ARIA DI RIVOLUZIONE

“Basta che non ci manca mai qualcosa da aspettare”, cantava Jannacci. L’istrionico cantan-dottore milanese parlava di progetti e stimoli che nella vita non devono mai mancare. Noi, più modestamente, parliamo di calcio. Cosa si aspetta adesso il Verona dopo l’allegra sconfitta di ieri? Riguardo il campionato, ormai, poco o nulla. Sfumato l’obiettivo Europa, non ci resta che un onorevole piazzamento, ma è chiaro ormai che i punti in palio contano relativamente.

C’è aria di vacanza e…di futuro. La palla ora passa al riconfermato Sean Sogliano. Come impostare il nuovo Verona? Si dovrebbe ripartire da Mandorlini, ma sarà comunque una rivoluzione.

Non inganni infatti il brillante campionato di quest’anno: la sensazione è che il ciclo di quei giocatori che hanno tirato la carretta anche nelle serie minori sia giunto al termine. Qualcuno rimarrà, ma difficilmente con un ruolo da titolare. Aggiungiamoci la sicura partenza di Iturbe, quella probabile di Romulo e l’incertezza legata al futuro di Toni, cioé i tre elementi che sono il 70% della cifra tecnica del Verona attuale.

Antenne dritte quindi e poche illusioni, sul campo si ripartirà (quasi) da zero. Fortunatamente non così in società, con Setti che s’appoggerà ancora a Gardini e Sogliano. Sogliano in particolare è la garanzia (non per niente Setti vuole prolungargli il contratto fino al 2017).

Si punterà sui giovani, che in rosa saranno ancora più numerosi di quelli di quest’anno; si continuerà a pescare in Sudamerica, dove il ds ha agganci preferenziali. Mandorlini riceverà minori protezioni dallo scudo della vecchia guardia – alla quale per sua stessa ammissione spesso si è appoggiato – e senza le individualità di quest’anno (un Iturbe difficilmente lo ripeschi) dovrà per forza di cose completare la sua maturazione tecnica.

Non è ancora tempo di entrare nei dettagli, ma è chiaro che bisognerà intervenire con decisione sul reparto difensivo, perché non sempre è domenica, perché Toni – resti o vada – non è eterno, perché segnare 50 gol a cinque giornate dalla fine è l’eccezione e non la regola. E’ evidente che la terza linea scarseggia di un centrale davvero forte e di terzini all’altezza della categoria (Pillud è da serie A? Albertazzi farà il necessario salto di qualità?). Lo stesso Rafael deve trovare maggiore continuità. Negli altri reparti la situazione è meno drammatica, ma non tranquilla. L’erede di Romulo è Sala e su questo non ci piove, ma il resto? Donadel verrà riscattato? E Cirigliano? Marquinho non ha fatto la differenza, resterà? E Martinho l’abbiamo perso, o può essere recuperato (perché è chiaro che il vero Martinho non è quello di quest’anno)? Questo Jankovic a intermittenza (più spento che acceso, in verità) è utile? E Gomez è solo un rincalzo? Rabusic può essere l’erede di Toni? Certezze societarie molte, certezze tecniche poche: Sogliano avrà molto da lavorare. Aspettiamo con fiducia.

CONTRASTI AL BENTEGODI

Contrasti al Bentegodi. Spazi deserti sugli spalti, eppure là in curva mai come questa volta cantavano incessantemente. L’ecumenico Corini vestiva da prete e passeggiava, tanto nervoso quanto impeccabile, con le mani in tasca; pochi metri più in là lo “spettinato” Mandorlini si sbracciava, sbuffava, imprecava. Al suo fianco in panchina si mostravano Sogliano e Setti, figure di una società che sta colmando piano piano anche l’unico gap rimasto intatto sinora, cioè la distanza dai tifosi e dalla storia del Verona (in questo quadro va vista la riapertura dell’antistadio e anche, perché no, la scelta di regalare il biglietto con l’Udinese ai paganti di ieri, adesso manca il tassello di riconsegnare i colori storici alle maglie e di riappropriarsi di scale e mastini anche per la campagna abbonamenti al posto di stravaganti opliti). In tribuna invece si annidava e masticava amaro Campedelli che, alla resa dei conti, piange sia per l’incasso che per il risultato.

Che diceva quel vecchio proverbio? Chi la fa l’aspetti, uno a zero e palla al centro (in attesa del prossimo derby, perché probabilmente il Chievo si salverà). Se da un lato c’è un club centenario, con uno scudetto e un popolo dietro, resistenza old style ai tentacoli impalpabili ma soffocanti del calcio moderno, dall’altro troviamo una società che ai tempi del “miracolo” perse l’occasione della vita, quella di identificarsi e identificare, di creare e accrescere un suo popolo, di sviluppare un suo marchio antropologico, e che adesso orfana di pathos vive socialmente di riflesso e probabilmente soffre il ritorno dell’Hellas a certi livelli.

Contrasti anche in campo, e non mi riferisco ai tackle, ma all’andamento musicale della partita. Il vecchio gioco del gatto col topo. Primo tempo d’assaggio, col Verona un po’ sulle sue, ma già superiore sul piano delle occasioni (due nitide). Crescendo rossiniano nella ripresa, quando si è svegliato quel mezzo indio terribile, un po’ paraguaiano e un po’ argentino, di Iturbe. L’Hellas ha alzato vertiginosamente il ritmo, facendo impazzire il sottoscritto anche su facebook (“lo facciamo ‘sto cazzo di gol?”, sono stato accontentato dopo trenta secondi, credo) e siglando la rete della vittoria con un bellissimo gesto tecnico di Toni (alla faccia di chi dice che non è agile). Vittoria meritata e gioia, perché – checché se ne dica – questa non era una partita come le altre e si percepiva dalle facce felici di tanti tifosi alla fine. In loro un retrogusto sarcastico di rivincita, un sentimento di rivalsa a fronte di tante (troppe) cose accadute in questa decade.

Mandorlini, uomo molto attento alle sfaccettature della piazza, sembra averlo capito. La sua dedica a chi è rimasto a casa va in questa direzione. Avevo scritto a suo tempo dell’autogol di Campedelli, che alzando i prezzi avrebbe anche alzato la tensione agonistica della partita. E lo spirito, l’atteggiamento in campo e anche le parole del mister a fine partita mi confermano che un surplus di motivazioni Maietta & C. devono averlo avuto anche per la tanta gente di Verona e del Verona. Un plauso.

Nel frattempo ci stiamo riappropiando anche di una classifica che ci compete, adesso si tratta di porsi l’obiettivo dell’ottavo posto, quello più realistico. Mandorlini, uomo che per rendere al meglio ha bisogno del senso della sfida, della pressione e dell’ambizione, sa che riuscendoci firmerebbe il miglior risultato del Verona in serie A, Bagnoli a parte. Chi lo ferma più? Avanti.

 

SOTTO PRESSIONE SI VINCE

Sarà stata la presenza del mio idolo di sempre, Preben Elkjaer Larsen (l’ho detto alla Brera, omaggio doveroso); sarà stato il trovarmi testimone di un presente che sarà consegnato alla storia gialloblù, grazie alla doppietta di Luca Toni che raggiunge due miti come Gianni Bui e Nico Penzo nella classifica cannonieri di un unico campionato del Verona in serie A; sarà stata soprattutto la reazione di orgoglio dei ragazzi di Mandorlini, che sono scesi in campo con la bava alla bocca per zittire il mondo, gli arbitri e noi rompicoglioni (e così doveva essere!).

Saranno state tutte queste cose, non so, ma mi sono emozionato, ecco l’ho detto. Non si vive di solo pane (ergo di 40 punti) – anche se nel calcio contabile sembrano avercelo sordidamente imposto – lo dicevo tempo fa e lo ribadisco ora più che mai. Il Verona dell’ultimo mese era un colpo al cuore perpetuo e non per i risultati, ma per l’atteggiamento inerme e anemico. Non poteva finire tutto lì, non potevamo essere la copia di altre squadre che in passato, raggiunta la salvezza, regalavano punti a destra e a manca. Ma come, noi come gli altri? Anonimi polli da batteria? Comparse tra le tante nel proscenio dei soliti divi?

Oggi dopo 40 secondi ho capito che l’aria era cambiata e l’Hellas si stava riprendendo quanto gli spettava. Non il risultato, ma la dignità. Fatalità abbiamo vinto (ma non è una fatalità, quando il Verona si esprime per le sue capacità vince con almeno 12 squadre in questa serie A), ma anche non ci fossimo riusciti il giudizio sarebbe lo stesso.

Il recupero di questa presa di coscienza  (“fondamentale il faccia a faccia dopo Cagliari”, ha detto Marquinho in sala stampa) è il senso di questa giornata del Bentegodi. Più di un Verona-Genoa che rischiava di trascinarsi nell’anonimato di un’inutile metà classifica. E conferma un dato: questi giocatori e questo allenatore vanno messi sotto pressione per spingerli a dare il meglio e rincorrere nuovi obiettivi. La pax, le mediocri formule assolutorie, le esegesi aprioristicamente buoniste non servono a una beneamata fava.

Quindi bravi a tutti, ma fine dei complimenti. Non esaltiamoci, o perlomeno aspettiamo a farlo. Di mezzo c’è un derby e una convinzione: se il Verona fa il Verona vince. Sabato è una partita da non sbagliare. Caro mister e cari giocatori: sappiatelo!

 

 

 

CARO SETTI, E’ ORA DI PARLARE

Primavera di nebbia in casa Hellas. Tifosi ammutoliti dallo stupore, giocatori con la testa altrove, un allenatore che sembra aver perso il polso della situazione, una società che sinora è intervenuta vanamente con due pubblici interventi di Sogliano in pochi giorni e con la decisione di portare la squadra in ritiro. Che succede? Il malessere è profondo e ha cause tecniche e, se mi permettete la parola, morali.  

Il Verona sembra un po’ quel tale che soffre di post sbronza alla mattina:  è terreo, molle, sfiancato. Il gioco di Mandorlini è monocorde come un film di Pieraccioni o una canzone di Ligabue, ed è ormai conosciuto anche dai muri di ogni stadio (anche dell’orribile Sant’Elia, epicentro del declino e della corruttela di una certa Italia, ma anche di questa serie A triste come un funerale). Il tecnico di Ravenna  si è sempre poggiato sulle qualità di Toni, le incursioni di Romulo, la potente fantasia di Iturbe e, finché c’è stato, sulle geometrie di Jorginho (appena otto punti senza di lui), che sapeva fare girare la palla e quindi la manovra e dunque la squadra come pochi. In perdurante assenza di variabili di gioco, calati i singoli migliori è calato il Verona. Elementare Watson.  

Possiamo pure star qui a discutere se sia finito o meno il ciclo della vecchia guardia, spremuta e ora – senza più adrenalina – rilassata. Probabilmente sì e questo ci suggerisce una presumibile  rivoluzione estiva della rosa. Non entro nel merito invece delle scelte tecniche dell’allenatore, perché l’argomento mi annoia e perché, in fondo, esse sono coerenti col suo credo tattico. Chi crede in un solo tipo di gioco, infatti, crede anche in un solo tipo di giocatori. Legittimo, al di là di come la si pensi (per il sottoscritto è un limite, lo sapete, l’ho sempre detto anche quando si vinceva). Evidentemente però, poi non ci si può aspettare molto dagli altri quando impiegati.

Eppure c’è dell’altro, c’è quella che possiamo definire una “questione morale”.  Al di là dei numeri impietosi (un punto e zero gol nelle ultime cinque partite, otto punti nelle ultime dodici), io da qualche settimana contesto radicalmente l’atteggiamento in campo del Verona (oltreché il buonismo della critica). E dal momento che non è bastata la politica “bastone e carota” del capo dell’area tecnica Sogliano (resta o va?) per rinsavire l’Hellas, forse è il caso che la sveglia la suoni qualcuno ancora più in alto.

Caro presidente Setti, è giunto il momento di parlare e di dare la scossa. C’è un turno casalingo col Genoa da onorare col doveroso riscatto e una stracittadina alle porte. E soprattutto c’è un “popolo” che merita rispetto.    

 

  

CHIUSO PER FERIE?

Punteggio quasi tennistico, partita da remake cinematografico de “L’allenatore nel pallone”. Così, parafrasando Oronzo Canà dopo Milan-Longobarda 7-0, derubrichiamo questa vergognosa sconfitta di Marassi con la chiosa: “5 a 0 è…5 a 0”. E morta lì.

Ma c’è poco da stare allegri, perché la prestazione di oggi del Verona è da rabbrividire, nonostante alcuni mass media, in sala stampa, si siano impegnati per minimizzare pure questa: chi parlando di “sfortuna” (rimanendo serio), chi ponendo ad Andrea Mandorlini domande ficcanti e decisive quali “è una partita difficile da commentare, non trova?”. Una prestazione, aggiungo, che fa seguito a quelle spente con Bologna, Parma e Inter.

A guardare i numeri (otto punti nelle ultime dieci partite, uno solo nelle ultime quattro) viene da pensare a un Verona in ferie anticipate, con giocatori senza più mordente e un allenatore che ancora non ha saputo reinventarsi e ridisegnare la squadra post Jorginho (per esempio con un modulo differente) e che non riesce a trovare strade alternative se si blocca Toni. A rileggere le dure (e sacrosante) dichiarazioni di giovedì del ds Sogliano (di tono completamente differente a quelle di lunedì del dg Gardini al Vighini Show), il sospetto si rafforza, secondo quel detto latino excusatio non petita accusatio manifesta. E la cinquina di oggi suggerirebbe che tre indizi fanno una prova.

Non so, quello che è certo è che io mi sono rotto le palle dei minimalisti. Quelli che “abbiamo comunque fatto un campionato eccezionale” e “siamo salvi già a marzo”. Quegli stessi dell’evergreen “ricordiamoci di Marcianise”: un concetto, questo, intellettualmente profondo come una televendita di Mastrota e originale come una melodia di Gigi D’Alessio. E sticazzi allora, non lo diciamo? Mi sono rotto le palle anche delle dichiarazioni grottesche post partita come “siamo stati puniti dagli episodi” e (sentita anche oggi) “è un momento che ci girà così” (non è un momento, ma sono dieci partite).

Serve un mea culpa generale, perché chi ama il Verona merita rispetto e non di essere preso per i fondelli. E certe partite e determinate dichiarazioni sono una presa per il culo, scusate il francesismo. E Marcianise, la C ecc sono il passato, ok? Sveglia!

 

 

 

 

 

 

L’AUTOGOL DI CAMPEDELLI

Un gesto alla Comunardo Niccolai, o se volete alla Riccardo Ferri (data la sua fede interista) quello di Luca Campedelli. Ricordate i due “re” degli autogol? La decisione del Chievo di vendere a trenta euro la curva sud e a 45 la tribuna superiore in vista del derby del 5 aprile ha scatenato le ire sul web del popolo internauta dell’Hellas e le defezioni ufficiali per il momento di alcuni gruppi organizzati di tifosi.

Tanto tuonò che piovve. Voglio dire, c’era da aspettarselo. Il presidente del club della Diga, si sa, non riscuote di particolare simpatia tra i sostenitori del Verona. Un rapporto che va oltre la rivalità calcistica e ripiega sulla polemica degli anni scorsi sui simboli e i colori. I prezzi della stracittadina non hanno fatto altro che scoperchiare la polvere sotto il tappeto.

Ma credo ci sia anche dell’altro. Chi si è arrabbiato pensa che, comunque vada, per il numero uno di via Galvani sarà un successo: o avrà l’incasso, o uno stadio deserto e a maggioranza clivense che avvantaggerà la squadra di Corini. Ed è questo gusto beffardo che non va giù. Un’ira, definiamola, di frustrazione.

Ma siete proprio sicuri che Campedelli abbia vinto in ogni caso? Qualche dubbio l’avrei, perché l’alzata di scudi generale, paradossalmente, è un bene per il Verona molliccio di questi tempi. Se mai ci fosse stato il rischio – inconscio finché volete, ma tangibile – che la società di via Belgio e, di riflesso, Maietta & C. arrivassero scarichi alla partita, adesso quel rischio si riduce decisamente.

Ce lo ricordiamo il derby d’andata? La melassa della vigilia, gli “abbracci e i baci” a distanza tra Toni e Dainelli e tra Toni e Corini, le parole al miele tra i due allenatori? Ce la ricordiamo l’indifferenza dell’ambiente, perché “per noi questo non è il vero derby” ? Sembrava il clima di una scampagnata,  che poi (come scrissi) ebbe i suoi effetti in campo (anche se non si è perso per quello).    

C’è chi resterà fuori, chi nonostante tutto entrerà, ma il polverone polemico rimane e chissà che non sia una molla per la squadra. Io voglio vederla così, tra il provocatorio e lo speranzoso.

Capite ora perché quello di Campedelli è un autogol degno dei migliori Niccolai e Ferri?

P.S. Siccome in giro ho letto di tutto, chiedo a chi commenta di tenere toni civili. Grazie.

 

    

“DI QUESTA PARTITA NON CE NE FREGA UN C…”

“La verità è sovversiva” scrive Luis Sepulveda. La verità è anche dissacrante e l’unica verità del sabato sera di Verona-Inter è quel coro intonato dai butei della sud sul finire: “Di questa partita non ce ne frega un cazzo”. Un vecchio tormentone, ma ieri sera improvvisato sulle emozionanti note di “I will follow him” e dunque particolarmente riuscito.

Il significato di quelle parole è da sempre chiaro: si tifa innanzitutto… il tifo e la curva, poi il Verona, ma inteso come “istituzione”, maglia, simboli e colori. La partita in sé è un contorno, un pretesto, il grimaldello ideale per questa autocelebrazione settimanale di uno stile unico in Italia. E giocatori e allenatore sono solo delle comparse (da qua il must che non si dedicano loro cori).

Ma ieri – preso atto di come la stagione del Verona stia scivolando verso un grigio anonimato – quelle parole partite dalla curva, ma poi intonate da tutto stadio, assumono forse senza volerlo anche un significato dissacratorio della sfera più prettamente calcistica. Infatti, cosa vogliamo ormai scrivere di partite come Bologna, Parma e Inter? Il Verona ha mollato qualcosa a livello di tensione emotiva e di furore agonistico. Veri obiettivi, almeno per quest’anno, non ce ne sono più, per colpa di una paranoia esclusivamente italiana per cui i piccoli-medi club, di anno in anno, vivono, lottano e vegetano solo per fottuta rotta dei 40 punti. La parola “salvezza” nel resto del mondo pallonaro non è nemmeno contemplata, qua ormai è bagaglio antropologico di ognuno di noi, in perfetta linea con la nostra cultura remissiva, di piccolo cabotaggio, anti-rivoluzionaria e cripto-democristiana che ci ammanta da secoli e ci ammanterà nei secoli e nei secoli (amen).

E allora di cosa scriviamo? Ci mettiamo a fare una disamina tecnica di Verona-Inter? La mia è telegrafica: il nostro punto di riferimento Luca Toni, ieri come a Parma, è apparso un po’ “sulle gambe”. Se lui non è al top l’Hellas ne risente , dal momento che il calcio, nel bene o nel male, lo fanno i calciatori e non i “demiurghi” della panchina, da Mourinho in giù. E Toni quest’anno è stato metà squadra, un po’ come Gilardino nel Bologna di Pioli la scorsa stagione (questo sappiamolo in vista della prossima annata).  Potremmo poi parlare di un Iturbe “spremuto” da un lavoraccio di mesi e mesi a tutto campo e ieri costantemente raddoppiato (altri sbocchi non ne abbiamo?). Nel secondo tempo Mandorlini ha chiesto all’argentino di restare “alto”, il tentativo giustamente era di provare a pareggiare, ma (sarà un caso) poco dopo abbiamo preso il raddoppio (come dire, non abbiamo meccanismi difensivi tali da poterci permettere gli esterni d’attacco “alti”?). La frittata è stata servita da un centrocampo scombiccherato, col compassato (eufemismo) Donati, l’ancor intangibile Marquinho e il debuttante Sala, bravo (lo si vede) ma ora come ora un tantino’ affannoso, e una difesa che non per niente è la stessa della serie B (e il calo dei nostri attaccanti è lì impietosamente ad evidenziarlo).

Ma ogni disamina tecnica è nulla rispetto a quella che è una sensazione. Checché ne dica Moras (abolire le interviste di fine partita, no?), non percepisco più quel “sacro fuoco” nei ragazzotti in maglia gialloblù (o blu-arancio, ma qui entriamo in un’altra sfera a me cara e lasciamo perdere per carità di patria). L’auspicio è che sia solo un periodo storto, mettiamola così. Lo dico anche alla critica veronese: è ora di finirla coi discorsi autoassolutori che “tanto siamo salvi”, “ci siamo divertiti” e balle varie. Rimangono dieci partite da giocare ed è prestino per abbassare le serrande e appendere il cartello “chiuso per ferie”. Obiettivi? Vincere il derby, raggiungere i 55 punti e restare tra le prime otto. Non vedo alternative.

RASSEGNATI, MA FELICI

Colgo in una parte dei tifosi una felice rassegnazione. “Pazienza”, la parola più gettonata a commento della sconfitta di oggi. E’ la fetta dei tifosi “moderni”, figli inconsapevoli di questo calcio malato e liquido. Perché, diciamocelo, fossimo ancorati nel mondo antico e meno insano del football che fu, saremmo incazzati con Di Marco – che come un Massa qualsiasi si è bendato gli occhi sulla randellata a Sala in area parmense – ma anche coi nostri, che incuranti dei duemila e passa tifosi al loro seguito hanno cominciato a giocare solo negli ultimi venti minuti. Rilassamento? Forse. Giocatori scarichi mentalmente? Chissà. Una cosa è certa, dopo l’exploit di Livorno non è più il Verona che conosciamo. E attenzione, non è questione di vincere o perdere, ma di atteggiamento. Oggi l’Hellas ha dato l’impressione di poter pareggiare solo nell’ultimo scorcio di partita, prima si è limitato al piccolo trotto e a un’unica fiammata del solito Iturbe.

Esistono illustri (e recenti) precedenti di squadre di piccolo-medio cabotaggio che arrivate a una precoce salvezza, per un motivo o per l’altro, rallentano. Senza andare troppo lontano, il Catania di un anno fa. Alzare l’asticella degli obiettivi, lo riconosco, spesso è un esercizio psicologico non facile. Eppure è un obbligo morale, in particolare nello sport, dove agonismo e competizione sono tutto.

Sia ben chiaro, il calcio – per come è concepito da vent’anni a questa parte – non invoglia troppo a farlo. L’hanno mutato geneticamente, trasformandolo da sport a prodotto, per giunta logorante e iniquo, con un calendario fitto e un gap incolmabile tra i pochi club ricchi e tutti gli altri. Il meccanismo ha partorito figli e figliastri, in un sistema che si auto-perpetua nella sua degenerazione. I milioni della Champions fanno gola, ma spettano a chi è già ricco; le briciole della vecchia e gloriosa coppa Uefa, ora Europa League, agli altri, ma non se le fila nessuno, poiché è più lo scazzo che il guadagno. Il resto, non mi stancherò mai di dirlo, lo fa una serie A a venti squadre con tre sole retrocessioni.

Risultato? Un calcio a compartimenti stagni; le solite 4-5 “lottizzate” a priori che si disputano i posti in Champions, altre 4-5 la salvezza, e le restanti che già in primavera potrebbero pure andare in ferie. E come biasimarle, questo è il calcio di oggi e anche i tifosi si adeguano. Quindi “pazienza”, ci capita di proferire senza troppa emozione, dopo aver perso uno scontro diretto. Rassegnati, ma felici.

MANDORLINI, DA “CAPOPOPOLO” A “IMPIEGATO” (ALLA FACCIA MIA!)

Antonio Tabucchi in “Sostiene Pereira” scrive che tutti noi abbiamo un “io dominante”, ma che negli anni questo può cambiare a seconda del mutamento delle circostanze. E’ un concetto simile a quello che, ancor prima, Hermann Hesse aveva ampiamente trattato  nella sua letteratura, in particolare in “Siddharta” e “Il lupo della steppa”.

L’amico Marco Gaburro, nel suo blog, scrive di un Mandorlini più “aziendalista” rispetto al passato, vedi l’esclusione di Cacia per i noti problemi contrattuali del giocatore. E’ vero ed è un segno di intelligenza. Il mister ha saputo modificarsi una volta che ha capito che l’aria attorno a lui era cambiata, ergo gli interlocutori in società. Martinelli, managerialmente, non era quello che è Setti ora. Il compianto e indimenticato presidente della promozione in B (ricordiamolo sempre) aveva del club una gestione patriarcale “vecchia maniera”, più romantica e basata in un certo senso sugli affetti, così trovò nel Mandorlini “caudillo” l’uomo giusto per surrogare alle mancanze organizzative di quella struttura.

Setti, attraverso il lavoro di Gardini e Sogliano, una volta arrivato ha rivoltato quell’assetto deficitario come un calzino, ritrovandosi tra i piedi un allenatore inizialmente sgradito, ma amato dalla “piazza” e soprattutto vincolato a un biennale. Mandorlini, per quel suo temperamento “sudamericano”, infatti non calzava nel disegno del nuovo corso. Un temperamento che col tempo, tuttavia, si è attenuato, attraversando anche tempeste e periodi di tensione costellati di rapporti ai “minimi storici”, come i lettori di questo blog sanno bene. Con la stagione attuale, assieme a quelle che per Setti e Sogliano sono state le prime significative vittorie (per via Belgio la promozione dell’anno scorso è il minimo sindacale), si sono normalizzate anche le relazioni tra le parti.

Lo stesso presidente l’ha riconosciuto ieri: “Con Mandorlini sarebbe bello continuare, specie dopo tutto il percorso che è stato fatto assieme”. Con la parola “percorso” Setti non si riferisce solo ai risultati (che, fuori da ogni ipocrisia, rimangono comunque la cosa più importante), ma anche alla crescente sintonia tra il tecnico di Ravenna e la dirigenza, se non umana (ma chissenefrega), quantomeno professionale.

Scrivevo l’8 agosto 2012, primo – e per lungo tempo unico – a rendere di pubblico dominio le ambiguità allora esistenti tra il mister e la società: “Mandorlini, emotivo, dittatoriale, “padre padrone”, per indole anarchica e solitaria  poco aziendalista, lui stesso essenza del “potere carismatico e non democratico” (cit.) per dirla col sociologo Max Weber, è capace di fare “solo” il tecnico? Di “limitarsi” ad allenare giocatori non scelti da lui? Be’ sono perplesso. Mandorlini come tutti gli emotivi (razza che conosco bene) necessita di sentirsi sulla pelle la creatura che ha in mano. Mandorlini, per inciso, non è e non potrà essere mai un mero esecutore”.

Mi sbagliavo. Il Mandorlini “capopopolo” è diventato un ligio dipendente. Complimenti.

P.S. Mandorlini che – è risaputo – “non mi sente”, eppure so che ci vede benissimo. Mi dicono infatti che sia uno dei miei più affezionati lettori e che quelle (poche) volte che non può leggermi è solito chiedere in giro: “Che scrive Barana?”. Non si scomodi mister, il sottoscritto le vuole tanto bene: dove lo trovo un altro come lei?

 

 

 

MANDORLINI E PRANDELLI, BAGNOLI E IL TRAP…”E LA MARISA E L’ANTONELLA”

Manifesta superiorità, e il “pezzo” si potrebbe chiudere qui. Di un altro pianeta il Verona, rispetto al Livorno. Il calcio – non sempre, ma spesso – è nudo e crudo e non servono troppe iperboli per raccontarlo.

E’ la semplice verità, per citare il più bel romanzo di Baldacci. Col Torino, una pari livello, hai sbagliato partita e hai perso (sì ok il fuorigioco di Immobile, ma nel secondo tempo non siamo scesi in campo); cogli scombiccherati amaranto del Di Carlo vestito “da jogging al parco Sempione”, è bastato essere il Verona per chiudere in fretta la pratica.

E’ una questione di qualità, cantano i Marlene Kuntz. Il Verona costruito da Sogliano ha tre fuoriclasse: Toni (ancora il miglior centravanti italiano e tra i primi dieci in Europa), Iturbe e Romulo. Attorno a questi, altri bravi giocatori (oggi abbiamo riapprezzato Jankovic, fortissimo quando ne ha voglia). Tradotto: con almeno dodici avversarie il destino dipende da noi. Di cosa discutiamo?  

Poi c’è Mandorlini. “Il bravo allenatore è quello che non fa danni, che asseconda il talento dei suoi giocatori, senza volerlo prevaricare ”, mi disse anni fa Cesare Prandelli in un’intervista. Lo stesso bagnoliano concetto, rivisitato in chiave moderna, del “terzino che deve fare il terzino e l’ala che deve fare l’ala”. Teorie tuttavia smentite nel Verona di Mandorlini, dove il talento è sacrificato alla causa (e al modulo), con mezze punte come Iturbe, o ali offensive come Jankovic e Martinho, o addirittura punte vere e proprie come Gomez che giocano da tornanti. Eppure i risultati arrivano, come la mettiamo?  

Non amo il calcio del mister, lo sapete. Non è un mistero, e al netto dell’ipocrisia e del conformismo che ci sono anche nell’ambiente giornalistico l’ho sempre confessato, fregandomene altamente della vulgata popolare e dei risultati. Un calcio abbastanza prevedibile e senza grandi varianti. L’ho già detto più volte e lo ribadisco: Mandorlini sa fare solo un tipo di calcio, ma lo sa fare bene (è tra i più bravi nell’insegnamento monotematico). E coi giocatori che si ritrova, questo basta e avanza. Giocatori, tuttavia, che lui sa gestire con maestria.

Faccio un esempio: Toni. Simpatico, guascone, esemplare, ma personaggio complesso, dal carisma, dalla personalità e dal pedigree che pesano, anche nella vita quotidiana del gruppo. Per domarlo servono abili qualità di stretta “psicologia da spogliatoio”. E Mandorlini, da calciatore, ha vissuto grandi spogliatoi potenziali “polveriere” e ha studiato alla scuola di Trapattoni e Mazzone. E se al Trap credo abbia rubato la dote raffinata della “paraculaggine”, oltre che il “conservatorismo” tattico, di sor Carletto ha preso l’esuberanza nel rapportarsi ai giocatori. 

Certo, con la pancia piena si discute più volentieri, dunque  a 39 punti possiamo pure sbizzarrirci in chiacchiere da bar su cosa combinerebbero Iturbe, o gli stessi Jankovic, Gomez e Martinho, sgravati da quei compiti di copertura di cui ho scritto sopra. Oggi contro una squadra scarsa, o in passato in situazioni disperate in cui dovevamo recuperare e i nostri esterni giocavano all’assalto, ne abbiamo avuto un assaggio. Ma già Sacchi (che pure Mandorlini calcisticamente detesta) schierava Signori all’ala sinistra e non di punta, in nome del mantra della “copertura degli spazi”, maledizione del calcio moderno. Idem Mourinho con Eto’o.

Io credo che se Iturbe e compagnia venissero “alzati” guadagneremmo qualcosa davanti ma, nell’arco di un campionato, perderemmo nel complesso (fatto salvo con Mandorlini in panchina e non qualcun’altro). Perché non sarebbe più il calcio di Mandorlini; non sarebbe più quell’unico calcio che Mandorlini sa congegnare così bene. La domanda, dunque, non si pone:  sarebbe come chiedersi perché un adolescente non ha i capelli bianchi, o come mai un vecchio ha le rughe (forse perché non hanno la sfiga di Ravanelli, o i soldi di Berlusconi e Baglioni, mi rispondereste, ma questo è un altro discorso…). Lo stesso dicasi per Donadel preferito a Cirigliano. L’argentino di sicuro è bravo, ma (al momento) non così bravo (a differenza del Jorginho di tre anni fa in quella serie B) da sconvolgere gli ideali del mister, che preferisce l’usato sicuro dell’ex Fiorentina.

Voglio dire, io amo un altro calcio. Bagnoli e non il Trap, Prandelli e non Mandorlini, del Bosque e non Mourinho. Ma finché vinciamo, direbbe proprio il Trapattoni d’annata immortalato dalla Gialappa’s, è come scegliere “tra la Marisa e l’Antonella”. A noi, come al Trap, stante così le cose vanno bene entrambe.