoscritto le vuole tanto bene: dove lo trovo un altro come lei?

 

 

 

MANDORLINI E PRANDELLI, BAGNOLI E IL TRAP…”E LA MARISA E L’ANTONELLA”

Manifesta superiorità, e il “pezzo” si potrebbe chiudere qui. Di un altro pianeta il Verona, rispetto al Livorno. Il calcio – non sempre, ma spesso – è nudo e crudo e non servono troppe iperboli per raccontarlo.

E’ la semplice verità, per citare il più bel romanzo di Baldacci. Col Torino, una pari livello, hai sbagliato partita e hai perso (sì ok il fuorigioco di Immobile, ma nel secondo tempo non siamo scesi in campo); cogli scombiccherati amaranto del Di Carlo vestito “da jogging al parco Sempione”, è bastato essere il Verona per chiudere in fretta la pratica.

E’ una questione di qualità, cantano i Marlene Kuntz. Il Verona costruito da Sogliano ha tre fuoriclasse: Toni (ancora il miglior centravanti italiano e tra i primi dieci in Europa), Iturbe e Romulo. Attorno a questi, altri bravi giocatori (oggi abbiamo riapprezzato Jankovic, fortissimo quando ne ha voglia). Tradotto: con almeno dodici avversarie il destino dipende da noi. Di cosa discutiamo?  

Poi c’è Mandorlini. “Il bravo allenatore è quello che non fa danni, che asseconda il talento dei suoi giocatori, senza volerlo prevaricare ”, mi disse anni fa Cesare Prandelli in un’intervista. Lo stesso bagnoliano concetto, rivisitato in chiave moderna, del “terzino che deve fare il terzino e l’ala che deve fare l’ala”. Teorie tuttavia smentite nel Verona di Mandorlini, dove il talento è sacrificato alla causa (e al modulo), con mezze punte come Iturbe, o ali offensive come Jankovic e Martinho, o addirittura punte vere e proprie come Gomez che giocano da tornanti. Eppure i risultati arrivano, come la mettiamo?  

Non amo il calcio del mister, lo sapete. Non è un mistero, e al netto dell’ipocrisia e del conformismo che ci sono anche nell’ambiente giornalistico l’ho sempre confessato, fregandomene altamente della vulgata popolare e dei risultati. Un calcio abbastanza prevedibile e senza grandi varianti. L’ho già detto più volte e lo ribadisco: Mandorlini sa fare solo un tipo di calcio, ma lo sa fare bene (è tra i più bravi nell’insegnamento monotematico). E coi giocatori che si ritrova, questo basta e avanza. Giocatori, tuttavia, che lui sa gestire con maestria.

Faccio un esempio: Toni. Simpatico, guascone, esemplare, ma personaggio complesso, dal carisma, dalla personalità e dal pedigree che pesano, anche nella vita quotidiana del gruppo. Per domarlo servono abili qualità di stretta “psicologia da spogliatoio”. E Mandorlini, da calciatore, ha vissuto grandi spogliatoi potenziali “polveriere” e ha studiato alla scuola di Trapattoni e Mazzone. E se al Trap credo abbia rubato la dote raffinata della “paraculaggine”, oltre che il “conservatorismo” tattico, di sor Carletto ha preso l’esuberanza nel rapportarsi ai giocatori. 

Certo, con la pancia piena si discute più volentieri, dunque  a 39 punti possiamo pure sbizzarrirci in chiacchiere da bar su cosa combinerebbero Iturbe, o gli stessi Jankovic, Gomez e Martinho, sgravati da quei compiti di copertura di cui ho scritto sopra. Oggi contro una squadra scarsa, o in passato in situazioni disperate in cui dovevamo recuperare e i nostri esterni giocavano all’assalto, ne abbiamo avuto un assaggio. Ma già Sacchi (che pure Mandorlini calcisticamente detesta) schierava Signori all’ala sinistra e non di punta, in nome del mantra della “copertura degli spazi”, maledizione del calcio moderno. Idem Mourinho con Eto’o.

Io credo che se Iturbe e compagnia venissero “alzati” guadagneremmo qualcosa davanti ma, nell’arco di un campionato, perderemmo nel complesso (fatto salvo con Mandorlini in panchina e non qualcun’altro). Perché non sarebbe più il calcio di Mandorlini; non sarebbe più quell’unico calcio che Mandorlini sa congegnare così bene. La domanda, dunque, non si pone:  sarebbe come chiedersi perché un adolescente non ha i capelli bianchi, o come mai un vecchio ha le rughe (forse perché non hanno la sfiga di Ravanelli, o i soldi di Berlusconi e Baglioni, mi rispondereste, ma questo è un altro discorso…). Lo stesso dicasi per Donadel preferito a Cirigliano. L’argentino di sicuro è bravo, ma (al momento) non così bravo (a differenza del Jorginho di tre anni fa in quella serie B) da sconvolgere gli ideali del mister, che preferisce l’usato sicuro dell’ex Fiorentina.

Voglio dire, io amo un altro calcio. Bagnoli e non il Trap, Prandelli e non Mandorlini, del Bosque e non Mourinho. Ma finché vinciamo, direbbe proprio il Trapattoni d’annata immortalato dalla Gialappa’s, è come scegliere “tra la Marisa e l’Antonella”. A noi, come al Trap, stante così le cose vanno bene entrambe.  

ABBIAMO SPETTINATO CONTE!

“Toh anche Conte si spettina. Non disperiamo, allora tutto è possibile”, avevo scritto su Facebook a fine primo tempo sullo 0-2. (https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512)

Sì, tutto è possibile, anche che quella faccia di cera da “ne giovane ne vecchio” di Pirlo (vecchio da giovane, giovane da vecchio, un po’ come il mitico Raimondo Vianello) venga scongelata da una (cattiva) emozione.

La zuccata di Gomez, Buffon che smadonna, Mandorlini che esulta come un bimbo (magistrale nella preparazione della partita – Jankovic a parte – bellissimo in quella corsa liberatoria). I capelli (capelli?) di Conte “morti” due volte, con Cesare Ragazzi che si sfrega le mani al pensiero, chissà, di un altro fatturone. La mia esultanza “moderata” che scatena qualche tensione (eufemismo) al Collins di Bruxelles, solo contro tutti in un calcio club juventino. Pure “lord” Albertazzi si scompone. Toni sorride al cielo e sente la giustizia in terra. Il trasognato Cirigliano (bravo a procurarsi la punizione decisiva) giunge finalmente a noi e capisce cosa significa giocare nel Verona.

E Gomez? Incompreso e mal sopportato da tutti ai tempi di Remondina, si regala il suo attimo più bello. E  i canti “britannici” della Sud,  e un pari che così com’è maturato vale più di cento vittorie (perché, potete raccontarmela, ma nello sport non si vive di solo pane e di punti in classifica, sennò Gilles Villeneuve non sarebbe mai esistito e Pantani varrebbe un Bjarne Riis qualsiasi).

Amici del blog, capitemi, è arduo scrivere un “pezzo” dopo un’impresa del genere. Si rischia facilmente di cadere nella retorica del fu Candido Cannavò e Dio me ne salvi (con tutto il rispetto). Conosco i miei limiti e… scusate ma non sarò impeccabile. Scrivo di getto e per non annoiare la chiudo così:  ognuno custodisca gelosamente i suoi stati d’animo nel proprio intimo, cogli amici, la ragazza, un pezzo rock, del buon vino. Io posso dire solo GRAZIE a chi veste gialloblù. Siamo veronesi e la bellezza sta nell’esserlo.

 

IL FUTURO DI SOGLIANO E MANDORLINI. I TEMPI SONO MATURI.

L’avevo scritto stamattina sulla mia pagina Facebook: “Ora più che mai Forza Verona. Per la classifica e l’entusiasmo”. (https://www.facebook.com/pages/Francesco-Barana/1421212388102512)

Ero un po’ preoccupato, lo ammetto. Checché ne dica l’amico Gaburro, questa era tutt’altro che una partita anonima (per lui senza Malesani lo sarebbe stata). Malesani, Inzaghi o Di Francesco poco conta: oggi i punti valevano comunque doppio.

Troppe le sfaccettature di questa trasferta all’ex Giglio: la classifica ferma da un po’; Torino, Parma e Milan in rimonta; la percezione di un sogno svanito con la cessione di Jorginho; l’arida prospettiva – corroborata dalle stesse parole di Mandorlini in una recente conferenza stampa (“forse abbiamo perso un po’ l’entusiasmo”) – di una seconda parte di stagione sparagnina e mesta. La vittoria di oggi invece spazza via i cattivi pensieri, rimette il Verona al quinto posto, chiude definitivamente il discorso salvezza, ma soprattutto – per come è maturata – riconsegna a critica e tifosi la sensazione di una squadra che forse non farà i punti dell’andata, ma che certo può chiudere con brillantezza questa bellissima stagione e porre le basi per la prossima.

Che in soldoni significa fare chiarezza innanzitutto sul futuro di Sogliano e cominciare a discutere il rinnovo di Mandorlini. Premesso che l’architrave di tutto è Setti (che non mi è simpatico e che spesso mi son divertito a prendere in giro, ma averlo un presidente così!), chi segue le cose dell’Hellas da vicino sa bene il potere accentratore che ha avuto Sogliano in questo anno e mezzo (e non solo sul mercato, ma anche nel supporto quotidiano al mister). Voglio dire, non stiamo parlando (con tutto il rispetto) del magazziniere, ma del ds, dunque rompere le palle al riguardo e avere delle risposte d’ora in poi non sarà solo un diritto, ma anche un dovere.

La questione Mandorlini invece corre parallela. La trattativa non sarà semplice e nemmeno immediata. Il coltello dalla parte del manico ce l’ha il presidente, che al momento ha anche maggiore potere negoziale. Ad oggi infatti Mandorlini non ha altre offerte di pari o superiore livello. Come sempre accade in simili casi saranno due i punti di discussione: da un lato soldi e durata del contratto (Mandorlini vorrebbe strappare almeno un biennale a cifre maggiori delle attuali), dall’altro l’ambito tecnico (non è un mistero che il tecnico ravennate vorrebbe incidere di più nelle scelte di mercato). Setti parte da princìpi diversi su cui non transige (progetto sui giovani e allenatore che non fa il mercato), mentre c’è spazio di trattativa su durata del contratto e ingaggio. Un accordo si può trovare.

 

 

 

 

DOVE STA ANDANDO QUESTO VERONA?

Nessuno ne parla, ma tutti lo pensano. La bocciatura di Cirigliano, inutile girarci intorno, fa rumore. Giusta? Sbagliata? A ognuno la sua opinione, non è questo il punto e nemmeno il tema del topic. Mandorlini avrà avuto i suoi buoni motivi, anche se per scegliere l’imbarazzante Donati non me ne viene in mente uno. Ma tant’è. Piuttosto l’esclusione dell’argentino non può passare inosservata perché l’ex River Plate nei piani della società è (tecnicamente) l’erede designato di Jorginho ed (economicamente) un patrimonio da far fruttare (è già fissato il riscatto del cartellino).

Ricordo cosa ha raccontato Pierino Fanna in un recente incontro pubblico: “Quando andai alla Juve avevo Causio davanti e trovavo comprensibile non essere titolare nel mio ruolo naturale, ma quando il Barone se ne andò il Trap fece altre scelte e questo non mi piacque”. Ora chissà Cirigliano come deve averla presa (chi ha giocato a pallone sa quanto i risvolti psicologici possano influire in una carriera), ma a parte questo vorrei capire in che direzione vuole andare il Verona a cinque giorni dalla fine del mercato e a una settimana dalla trasferta di Reggio col Sassuolo, dove è legittimo pensare di tornare a fare punti.

Vivacchiare di rendita e lanciare i giovani talenti in modo da strutturarsi nel medio-lungo periodo? Be’ se questo è l’obiettivo del club (peraltro in linea con diverse altre società di pari fascia), non mi sembra che al momento sia anche quello del mister, che da par suo pensa più al risultato immediato e si affida ai vecchi. Rinforzarsi per lottare sino alla fine per l’Europa? Lo sapremo fra pochi giorni. E Sogliano quando ci schiarirà le nubi sul suo futuro? Il domani del Verona sta tutto qui. E anche quello di Mandorlini.

POSSIAMO SOGNARE? SETTI CE LO DICA

C’è qualcosa che non va. Incipit vaschiano, ma qua c’è poco da cantare. Noto una certa depressione di una parte dei tifosi, quasi una sensazione malcelata che il “giocattolo” si sia rotto. Come ha scritto la settimana scorsa Gianluca Vighini è stata una brutta vigilia quella di Milan-Verona. La cessione di Jorginho (per giunta al Napoli), checché se ne dica, ha sorpreso un po’ tutti. Sulla mia pagina facebook molti la considerano prematura (“per quelle cifre potevamo cederlo a giugno” mi hanno scritto in diversi), altri sbagliata (“gli si aumentava l’ingaggio e lo si poteva ancora trattenere”). A me è parsa frettolosa, quasi un colpo a freddo.  

Non giriamoci attorno: il tifoso, col Verona in piena lotta per la qualificazione all’Europa League, sta vivendo come un’onta l’indebolimento della rosa (Cirigliano è un talento puro e lo dobbiamo sostenere, ma Jorginho era uno dei quattro campioni già affermati in squadra). Aggiungiamoci che Sogliano (sottovalutato, a torto, ancora da troppi) è sulla porta d’addio ed è ovvio che una sorta di scoramento sia più che comprensibile.   

Non faccio il manager e trovo detestabile ragionare col portafoglio degli altri, tuttavia mi piacerebbe che Setti & C. smentissero questo pessimismo strisciante con un finale di mercato degno della nostra posizione di classifica e rispettoso del lavoro di Mandorlini e giocatori e soprattutto della passione di migliaia di tifosi che non chiedono la luna (l’Europa per forza di cose), ma nemmeno vogliono assistere al mesto spettacolo di un Verona che vivacchia per tutto il girone di ritorno. Non si lasciano le cose a metà, il senso del calcio è giocarsela fino in fondo e a questo principio non si può abdicare in nome di un estremo aziendalismo. Tradotto: i cinque milioni incassati per Jorginho vengano reinvestiti sul mercato. E se questo non è possibile, anche per le più legittime e comprensibili ragioni (il club al primo anno in A non è ancora pronto per competere a certi livelli e i diritti tv, come si legge, sono stati liquidati solo in parte) venga pubblicamente spiegato da Setti o dal dg Gardini.  

Il Verona, a differenza di altre società, ha dietro di sé un popolo intelligente che sa stare al suo posto (si limita a tifare e non a decidere), ma che proprio per questo non può essere ignorato. L’Hellas è di proprietà di Setti, ma è un patrimonio di tutti.

 

P.S. Potete continuare a scrivermi e a discutere con me sulla mia pagina facebook. I vostri spunti sono sempre interessanti, grazie.

https://www.facebook.com/#!/pages/Francesco-Barana/1421212388102512?fref=ts

 

CURVA CHIUSA (ANZI NO)

Toh, ce l’hanno fatta. Tre commissari federali hanno “verbalizzato” (sic) domenica scorsa dei “buh” ad Armero del Napoli. Uno di loro, recita il comunicato della federazione, era “posizionato nei pressi della curva”. Che detta così sembra pure affascinante. Ve lo immaginate il commissario federale in incognito? Magari, chissà, presente sotto le mentite spoglie del venditore di bibite; oppure travestito da piccione e posizionato sopra la copertura dello stadio. Un commissario temerario come Sean Connery in 007; idealista come Robert Redford in Brubaker; o forse un semplice voyeur boccaccesco, a metà tra Renzo Montagnani e Alvaro Vitali. Del resto ognuno nella vita c’ha le sue perversioni, chi spiare la Fenech o la Guida nude, chi “verbalizzare”, ma tant’è. Risultato? Curva sud chiusa, anzi no, pena sospesa per un anno. La società ha fatto ricorso e da via Belgio trapela un certo ottimismo: “I filmati spediti agli organi preposti mostrano chiaramente che non c’è stato nessun coro di discriminazione”.  

Non mi piace il vittimismo, e la dietrologia in certi casi è una tentazione facile. Qualche riflessione però va fatta. Se pure un mite “doroteo” come “Richelieu” Gardini – di solito impeccabile nella sua compostezza british e in passato, per sua stessa ammissione, non certo tenero coi tifosi – s’incazza e dichiara “non permetteremo che si continui a mistificare la realtà”, significa che un problema c’è. Anzi persiste. Quello tra il Palazzo e il Verona, e l’opinione pubblica nazionale e Verona.

Sembra che per noi la prescrizione non esista. Forse paghiamo ancora i fischi alla Nazionale del lontano 1989? Per caso la spada di Damocle del grave (e tristissimo) episodio del manichino pende in eterno su di noi?

La musica a Verona è cambiata da un pezzo e sarebbe il caso che lassù ai piani alti ne prendessero atto. Lo dico non per vittimismo, ma per timore. Non vorrei un giorno trovarmi un commissario al cesso dello stadio. Mi piaccio abbastanza, ma non sono Gloria Guida.     

SOSPIRO DI SOLLIEVO, ABBIAMO PERSO!

Sospiro di sollievo, abbiamo perso! Dite la verità, chi di voi prima, durante e dopo Verona-Napoli non ha pensato a quei ventimila (13 mila per la Questura?) napoletani accorsi l’altra mattina al San Paolo all’allenamento della loro squadra? Vincere a Verona “è una questione d’onore” recitava lo striscione apparso nell’occasione. Roba forte, insomma. E noi, per carità di patria, abbiamo assecondato le velleità partenopee, che poi non vogliamo avere sulla coscienza depressioni post calcistiche di una città che ha pur sempre dato i natali ai grandi Totò ed Edoardo e Peppino De Filippo (anche a Varriale e Gigi D’alessio e vabbè…) e nemmeno attirarci le ire di San Gennaro o, peggio, di quel simpaticone del cardinale Sepe che l’ha tirato in ballo. Del resto, scherza coi fanti ma lascia stare i santi, e noi abbiamo lasciato stare, che coi cardinali il nostro passato calcistico e societario è già piuttosto burrascoso.   

Questo deve aver temuto anche il povero Cacciatore, imbambolato per 90 minuti da Mertens e Insigne. Chissà cosa ha frenato invece l’incolpevole Jorginho, messo all’angolo da un giochetto a dir poco sgradevole: essere dato prossimo al Napoli proprio (guarda a caso) nella settimana della partita. Regole del calciomercato? No, direi scorrettezza di procuratori e giornalisti vari (e forse anche qualche dirigente azzurro).

Deontologia questa  sconosciuta, verrebbe da scrivere. Un po’ come l’intelligenza di Insigne oggi, che esulta provocando la curva sud come un Aniello Cutolo qualsiasi. Di Pepito Rossi (a proposito in bocca al lupo!) ce ne sono pochi, in tutti i sensi. Peccato, perché Insigne ha numeri da fuoriclasse, ma di soli piedi non si vive se non ti chiami Maradona (il quale peraltro certe cose non le faceva). Mi piacerebbe che un gentiluomo come Benitez lo redarguisse pubblicamente, ma dubito che glielo permetteranno. Nel calcio di una volta – raccontano le cronache dei maestri – ci pensavano i rudi medianacci o i vecchi stopper a “educare” i provocatori. Il calcio delle mille telecamere e dei moviolisti benpensanti li ha estinti. Hai spirito guerriero? Basta un tatuaggio e morta lì.

Benpensanti che adesso dovrebbero perlomeno partire “lancia in resta” contro il club di De Laurentis, perché se Milan e Juve sono state accusate per i cori dei loro sostenitori sui napoletani (discriminazione territoriale), chissà cosa succederà per quello striscione “Verona merda” ben esposto oggi in curva Nord dai tifosi partenopei. Nulla, ovviamente. Folclore anche questo, claro. E poi, anche fosse, De Laurentis una carta da giocare per sfangarla col giudice sportivo ce l’ha. No, non minacciare di dimettersi come fa ogni due per tre (l’arma è ormai più spuntata di uno sciopero della fame di Pannella), ma indagare sull’effettiva moralità di Giulietta. Quel (geniale) “napoletani figli di Giulietta” appeso in Sud potrebbe far discutere seriosi giuristi, fini intellettuali, petulanti femministe e pure i mitici “saggi” di Napolitano (buoni per tutto). Certo non vorrei che poi si scoprisse che la Nostra era davvero “zoccola”, ché questi sono capaci di chiuderci lo stadio. Le colpe? “Discriminazione sessuale” e non averne approfittato.   

p.s. Il titolo e buona parte del post sono volutamente ironici, per sdrammatizzare una rivalità storica che è giusto che ci sia da entrambe le parti, alla faccia di moralisti ed educande varie.