IL CALCIO E’ NIENTE SENZA I TIFOSI

 

“Proletari di tutto il mondo unitevi” esortò invano Marx. Quello che non riuscì al filosofo tedesco, è riuscito – suo malgrado – alla Football Association, l’istituzione che governa il calcio inglese. I tifosi-proletari, non di tutto il mondo ma d’Oltremanica, giovedì scorso hanno messo da parte per un giorno le storiche rivalità e si sono ritrovati davanti al pub Globe di Londra, di fronte a Baker Street,  e dopo qualche pinta di birra hanno marciato uniti fino sotto alla sede della F.A.

“Football without fans is nothing” lo slogan. Il caro biglietti e il calcio televisivo che non rispetta il tifoso, le ragioni della protesta. L’idea di questo corteo è nata dopo un paio di incontri organizzati dai gruppi di tifosi del nord-ovest dell’Inghilterra e di Londra con gli Spirit of Shankly del Liverpool, i veri ideologi della marcia. Il tutto sulla scia delle proteste nate un anno fa negli stadi contro i prezzi troppo alti. Così i tifosi dell’Arsenal hanno marciato a fianco dei loro rivali degli Spurs e i tifosi del Liverpool stretti a quelli del Manchester United. Uniti per una causa nobile: far tornare la working class allo stadio e riconsegnare il football alla sua vera dimensione, quella di sport (e non di mero spettacolo televisivo) interclassista e popolare. Due aggettivi che il tanto celebrato modello inglese, quello che noi a sentire i soloni dovremmo supinamente copiare in tutto, ha ridimensionato fin dagli anni ’90. Da Murdoch a Berlusconi (e ai loro tanti piccoli emuli) poi il passo è stato (fin troppo) breve e si è propagato un po’ dappertutto. Risultato? Il football è sempre meno sport e sempre più entertainment glamour e non per tutti. Fa in parte eccezione la Germania, cogli azionariati popolari diffusi e i settori popolari rimasti… popolari, sia per il modo di vedere la partita (in piedi a tifare), che per i prezzi in rapporto al reddito.

I sudditi della Regina, in altre parole, si stanno ribellando allo status quo da almeno un anno. E noi? Formalmente cittadini di una repubblica parlamentare – sebbene “imperi” de facto “Re” Giorgio Napolitano, e il Parlamento, a furia di decreti legge del governo di turno, sia spoglio di ogni potere da anni – siamo sudditi di una cosa ben più modesta, eppure complessa della Regina: l’italianità. Ci aumentano sensibilmente gli abbonamenti, nonostante la crisi economica e soprattutto senza migliorare le condizioni di accesso agli stadi (tornelli, tessere del tifoso) e all’interno degli stessi (bagni, bar ecc)? Sbraitiamo, ci incazziamo, urliamo, imprechiamo… mezza giornata. Poi accettiamo tutto passivamente, anzi insultiamo chi nell’immobilità generale si è limitato ad alzare appena un sopracciglio. Reagiamo all’italiana, ecco: subito incazzosi e riottosi, poi remissivi, pavidi e conformisti. Spesso addirittura più papisti del Papa, diamo di gomito al più forte (le società in questo caso) per sentirci moderni e fighi, additando a tristi sfigati lagnosi i “ribelli”. Un doppio sbaglio.

Basterebbe invece che ogni tifoseria avesse una sua “lobby” istituzionale davvero indipendente, che con intelligenza, metodo e rispetto per le ragioni del proprio club di appartenenza, incidesse sulle scelte del medesimo quand’esse riguardano direttamente  la vita del tifoso (biglietti, abbonamenti, decoro degli stadi, rispetto dei simboli e dei colori). Perché  “Football without fans is nothing”. Perché il calcio non è e non sarà mai un’azienda come le altre. Perché dietro a ogni club non c’è solo un patrimonio economico (che spesso varia in base alle categorie), ma anche umano (ricordate quella squadra con diecimila abbonati in C?). Perché nella storia di un club medio-piccolo le categorie variano, i tifosi no. Mi piacerebbe accadesse, che nascesse sul serio un vero contropotere istituzionalizzato, affinché non passasse sempre tutto sotto silenzio. Anche a Verona e al Verona. Farebbe bene anche ai club, perché senza voler scomodare Rosseau, Voltaire e il liberalismo francese, qualsiasi organizzazione sociale, se non vuole implodere, si regge grazie al bilanciamento e alla contrapposizione dei poteri, nel rispetto dei ruoli. Ma dubito accadrà, siamo italiani mica inglesi.

LA MAGLIA NERA E’ BELLISSIMA

Ho cambiato repentinamente idea, quasi più velocemente di Giulianone Ferrara. La maglia nera – pardon Total Black ché noi veronesi ce la caviamo con l’inglese – è bellissima. Molto gialloblù anche, vabbè non nel colletto o nel bordo manica e nemmeno nel baffo, ma non facciamo i difficili, noi siamo inguaribili romanticoni, sebbene inclini al taffazzismo, e ci basta l’anima. Peraltro essa smagra, fondamentale – oserei dire decisiva – argomentazione estetica in suo favore. Qualche perdigiorno che spulcia il web h24 l’ha derubricata nei commenti di questo e altri blog “maglia da catalogo a 16 euro con aggiunta del simbolo e degli sponsor”. Buontemponi maliziosi e menagrami! Siamo in serie A, non vi va mai bene niente? Ricordate i campetti della C? Do you remember Pastorello, Cannella, i cardinali e i soldi falsi rifilati al povero Conte Arvedi? Cosa c’entra questo con la maglia? Niente, ma fa bel gioco dirlo, così da zittire i piantagrane lamentosi come voi. “Ma noi abbiamo solo detto che siamo orgogliosi di Nike, ma ancora di più dei nostri colori e simboli”. E come vi permettete sobillatori da quattro soldi? No Global! No Tav! Comunisti! Anarco-insurrezionalisti! Pretoriani da destra sociale anticapitalista! Indipendentisti! (“punto! Due punti! ma sì, fai vedere che abbondiamo… Abbondandis in abbondandum..” diceva Totò). “Ma se abbiamo ricordato il grande merito della società, in particolare di Gardini, in tutta questa operazione commerciale? Certo ci siamo solo domandati, con garbo e umiltà, se non c’è il rischio cogli anni di smarrire parte della nostra identità per il marketing, come sta succedendo ad altri numerosi club. E’ questo il calcio?”. Vecchi nostalgici tromboni, piantatela di piangere, fatevi una scopata e godetevi la vita, no? Blogger stilosi senza argomenti, ma non avete una fava da scrivere? Chessò parlate d’altro, delle previsioni del tempo, dell’afa estiva e del gelo invernale, degli esodi di ferragosto, del problema di Palermo che “è il traffico caro Johnny”. Altrimenti tacete petulanti maestrini perennemente col ditino alzato! Un giorno faremo la Champions League, magari in maglia a pois. Così anche i francesi ci stenderanno i tappeti rossi.

P.S. Topic volto a sdrammatizzare e farsi due risate e chiuderla qua. Il mondo del calcio si prende tremendamente sul serio. Si sta parlando di maglie e non di crisi, disoccupazione, precariato ed esodati.

P.P.S. Voglio bene a Gianluca Vighini, innanzitutto come persona. Come giornalista parla la sua storia, dentro e anche fuori le mura (un giorno forse vi racconterà gli aneddoti gustosissimi dei suoi anni di Roma). Io sono solo un blogger da strada, senza pretese. Forse il giornalista-blogger veronese con più partite in Curva Sud e su certe questioni viene fuori la mia anima identitaria e tifosa, quindi prendete i miei deliri per quello che sono.  Io e Gianluca siamo due sanguigni fottutamente narcisisti e altrettanto permalosi, e  la pensiamo diversamente su quasi tutto. Per fortuna, dice sempre lui, meno male, aggiungo io.  E’ proprio questo il bello. Infine  io conosco la gratitudine e a lui sarò sempre grato. A prescindere.

MAGLIA NERA E SIMBOLI: L’IDENTITA’ NON HA PREZZO

Posso dire che la maglia nera non mi piace, o passo per bastian contrario?  Posso, chessò, almeno sussurrarlo, o passo per sfigato? Posso, di grazia, intimamente non desiderarla indossata dal Verona e ricordare che noi siamo giallo e blu e basta, o passo per nostalgico o, peggio, conservatore?  Posso gentilmente e giuro, sì, garbatamente farlo presente, o sono un reietto riottoso, trombone e chiaramente frustrato? Mi è permesso di scrivere, con calamaio opaco e penna delicata, of course, che all’ovale strisciato (sottolineo strisciato) simile a quello di molti club (strisciati), preferisco il rombo col mastino stilizzato degli anni ’80, più originale e identitario?

So bene che quella nera sarà solo  la terza  maglia. So altrettanto bene che la maglia nera ce l’abbiamo avuta in questa stagione e anche in qualche annata dei ’90, dunque non è una novità e non mi scandalizzo. Aggiungo: qua non si sta mettendo in discussione l’ovvio, ergo il ruolo di Nike. Siamo tutti orgogliosi, io per primo, che un marchio così importante si sia legato al Verona per quattro anni. Il fautore dell’accordo è stato Giovanni “Richelieu” Gardini, mosso credo da un’idea: creare un business “di riflesso”, cioè un effetto domino, avvicinando al Verona altri marchi importanti. Giusto così: il calcio si evolve e il marketing è fondamentale. E la serie A costa. Tuttavia alcune scelte sono discutibili e prese una a una – ieri il simbolo ovale e strisciato col mastino in formato mini, oggi la maglia nera senza scala e bordini gialloblù, domani chissà – rischiano di minare l’identità di un club. E l’identità, scusate il lagnoso romanticismo, non ha prezzo. In attesa di vedere la prima e seconda maglia, la Nike ci pensi.  

LA “METAMORFOSI” DI SOGLIANO

 

Non sarà un mago della sintassi, Sean Sogliano, anzi.  Spesso il ds baruffa coi congiuntivi, si scontra con la grammatica, s’arrampica affannosamente sui soliti aggettivi, figuriamoci quando s’avventura negli inglesismi (auzzider, rimarrà sempre una perla). Ma se la forma lascia a desiderare (ahimè, ci sono affezionato), lo stesso non si può dire della sostanza. Il direttore sportivo del Verona, infatti, ha due pregi (rari dato il ruolo che ricopre): non dice grandi bugie (piuttosto omette) e parla chiaro arrivando al cuore del problema. “Il mercato della serie A è più difficile perché non puoi prendere tutti i giocatori che vorresti” ha detto ai cronisti prima di partire per il Sudamerica. Tradotto: se sei più povero, devi essere più bravo e scaltro. Hai detto poco.  

Ed è questo il punto. Sogliano dovrà dimostrare di essere un manager da serie A. Nella stagione appena conclusa il ds figlio d’arte ha svolto egregiamente il compito assegnatogli. Ma in serie B. La proprietà gli aveva chiesto di portare a Verona il meglio della cadetteria e lui c’è riuscito, contenendo (cosa non da poco) il più possibile i costi con operazioni intelligenti, tra svincolati (Rivas, Moras e Laner), prestiti con diritto di riscatto (Martinho e Cacciatore) e giocatori in offerta (Cacia). E’ stato bravo il ds, perché – checché ne dicano i soloni che stupidamente credono che al mondo tutti possano fare tutto e che coi soldi è facile di default  – a certi giocatori ci arrivi anche con le relazioni e il tempismo giusti. E poi per costruire una squadra non basta comprare il meglio, ma anche metterlo al posto giusto, senza doppioni, o ruoli mancanti. Sogliano, dicevo, in tutto ciò è stato bravo. Ma non bravissimo, perché il presidente Setti offriva i migliori ingaggi su piazza a quei livelli e i giocatori che giravano erano, tutto sommato, i soliti noti. In A, al contrario, serve fantasia, intuito, conoscenza del mercato internazionale e giovanile. Occorre ampliare il raggio delle relazioni (il mondo non si ferma a Varese) e dei contatti. Occorre (il Chievo insegna, lasciando stare l’inarrivabile Udinese) creare anche una struttura di collaboratori che battano i campi minori (ma un Prisciantelli o un Gibellini come capo degli osservatori sono di troppo?) e internazionali.

In buona sostanza se “la serie A è un altro sport” (copyright Setti), essere ds in una neopromossa è un altro mestiere (copyright mio). Sogliano avrà carta bianca, si consulterà con Mandorlini, ma deciderà lui. E, statene certi, non costruirà una squadra a immagine e somiglianza dell’allenatore. E’ la strategia societaria che lo impone e poi non è più il calcio di una volta. Setti vuole patrimonializzare (legittimo, lo fa per business mica per passione, l’importante è che il business sia conciliabile con le ambizioni sportive, quindi non pastorelliano) e gli allenatori – al contrario – sono razza precaria per vocazione. Da qui le  nette parole di Sogliano: “Non lavoro su giocatori che non sono nostri”. Quindi niente prestiti, possibilmente (l’eccezione sarebbe il fenomeno di turno). I nomi che circolano, se veri (il calciomercato è di per sé civettuolo e falso), sono promettenti, staremo a vedere. Quello che è certo è che il giovane e ambizioso Sean adesso si gioca la credibilità (in sintesi “sono bravo, non mi manda papà”) e la carriera. “Non riesco mai a godermi i risultati raggiunti, penso sempre allo step successivo. Sono un irrequieto”, mi ha confidato il giorno dopo la promozione. E’ una buona premessa, in bocca al lupo.  

MANDORLINI COME NAPOLITANO

 “Re” Giorgio e “Re” Andrea. Accomunati e accompagnati da un destino. Tornare nel giro quando tutto (per loro) sembrava finito. Napolitano come Mandorlini, Mandorlini come Napolitano. Scusate l’azzardo, o il parallelismo volutamente esagerato, ma questo totoallenatore mi ha ricordato un po’ la recente corsa per il Quirinale. Romano Prodi? Impallinato. Franco Marini? Idem. Stefano Rodotà? Fuori dai giochi. Un po’ come Beppe Sannino e Devis Mangia, dati da tutti (me compreso) come i probabili nuovi allenatori del Verona e invece, alla resa dei conti, superati nei sondaggi di Via Torricelli e, in particolare, dalle intenzioni del ds Sean Sogliano (il vero fautore dell’operazione) da chi c’era già. Restaurazione? Nel caso di “Re” Giorgio sì, nel caso di Mandorlini le parole esatte sono continuità e meriti sportivi. Infatti le somiglianze finiscono qua, perché se a Roma sono stati i partiti ad andare col “cappello in mano” dal Capo dello Stato per la sua rielezione, consegnandogli di fatto le chiavi del Paese, in via Torricelli è stato Mandorlini a fare un gesto di umiltà. “La serie A è la mia occasione, sono pronto a rimettermi totalmente in discussione”, le apprezzabili parole del tecnico lunedì durante l’incontro. Parole che hanno fatto piacere a Sogliano, che la sera stessa, privatamente, affermava: “Mi dispiacerebbe non andare avanti con lui”. 

Detto e fatto. Giusto così, diamo a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Fuor di metafora, se è vero  che Setti e Sogliano hanno costruito una fuoriserie per la serie B, è altrettanto giusto, a bocce ferme, riconoscere all’allenatore di aver condotto in porto la nave. “In qualche modo” ha ribadito Setti al Vighini Show di una settimana fa. Certo, Mandorlini ha commesso più di un errore, Setti e Sogliano gli rimproverano, in particolare, la discontinuità nell’intensità degli allenamenti e gli infortuni muscolari (lo staff tecnico fa capo a lui), la testardaggine nel modulo, qualche favoritismo di troppo con alcuni calciatori e la gestione emotiva delle sconfitte (da qui le famose conferenze stampa di Sogliano). Tuttavia il tecnico si è ritrovato la scorsa estate una rosa forte, ma ampiamente rinnovata e soprattutto – per le caratteristiche dei suoi giocatori (alcuni fondamentali nelle idee societarie come Bacinovic, Rivas e Carrozza) – poco “mandorliniana”. Come se a un artigiano (perché questo è Mandorlini, allenatore vecchio stampo) avessero cambiato di punto in bianco gli strumenti in laboratorio.

Un equivoco, questo, durato una stagione intera e nato da una scelta – la conferma di Mandorlini – un anno fa più subìta che altro da Setti e Sogliano, appena insediatisi. Un equivoco che poteva generare disastri. Ciò non è successo perché, per la strada, Mandorlini e Sogliano si sono avvicinati. Il ds ha lasciato che l’allenatore disegnasse pian piano la “sua” squadra (fuori Bacinovic, Rivas, Carrozza, Grossi, Crespo e Bojinov), Mandorlini a sua volta ha accettato con umiltà il contributo deciso di Sogliano nella gestione del gruppo. Un equivoco, tuttavia, che non poteva ripresentarsi in serie A. Da qui le parole dure e nette di Setti al “Vighini Show” e i giorni di riflessione che la società si è concessa.  Mandorlini ha recepito e ha fatto un passo indietro sia con Sogliano, che con Setti e il dg Gardini, i quali parallelamente gli hanno chiesto rassicurazioni  sul suo comportamento fuori dal campo (lo impone la serie A ipermediatica di oggi) e nei suoi rapporti col club. Mandorlini – l’auspicio del patron – non deve essere un corpo a se stante rispetto alla società, con il suo marchio e la sua “corte” (composta anche da qualche giornalista amico), ma essere un tutt’uno. Rassicurazioni avute e fine delle ambiguità, si spera. Ora comincerà una nuova storia, più difficile (la serie A è davvero un altro sport), ma forse ancora più bella.   

IL SETTI INGENEROSO (CON MANDORLINI)

 

Nemmeno un bacio della morte. Manco una lacrima di coccodrillo. Neanche quella “svogliata carezza e un po’ di tenerezza” (cit. De Andrè) che sancisce la fine di un amore (peraltro mai sbocciato). Il Setti ospite del Vighini show, giovedì, non si è impegnato neppure nell’esercizio – spesso redditizio ma faticoso – dell’ipocrisia. Il presidente è stato duro nei confronti di Mandorlini. E un tantino ingeneroso. Tra qualche sua tipica ranzanata in salsa emiliana, nel senso di Ranzani, l’imprenditore bauscia di Cantù diventato famoso a Zelig (“li prendo sempre per il culo Sogliano e anche lo stesso Cometti, ché li ho salvati io da dove erano portandoli a Verona”) e quel suo modo di vestire – vedi giacca coi bottoni d’oro e mocassino senza calza – che ricorda il mitico cumenda Zampetti dei Ragazzi della Terza C e gli yuppi degli anni ’80 in versione balneare, il presidente del Verona ha menato più di qualche fendente al “povero” allenatore del Verona, che ne è uscito con le ossa rotte dalle stilettate di Setti, quasi fosse realmente il “custode dello stadio” di gibelliniana definizione e non il tecnico gialloblù più vincente degli ultimi 13 anni (a cui bisogna riconoscere i giusti meriti, come è stato doveroso criticarlo a suo tempo, anche ferocemente, quando la critica aveva una funzione).  

“Siamo stati promossi in qualche modo, questa squadra avrebbe potuto fare 90 punti, quella dell’anno scorso ne fece 78, quest’anno 82 ed eravamo molto più forti”, il primo “spintone” presidenziale. Poi un crescendo rossiniano. Al bravo Alessio Corazza del Corriere di Verona che faceva notare il ruolo predominante di Sogliano nella gestione del gruppo, parlando espressamente di commissariamento dell’allenatore, dando tacitamente seguito al mio blog “La badante Sogliano”, lui ha confermato: “E’ normale che sia così, io non voglio un ds che sia sempre all’estero a vedere giocatori, sennò sarebbe un semplice osservatore”.  Poi la confidenza al vetriolo, quasi uno “schiaffo” a mano aperta: “Prima di Natale il tecnico era a forte rischio, è stato Sogliano a decidere di confermarlo, io do delega in bianco ai miei collaboratori nella gestione della propria area di competenza”. N’è seguito il “pugno” di stordimento: “Mi sono arrabbiato con lui sul discorso Morosini. Quelle cose  (“Orgoglioso di essere nemico del Livorno” nda) non doveva dirle, punto. In questo calcio devi essere più intelligente e stare attento a quello che dici”. Fino a quello del ko tecnico: “E’ stato un bene che il mister sia stato squalificato, lì abbiamo trovato equilibrio”, rendendo così tremendamente serio un mio blog ironico (“Se mi mandi in tribuna godo”). Setti che supera il sottoscritto all’opposizione. Troppo anche per me.

Chiaro che certe parole mettono una pietra tombale sul futuro a Verona di Mandorlini, più sopportato che amato da questa società. Tuttavia l’allenatore ha un altro anno di contratto e Setti un piccolo spiraglio l’ha aperto. “Sono un freddo, non ho pregiudiziali, parleremo di programmi, e vedremo se i nostri combaceranno coi suoi, e cercheremo di chiarire alcuni aspetti non positivi che sono emersi in questa stagione”. Una piccola apertura, fatto salvo un principio, specie conoscendo il temperamento da caudillo di Mandorlini: “Il filo conduttore è la società, non una persona sola. Non mi faccio dettare legge da nessuno, specie se l’esborso economico è mio”.  

I nodi, tuttavia, sono essenzialmente due: il rinnovo del contratto che Mandorlini chiede, forte di un ottimo triennale che gli ha proposto lo Spezia, e la direzione che prenderà il mercato di Sogliano. “Punteremo sui giovani – dice Setti – solo così si può fare calcio a Verona oggi. Quest’anno avevamo Cacia, bomber di razza, adesso non posso permettermi di comprare uno da venti gol in A, costerebbe milioni di euro, quindi la prossima stagione conteranno le motivazioni”.

Parole di congedo. Troppa la distanza culturale, programmatica ed economica tra le due parti. Molto probabilmente sarà divorzio. E la fine di un equivoco che dura un anno e di cui qui abbiamo parlato fin dall’estate scorsa. Chi arriverà? Indiscrezioni raccolte in società danno favorito Sannino, per il temperamento, necessario a raccogliere un’eredità così pesante. Attenzione però: in questi casi chi entra Papa spesso esce cardinale e Mangia per Sogliano resta sempre il più bravo di tutti. L’ipotesi che porta al ct dell’Under 21 è frenata solo dalla paura di bruciarlo. La piazza, checché se ne dica, ancora qualcosa conta.  

P.S. Per i miei detrattori, tralasciando chi insulta, se Setti ha fatto finalmente chiarezza è anche per merito del sottoscritto, che si è limitato a fare domande VERE, genere ormai raro e ai più sconosciuto. Così in passato ho fatto con Mandorlini e Sogliano. Tratto tutti allo stesso modo perchè non ho amici o nemici, prebende o privilegi. Amo solo il Verona, Preben e Bagnoli. Degli (altri) giocatori, allenatori o presidenti non me ne frega nulla. Non bevo gli aperitivi con loro, come qualche “cane da riporto” (in tutti i sensi) fa. Le domande sono un servizio al pubblico a casa, non un contributo a crearmi un fantomatico personaggio (siamo alle solite, quando non si hanno argomenti per ribattere si attacca la persona). Ringrazio Gianluca Vighini che mi ha dato l’opportunità di farle ospitandomi quest’anno al Vighini Show come in passato a Tuttocalcio.

P.P.S Ringrazio il presidente Setti che non si è sottratto al confronto e ha risposto con chiarezza e senza ipocrisia. Solo quando gli ho domandato: “Ma lei è convinto di Mandorlini?” lui non mi ha risposto. Una non risposta che è più di una risposta. La gente a casa ringrazia, così finalmente ha potuto farsi un’idea di quanto è successo dietro alle quinte quest’anno e che il sottoscritto – per le informazioni verificate che aveva – ha pubblicato ispirandosi al principio einaudiano “conoscere per deliberare”. Il pubblico e il tifoso non sono stupidi e vanno trattati da adulti. Il Verona sono i tifosi, il resto conta poco.


MANDORLINI O MANGIA?

 

E’ il nodo di questi giorni. Mandorlini sì, o Mandorlini no? Maurizio Setti e Sean Sogliano si son dati qualche giorno di riflessione. Il redde rationem che sancirà il prosieguo del rapporto, o il divorzio, con tutta probabilità si avrà all’inizio della settimana prossima. Setti, non è un mistero, non ama granché il tecnico ravennate, il feeling tra i due non è mai scattato, eppure questo non sarà decisivo ai fini della storia. Il presidente del Verona è un uomo pragmatico: “Non decideremo in base ai sentimenti, ma a valutazioni tecniche” ha detto durante i festeggiamenti di sabato. Questo può valere in un senso, ergo “non lo amo, ma possiamo continuare assieme”, o nell’altro – “la piazza lo ama, ma noi decideremo diversamente”. Questa, in linea generale, è una buona premessa.

Impressioni? Le quotazioni dell’allenatore sono in risalita, ma la partita è tutta da giocare. A favore di Mandorlini i risultati e il cambiamento, nel corso della stagione (in particolare dopo la sconfitta di Novara), del rapporto col diesse Sogliano, finalmente gerarchico e non più alla pari anche nella gestione quotidiana del gruppo (l’allenatore in qualsiasi società è un sottoposto del direttore sportivo). Sogliano ha ricevuto “carta bianca” da Setti e fin dal suo arrivo ha sempre ribadito: “Il mercato lo faccio io e partecipo anche alla gestione del gruppo durante la settimana, io nello spogliatoio ci entro, sono un rompiscatole”. Insomma, è chiaro chi comanda.

A sfavore dell’allenatore alcune valutazioni che la società sta facendo sul campionato del Verona nel suo insieme. Deludente fino alla sconfitta di Novara, altalenante fino al Brescia (coi pareggi indigesti di Cesena e col Cittadella) e convincente sul finire. E in via Torricelli sono persuasi di aver messo a disposizione del tecnico una “Ferrari” per questa serie B. “Potevamo fare 90 punti. Ci siamo svegliati tardi” il Setti pensiero. Appunto. E la serie A non è la B. Sullo sfondo, ma neanche troppo, l’ombra di Devis Mangia (più di Sannino, che balla tra la conferma al Palermo e il Chievo), allenatore emergente e che gode di grande considerazione tra gli addetti ai lavori. La frase di Setti “punteremo sui giovani, vedremo cosa ne pensa Mandorlini”, appare criptica al cospetto di un allenatore (Mandorlini) che – come molti suoi colleghi in realtà – preferisce i giocatori esperti. Mangia, al contrario, come il Prandelli che fu (nel 1998 al suo arrivo a Verona) viene dalla gavetta dei settori giovanili e delle categorie minori, in più l’esperienza in Under 21 gli ha permesso di ampliare il raggio di conoscenza sui giovani calciatori europei. Sogliano ha una stima infinita per il tecnico varesino – meno gestore e più tattico di Mandorlini, propulsore di un 4-4-2 molto offensivo sugli esterni e aggressivo in mezzo al campo – e ancora qualche mese fa faceva trapelare confidenzialmente la possibilità di metterlo sotto contratto dopo l’Europeo.

Mangia o Mandorlini? Se la società ne è convinta pienamente e gli costruisce una squadra adatta al suo calcio, io dico Mandorlini. Perché lo merita moralmente, per la continuità tecnica e per la solidità difensiva delle sue squadre (in A fattore importante). Altrimenti meglio cambiare subito, perché repetita non semper juvant e gli equivoci e le ambiguità della stagione appena conclusa nel rapporto società-allenatore non ce le possiamo più permettere. La serie A non perdona e il Verona, da sempre e per sempre, è il bene supremo.  

LA BELLEZZA E L’INFERNO

 

La vita spesso è un paradosso. Il dramma può celarsi nella commedia e viceversa. Lo insegnano anche a teatro. La bellezza e l’inferno – prendendo spunto da un bel libro di Roberto Saviano – mischiati e sovrapposti. Ricordate il gol di Morante con la Pro Patria? Esplose il Bentegodi. Impazzii di gioia, nel mio solito posto in curva sud. Idem dopo il gol di Zeytulaev a Busto Arsizio. Eppure mi venne da pensare, qualche anno dopo a freddo, che quei momenti di esaltazione siano stati in un certo senso la punta dell’iceberg di undici anni di inferno. Gioire, esaltarsi, godere per una salvezza in C1. Nacque in quei giorni la reale consapevolezza: ma come eravamo messi? Cos’eravamo costretti a subire? Cosa festeggiavamo a fare? Eppure il popolo del Verona, altro paradosso, si è unito e compattato proprio in quei giorni bui, come non era accaduto nemmeno in epoche più gloriose. Il popolo del Verona nella sofferenza è stato un monolite. La bellezza di un popolo e l’inferno di un mondo (quello della terza serie),  riprendendo Saviano e la dicotomia del titolo.

Adesso siamo a un sospiro dalla serie A, fuori da ogni stucchevole e italiana scaramanzia (“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, Giorgio Gaber). Ci sarà tempo per ragionarci su, per analisi tecniche, per pensare alla squadra dell’anno prossimo (la serie A è un altro mondo e il Verona non sarà costruito per essere una spanna sopra a tutte nella corsa salvezza, come lo è stato quest’anno in quella promozione). Per discutere del budget di Setti, delle strategie di Sogliano, della posizione di Mandorlini (che moralmente merita di restare, ma senza gli equivoci di quest’anno tra lui e la società, la A non perdona), se Cacia, bomber sublime in B, vale la massima serie oppure no (legittimo discuterne senza che l’interessato s’incazzi a favor di telecamera?).   

La serie A significa tante cose. In primis ridare  dignità, anche fisica e di luogo (restituire la propria casa), al Verona. Significa non sentire più la bella avvocatessa torinese, conosciuta a Nizza in viaggio due anni fa, schernirmi: “Ma il Verona che fine ha fatto?” (io involontariamente profetico e volontariamente orgoglioso risposi “riparliamone fra due anni”). Significa riportare una città nella massima serie, con tutto il carico di passione e di gente che ne segue – non solo quella che va allo stadio, o guarda la squadra in tv (a Verona ama il Verona anche chi non si interessa di calcio, altro paradosso). La serie A significa vedere scene da (ieri) pomeriggio al bar: i butei con cui hai condiviso l’adolescenza e la prima giovinezza allo stadio abbracciarti, piangere, brindare, imprecare di felicità, sventolare i bandieroni e cantare. Esaltati? No, ultimi giapponesi romantici in un calcio che dovrebbe guardarli in faccia, ammirarli e vergognarsi un po’ di se stesso per quanto è marcio di cinismo, disincanto e avidità. La serie A significa, non dimenticare, ma fare pari e patta con il “dramma” di Piacenza. Ricordate quel pomeriggio e quella sera? Ecco, possiamo tutti rimetterci il cuore in pace e sorridere.

Undici anni, è cambiato il calcio e anche il mondo (non in meglio). Forse siamo cambiati anche noi.  Il Verona ha toccato l’inferno, adesso abbiamo diritto alla bellezza. “A chi conosce la bellezza della libertà e della libertà di vivere o amare, e non sopporta il puzzo del compromesso, della corruzione, della devastazione della propria terra” scrive Saviano e, chissà perché, oltre a tante cose più importanti del calcio, penso a Pastorello e Cannella. Siamo sopravvissuti a loro, possiamo ancora aver paura? No, voliamo alto e godiamoci la bellezza. “La bellezza salverà il mondo” afferma il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij. Quella gialloblù di sicuro.

 

  

     

SE MI MANDI IN TRIBUNA GODO

Ognuno, in fondo, se la vive a suo modo. Ezio Vendrame, scapigliato attaccante degli anni ’70 (in confronto Zigoni, suo amico, era una suora di clausura), la prendeva in maniera singolare. Nel ’76 ai tempi del Napoli, a Cagliari l’allenatore Luis Vinicio lo spedì in tribuna. Ma mica s’incazzò Vendrame, hippie  sul serio e mica per moda. Macché: “Abbordai una modella sugli spalti, un gran pezzo di figa, qualche  timido bacio, me la portai in bagno e me la trombai”. E’ uno degli aneddoti del suo gustosissimo libro, “Se mi mandi in tribuna godo” (Chaos ed.), uscito qualche anno fa.

Andrea Mandorlini, invece, hippie non lo è per niente. E non c’entrano solo le idee politiche, orgogliosamente molto diverse dalla cultura: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Spesso squalificato e in tribuna, quest’anno, il nostro allenatore ha vissuto le partite dagli spalti teso e partecipe, com’è giusto che sia. “Un leone in gabbia” ha avuto modo di definirsi lui.  “Libero” in settimana si è divertito a giocare su un paragone irriverente: “Canà Mandorlini: multe ed emozioni”, titolava il quotidiano degli Angelucci riferendosi al record di giornate di squalifica del tecnico (otto), un po’ come il mitico personaggio di Banfi nel film.

Vendrame e Mandorlini, così diversi: sornione e rilassato il primo, teso e inquieto il secondo. Tuttavia un filo che li lega esiste. “Se mi mandi in tribuna godo” e Vendrame abbiamo capito come. Mandorlini invece gode vincendo. Otto partite in tribuna: sei vittorie e due pari. Fosse per la cabala, se non altro, lì ci potrebbe rimanere 🙂

“INCIUCI” DI FINE STAGIONE? RIFORMIAMO I CAMPIONATI

 

Scartabellavo da Feltrinelli domenica mattina. Tra uno scaffale e l’altro trovo “Il club degli incorreggibili ottimisti”. Un buon libro per i molti menagrami che vedono ancora le nubi sul Verona. Lasciamoci andare a un po’ di sano ottimismo, fa bene e poi siamo a buon punto, alla faccia della scaramanzia. Il romanzo del francese Guenassia parla di politica, bistrot parigini, filosofia, rock and roll, bevute e amori. E soprattutto di sconfitti che ci credono ancora. Se ci credono loro, non vedo perché non possiamo noi, che siamo in pieno gioco. Poi sembra pure che Mandorlini al telefono renda più che in panchina e che i giocatori in campo non sentano particolarmente la mancanza dei suoi urlacci, anzi. E’ una battuta, ok c’è della malizia, ma passatemela senza fare le isteriche zitelle.

Nello scaffale a fianco trovo “Deja-vù”, onirico romanzo del britannico McCarthy, un Truman Show di attori consapevoli pagati per replicare gli stessi gesti ogni giorno per un’intera vita. Un po’ come il calcio italiano di fine stagione, con partite “strane” (come detto testualmente da Prisciantelli al “Vighini show”) e risultati già scritti. Dicevano che gli scandali, “scommessopoli” e “calciopoli” in primis, potessero mettere in riga presidenti, club e giocatori. Chissà forse è successo e non c’è più dolo, tuttavia la frittata, gira che ti rigira, è sempre quella ed è ciò che più conta. Partite da sonno, ritmi bassi, difese a maglie larghe e gol e risultati scontati. Dalla serie A ai dilettanti. Un deja-vù appunto, che si ripete ogni anno, frutto di un malcostume tipicamente italico.

Così fan tutti, si dice. Vero, infatti è il sistema – ergo i tanti soldi che girano nel calcio e le eventuali perdite che comporta una retrocessione – che rende macchiavellico e sparagnino il comportamento degli addetti ai lavori. Io oggi faccio un favore a te, domani tu lo rendi a me. Con buona pace dei tifosi e dell’etica sportiva (roba da simpatici idealisti, penseranno i padroni del vapore). Realpolitik da inciucio! Lo fanno al governo, non vedo perché dobbiamo reagire da verginelle violate se succede in campo. Ma non è solo una questione di soldi, capita anche in terza categoria e non è che in Inghilterra o Germania giochino gratis. Incidono anche le ambizioni sfrenate e la “mancanza della cultura della sconfitta”, per dirla con un’espressione cara ad Arrigo Sacchi.

Il problema di fondo, tuttavia, è circoscritto nella nostra italianità, permeati come siamo della cultura consociativa del “Francia o Spagna purché se magna”. Cultura che in politica unisce oggi PD e PDL e univa ieri il CAF (Craxi, Andreotti e Forlani) e il Pentapartito, e nel calcio sfocia in stucchevoli gentlemen’s agreement tra “regali” in campo e magari stretti giri di mercato fuori. Non è un reato, fino a prova contraria, solo uno sgradevole malcostume, per certi versi (visti gli interessi in ballo) comprensibile. 

Non scandalizzatevi, o meglio, non ammorbatevi di sterile morale. Non serve a nulla. Scrivo “malcostume comprensibile” perché la FIGC per risolvere il problema dovrebbe innanzitutto comprenderlo. Parliamoci chiaro: “l’occasione fa l’uomo ladro” e mai proverbio fu più azzeccato. Per fermare “l’uomo ladro” bisogna togliergli la terra da sotto i piedi, dunque “l’occasione”. Come? Riformando tutti i campionati, sullo stile del basket e della pallavolo. Poche squadre per ogni girone (16 in A, 18 in B e 16 per ogni girone della C unica), con play off e play out estesi, in modo da ridurre il più possibile le squadre precocemente senza obiettivi.

Una riforma possibile tecnicamente, più ardua politicamente. Perché così fan tutti, dicevamo, ma soprattutto questo sistema sta bene a tutti. Tifosi esclusi, ovviamente, ma loro si sa contano meno di una nota a piè di pagina in una tesina universitaria.