UN FERDINANDO PER GLI IMMIGRATI

 


Per governare efficacemente l’immigrazione ci vorrebbe un Ferdinando, servirebbe la legge di Ferdinando. Altro che Bossi-Fini o Turco-Napolitano o Amato-Ferrero (che, per fortuna, non ha visto la luce). Riscopriamo la legge che Ferdinando I di Borbone (udite! udite!) ha varato nel 1817 per stabilire quali stranieri potevano stabilirsi nel suo Regno delle Due Sicilie ed ottenere la cittadinanza.

La ricetta di Ferdinando I l’ha riscoperta Magdi Allan che la descrive sul Corriere di oggi, 10 marzo. Vi rimando dunque al sito del Corriere per vedere tutti i dettagli. Qui mi limito a sottolineare il principio che ha guidato il re borbone: viene prima l’interesse del mio Stato e quindi ottengono la cittadinanza quelli stranieri che rendono servigi, che portano talenti ed invenzioni, che pagano le tasse. Cioè quelli immigrati che sono un affare per chi li accoglie.

Passando dal Regno delle Due Sicilie del 1817 alla Repubblica italiana del 2008, mi sembra che sia stato fatto esattamente l’opposto: non solo la rinuncia a selezionare gli ingressi, ma soprattutto abbiamo messo al primo posto non l’interesse del nostro Stato bensì l’interesse e le attese degli stranieri; cioè l’esigenza della solidarietà, dell’accoglienza, dell’inserimento. Abbiamo accettato in maniera acritica la formula “gli immigrati sono una risorsa”, senza andare mai a verificare il rapporto reale costi-benefici. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vederli.

Il prossimo che assumerà la guida del governo, Berlusconi o Veltroni che sia, cosa farà? Seguirà oppure no la ricetta di Ferdinando I di Borbone? Nell’affrontare il tema, certamente epocale e complesso dell’immigrazione, si chiederà anzitutto cosa convenga al nostro Paese? Oserà sfidare l’accusa di xenofobia e di razzismo o continuerà ad aprire le porte a tutti i diseredati del mondo?

 

LA PELLE DI WAIGO, LE BALLE DI ZILIANI

 

Da un lato c’è il colore della pelle di Papa Waigo, il calciatore senegalese che ha giocato nell’Hellas Verona e adesso è esploso nella Fiorentina di Prandelli; dall’altro lato ci sono le balle di Paolo Ziliani, il giornalista sportivo che stende le pagelle per Controcampo. Domenica Ziliani ha dato un voto alto all’attaccante che aveva segnato il gol della vittoria a Torino contro la Juve e poi si è divertito ad aggiungere che nel Verona veniva fischiato per via della pelle nera e che adesso i tifosi dell’Hellas saranno contenti di essere ultimi in serie C, ma con una squadra tutta di bianchi.

Le reazioni e le bugie smascherate di Ziliani le trovate tutte nel blog di Vighini. Ma il problema non sono tanto le balle, intese come bugie, quanto le balle, intese come attributi, che mancano al Paolo Ziliani il quale è un perfetto esempio di quella viltà diffusa che spinge ad essere arroganti con i deboli e servili con i potenti: capirai che coraggio ci vuole e che rischi corri a ripetere il luogo comune della curva del Verona ( e di Verona tout court) come luogo d’elezione del razzismo.

Non si tratta di sostenere che la curva dell’Hellas sia un luogo di ritrovo di gentiluomini dell’Ottocento. Però non si può nemmeno ignorare che tutte le curve sono così e che la differenza – in peggio – la fa anzitutto la massa critica, cioè l’ampiezza del branco. Ed i branchi più numerosi, ululanti, violenti e volgari li troviamo nelle grandi città: da Napoli a Roma (messa letteralmente a ferro e fuoco non più tardi di qualche mese fa…) da Milano a Torino (dove proprio a Papa Waigo domenica scorsa ne hanno urlate di tutti i colori). Paolo Ziliani lo sa benissimo. E sa anche che non può permettersi di trattare da razzisti i tifosi di grandi società e di città che hanno forte peso politico, perchè rischierebbe di compromettere la sua carriera giornalistica. Mentre per sparare a zero contro questo Verona sull’orlo del baratro ci vuole lo stesso coraggio del “vile che uccide un uomo morto”.

Facendo un paragone politico, è come sparare a zero sempre e solo su Mastella. Il quale non è certo senza peccato nel sottobosco delle spartizioni in Campania. Però non è lui che voleva papparsi la Banca nazionale del lavoro, e non è nemmeno lui ad avere conflitti di interesse ovunque. E non a caso i senza balle alla Ziliani continuano a parlarci di Mastella, mentre quelli con gli attributi (dove sono?) non la smettono mai di martellare Silvio e gli amici di Walter…

 

CUFFARO SI’, MOGGI NO

 


Totò Cuffaro sì, nessun problema a ricandidarlo capolista nella sua Sicilia. Luciano Moggi no, assolutamente no, non solo non è il caso di candidarlo ma è più prudente far finta nemmeno di conoscerlo. Questa la scelta chiara, netta e… grottesca del leader dell’Udc Pierferdi Casini.

Sabato Moggi era andato a Roma alla convention dell’Udc. Seduto in prima fila era stato prodigo di applausi e complimenti nei confronti di Casini dichiarando che avrebbe sicuramente votato quel partito. Dopo di che, un po’ sul serio un po’ per scherzo, aveva anche accennato ad una sua candidatura dicendosi certo che almeno 9 milioni di tifosi juventini l’avrebbero votato. Perchè io – aveva aggiunto – rappresento la Juve che vinceva sempre, non come quella di oggi, quella di Cobolli Gigli, che invece perde.

Preoccupatissimo, par di capire, di perdere anche lui, Pierferdi Casini ha subito escluso la candidatura di Moggi. E fin qui niente da obiettare: è lui il leader dell’Udc e, come tutti i leader si sceglie tutti i candidati. Ma la cosa grottesca è stata la presa di distanza di un Casini che ha negato anche di conoscere Moggi, perfino di averci parlato una qualche domenica nella tribuna d’onore di un qualche stadio, che ha voluto precisare di averlo incontrato allora per la prima volta…

Che dire? Che Peirferdi è molto più riservato di Totò “vasa vasa”, cosi soprannominato per l’abitudine di familiarizzare a baciare un po’ tutti, anche certi personaggi ambigui della sua Sicilia…

Tra Totò Cuffaro e Luciano Moggi chi dei due vi sembra il più inquietante, quello dal quale tenersi alla larga per prudenza? Casini, come abbiamo visto, non ha dubbi: Cuffaro sì, Moggi no.

MISSIONI MILITARI A NAPOLI E PALERMO

 

Secondo il Censis, Centro studi investimenti sociali di Giuseppe De Rita, nelle due storiche capitali del nostro Mezzogiono, Napoli e Palermo “quasi la totalità degli abitanti convive con le organizzazioni criminali”. Cosa significa convivere con mafia e camorra? Si può disquisire: significa essere complici e riconoscere la loro autorità, oppure significa subirle ed essere oppressi nella vita e nel lavoro quotidiano. Accettando questa seconda lettura, e quindi escludendo qualunque complicità, è chiaro che la quasi totalità degli abitanti di Napoli e di Palermo devono essere liberati dal giogo della criminalità organizzata; va garantita loro pace e sicurezza.

Esattamente quello che le nostre missioni militari all’estero sono impegnate a garantire a Kabul piuttosto che a Beirut. Ma rendiamoci conto che anche e soprattutto a Napoli e a Palermo vanno mandati i corpi speciali (non certo l’esercito con compiti da netturbino); ci vogliono delle apposite missioni militari per cercare di garantire pace e sicurezza ai cittadini del nostro Mezzogiorno.. Non si può continuare a far finta di credere che bastino le misure ordinarie e la politica degli annunci: sequestrati i beni della camorra! Terminato il maxiprocesso alla mafia con condanne a 150 ergastoli! Arrestato il boss, dei boss, dei boss: il numero 1, il numero 2, il numero 127! Tutti annunci che non riescono più a nascondere la realtà: cioè che le organizzazioni criminali sono sempre più potenti e pervasive.

La commissione antimafia recentemente ha paragonato la ‘ndrangheta ad Al Qeida. E, proprio come nella lotta ai terroristi in Iraq, ci vuole una fase due: o troviamo un nostro Petraeus che, con una strategia radicalmente nuova, cominci a conseguire qualche successo a Napoli e a Palermo, oppure sarà giocoforza ritirarsi dalle due storiche capitali del Mezzogiorno. Rinunciare a quella occupazione iniziata 150 anni con le armi dei garibaldini e dei savoiardi. Restituire il Sud ai suoi legittimi governanti e…mettere fine alle enormi spese di una occupazione che non giova né al Settentrione né al Meridione…

Scherzi a parte, l’unica cosa inaccettabile è far finta di nulla: ignorare che c’è stato il fallimento completo di qualunque politica assistenziale nei confronti del Mezzogiorno, che serve una svolta epocale che va posta al centro dei programmi elettorali. Non si può cioè procedere come Veltroni preoccupato solo di individuare il capolista Pd utile a limitare i danni in Campania, o come Berlusconi impegnato a trovare l’alleato giusto per vincere in Sicilia. Quasi che stessimo parlando di un Veneto o di una Toscana.

Siamo invece di fronte ad una voragine che ha già inghiottito il Sud e che minaccia di fare altrettanto col Nord.

 

CONTI ESTERI E ILLUSIONI FISCALI

Il caso dei conti bancari in Liechtenstein ha qualcosa di analogo con la castrazione chimica di cui parlavamo ieri. Nel senso che anche qui c’è un grosso equivoco da chiarire: portare i soldi all’estero, aprire un conto in qualunque Paese non è più un reato. Non lo è da quando è stata accetta la libera circolazione delle merci e dei capitali. L’eventuale reato, tutto da dimostrare , è legato al fatto che su quei soldi non siano state pagate le tasse e quindi siano frutto di evasione fiscale.

 

E’ quanto l’Agenzia delle entrate sta cercando di appurare. Nell’attesa abbiamo però la conferma che i soldi degli italiani vanno all’estero, in Liechtenstein come in tanti altri Paesi stranieri. Gli investitori, i gruppi finanziari portano le loro risorse economiche dove vogliono e dove trovano più conveniente farlo: diciamo, in genere, all’estero. Mentre non si ha notizia di flussi contrari: non ci sono cioè frotte di inglesi, tedeschi, americani, ne di investitori stranieri in genere che riversino fiumi di denaro in Italia e li depositino in banche italiane.

Chi sono gli italiani che tengono qui i loro soldi? Evidentemente le persone comuni, il risparmiatore medio che ha alcune decine di migliaia di euro, troppo pochi per giustificare trasferimenti, apertura di conti esteri e, in genere, operazioni da alta finanza.

E qui arriviamo alle illusioni fiscali di quella sinistra arcobaleno alla Bertinotti convinta di ottenere la giustizia ridistributiva inasprendo la tassazione delle rendite finanziarie. Principio, in se, giustissimo. Peccato però che le grandi rendite finanziare non restino nel nostro Paese in attesa che arrivi il Bertinotti di turno a tosarle: chi le possiede le ha già portate all’estero, in Liechtenstein o in altri Paesi; perchè è lui libero di scegliere dove andare a far tassare i suoi capitali.

In attesa della “falce” di Bertinotti resta solo il risparmiatore medio, la famiglia con i suoi quattro risparmi. Vogliamo portaglieli via? Vogliamo ripetere operazioni alla Giuliano Amato? Chi vuol provarci si accomodi, ma non venga a raccontarci che sta combattendo la sacra e gloriosa battaglia contro le grandi rendite finanziarie, quando sta solo raspando quattro soldi dalle tasche degli italiani.

CASTRAZIONE CHIMICA REGALO AI PEDOFILI

Castrazione chimica per i pedofili! Adesso non la esclude nemmeno Walter Veltroni; Calderoli e Fini continuano a richiederla. Sembra la soluzione definitiva e terrorizzante: tale da inibire qualunque ulteriore violenza sessuale sui bambini. Invece – se appena ci riflettiamo e chiariamo qualche equivoco – è un autentico regalo fatto ai pedofili stessi.

Primo equivoco: nella castrazione chimica non c’è proprio nulla di definitivo, niente a che vedere col colpo di forbici che evoca e che priverebbe per sempre il reo degli organi sessuali. Si tratta infatti di un farmaco che inibisce la produzione del testosterone, l’ormone da cui dipendono gli appettiti sessuali, ma che funziona solo per il periodo per cui viene somministrato. Dopo di che tutto torna come prima. Appetiti sessuali compresi.

Ma l’autentico regalo che si fa ai pedofili, invocando per loro la castrazione chimica, è quello di classificarli come malati, preda degli appetiti incontrollabili dovuti al testosterone in eccesso, e quindi non responsabili delle loro azioni: come dire che, se violentano i bambini, non è colpa loro ma della natura che li ha fatti malati, ossia con sfrenate produzioni ormonali. Esattamente come l’attenuante dell’infermità mentale che, se riconosciuta all’omicida, lo trasforma in un soggetto bisognoso di cure e gli evita la galera.

Quindi Veltroni, Calderoli e Fini invocando l’intervento farmacologico per i pedofili concedono loro, a priori, il “regalo” dell’attenuante per malattia.

Mi sembra invece più serio partire dal principio che ognuno è responsabile dei propri comportamenti ed è in grado di controllare i propri appetiti: non basta cioè un eccesso di testosterone per giustificare né la violenza sessuale sui bambini né lo stupro di una donna.

Insomma i reati di pedofilia sono qualcosa di troppo grave per concedere loro attenuanti: altrochè castrazione chimica, i responsabili vanno messi in carcere e tenuti dentro.

MEGLIO ZANONATO DI BERLUSCA

Per vedere finalmente all’opera la forbice nel pubblico impiego ci voglio gli ex comunisti che, all’atto pratico, dimostrano di usarla; mentre i liberali tergiversano e il leader del Popolo della Libertà “digitalizza”.

Il sindaco di Padova Flavio Zanonato, sindaco del Partito democratico con un passato mai rinnegato nel Pci, non ha esitato a licenziare una dipendente, pluriassenteista, del suo comune. Non ha esitato a farlo benché questa dipendente fosse anche sindacalista del pubblico impiego.

Viene in mente la battuta dell’avvocato Agnelli: per attuare una politica economica di destra, ci vuole la sinistra al governo. Così ci si chiede se per licenziare in tronco nel pubblico impiego non ci vogliono gli (ex) comunisti…Dubbio tanto più pertinente in quanto, nello stesso giorno in cui usciva la notizia del licenziamento della dipendente comunale, Silvio Berlusconi, ospite di Radio anch’io, glissava ripetutamente alle domande sulla riforma del pubblico impiego.

Il Cavaliere si è limitato a ripetere la formula magica: digitalizzare. Cioè ha spiegato che, digitalizzando le procedure, il costo di ogni singola pratica scenderà da 29 a 3 euro. Magnifico. L’esperienza di tutte le imprese private (Mediaset compresa) dimostra però che il ricorso all’informatica abbatte i costi anche perchè riduce di molto il personale. Quindi è evidente che, se informatizziamo la pubblica amministrazione, a maggior ragione bisogna ridurre drasticamente gli addetti se non si vuol far aumentare in modo esponenziale il numero già alto dei fannulloni.

Ovvio. E non è che Berlusconi non lo sappia. E’ che non può dirlo. Non può dirlo per almeno tre motivi: perchè siamo in campagna elettorale, perchè ha fatto il partito nuovo con il vecchio alleato Fini (collettore anche dei voti del pubblico impiego), perchè si è alleato con Raffaele Lombardo (e al Sud chi tocca lo statale muore).

Così di fronte ad uno dei problemi epocali per il nostro Paese, quale la riforma del pubblico impiego, il Cavaliere se cava rifugiandosi nell’informatica. Ma se lui digitalizza, mentre l’altro licenzia, non si può appunto che concludere: meglio Zanonato di Berlusca.

 

DA BOLZANETO A GUANTANAMO

 


Da Bolzaneto a Guantanamo il passo è breve. Anzi non c’è nessuna distanza né differenza: sono la stessa cosa. Così scrive oggi in prima pagina il quotidiano Il Manifesto. E, cosa ancora più grave, mette questa affermazione in bocca ai magistrati. Sarebbero stati loro, i pubblici ministeri del processo di Genova a definire Bolzaneto la “Guantanamo italiana”.

Ora sembra ormai assodato che nella caserma genovese alcuni tutori dell’ordine hanno avuto dei comportamenti illegali picchiando e minacciando i no global fermati dopo i disordini e le violenze al G8. Ma nella famigerata prigione americana, dove sono detenuti gli islamici accusati di terrorismo, ci sono prassi nemmeno lontanamente paragonabili: negli interrogatori si usa la tecnica dell’affogamento. Al punto che anche il repubblicano McCain, da ex prigioniero di guerra torturato dai vietcong,ha espresso la sua più totale condanna.

Dunque ci vuole davvero una fantasia sfrenata per pensare che i no global siano stati torturati come i terroristi islamici. Oppure bisogna essere accecati dalle pregiudiziali ideologiche. Le stesse pregiudiziali che, se c’è da fare un accostamento con una detenzione che violi i diritti umani, nemmeno prendono in considerazione un carcere cinese o iraniano (li avete visti i detenuti impiccati a grappoli alle gru dopo i processi islamici?…), perchè il credo ideologico li spinge subito ad andare verso il “Grande Satana”, cioè verso gli Stati Uniti.

Ma l’ideologia rende appunto ciechi, incapaci di esaminare la realtà e quindi non idonei ad amministrare la giustizia. Per questo è particolarmente grave se – come scrive Il Manifesto – sono stati dei magistrati a definire Bolzaneto la Guantanamo italiana.

 

COMINCIAMO A MULTARE I COMUNI

 

 

Al posto degli automobilisti è ora che comincino ad essere multati i Comuni. Multati per quest’uso scorretto che fanno delle contravvenzioni diventate, di fatto, un’imposta locale aggiuntiva. Multati per l’ipocrisia: ci spiegano che lo fanno per la sicurezza stradale, per tutelare la salute degli automobilisti, quando è invece evidente che il loro obiettivo è quello di fare cassa in modo da continuare a spendere e spandere eludendo i tagli che gli ultimi governi hanno imposto nei trasferimenti agli enti locali. Il Sole 24 Ore racconta che nell’ultimo anno le multe elevate dai Comuni sono aumentate del 16%; negli ultimi cinque anni del 76%. Un impennata che non trova riscontro nelle contravvenzioni elevate da polizia stradale, carabinieri e guardia di finanza: dobbiamo credere che questi ultimi non curino la sicurezza stradale o, più verosimilmente, che non abbiano la stessa esigenza di fare cassa?…

Sempre il Sole 24 Ore spiega che ormai per la maggioranza dei comuni italiani “la strada vale più della casa”, cioè che incassano di più con le multe che con l’Ici! (Quindi Berlusconi, se vuole davvero aiutare le famiglie, dovrebbe promettere di togliere le multe prima ancora dell’Ici…)

In realtà i Comuni, come hanno eluso i limiti alle nuove assunzioni attraverso il ricorso alle consulenze e ai contratti a termine, così evitano i tagli di spesa che i governi centrali avrebbero voluto imporre loro riducendo i trasferimenti, li evitano aumentando gli introiti con l’imposta locale surrettizia derivante dalle multe. Un’imposta locale per modo di dire: nel senso che c’è il pesante sospetto che i Comuni selezionino a monte le contravvenzioni, evitando di comminarle ai propri residenti e infierendo invece sull’automobilista di passaggio…

In attesa di ridurre nel tempo, col blocco reale delle assunzioni, il numero dei loro dipendenti, gli enti locali dovrebbero cominciare a tagliare le spese limitando in maniera drastica la miriade di contributi che elargiscono ad enti, associazioni, comitati, gruppi e via dicendo. Mi rendo conto che esiste un enorme problema sociale: milioni di persone che sono andate in pensione a cinquant’anni o prima e che adesso devono fare qualcosa per non impazzire nell’inedia. E così si moltiplicano le associazione, i comitati, i gruppi, i “volontari”, le sagre, etc. etc…Il che non toglie che tutto questo fiorire di attività non può essere foraggiato dalla fiscalità generale attraverso i contributi elargiti dagli enti locali.

Bisogna quindi che il prossimo governo non si limiti a tagliare i trasferimenti agli enti locali, ma che imponga ai Comuni il divieto di incrementare in qualunque modo le loro entrate. Solo così i Comuni dovranno sul serio tagliare le proprie spese, e non avranno più ragione di infierire con le contravvenzioni.

SECESSIONE CONTRO LA ‘NDRANGHETA

 


Presi come siamo in questi giorni dal dibattito attorno alle “liste pulite”, quasi non abbiamo recepito la gravità dell’ultimo rapporto della commissione antimafia che ha paragonato la ‘ndrangheta ad Al Qaeda. Nel senso che, come l’organizzazione terroristica islamica ha ramificazioni dovunque e dovunque è in grado di colpire, così la nostra criminalità organizzata non è più un fenomeno circoscritto all’Italia: ha le sue radici storiche e consolidate in vaste aree del nostro Mezzogiorno, dove il suo controllo è totale. E questa è la sua base da dove si diparte per gestire traffici illeciti e colpire in altri Paesi europei. Tant’è che l’esplosiva faida interna del luglio scorso è scoppiata ed ha investito la Germania a Duisburg

La base, il nucleo del tumore maligno, da dove si originano le metastasi che stanno infettando i Paesi stranieri, sono appunto le regioni del Sud che tutti sappiamo: Campania, Calabria, Sicilia, Puglia.

Noi siamo molto preoccupati per le liste pulite (stanca riedizione moralistica del “partito dalle mani pulite” rivendicato trent’anni fa da Enrico Berlinguer). L’Europa invece è molto preoccupata dalla ‘ndrangheta che, grazie alla forza e alle risorse che derivano dal controllo di questo pezzo d’Italia, va a colpire a Dusseldorf piuttosto che a Monaco di Baviera.

E proprio la Germania – mi hanno spiegato – vedrebbe con favore la secessione del Centronord dal Sud d’Italia. La vedrebbe come una “amputazione” necessaria ad evitare che la cancrena della ‘ndrangheta dilaghi, non tanto nel resto del nostro Paese, quanto nel resto d’Europa.

Encomiabile l’impegno di Di Pietro, Veltroni, Fini e Bondi per le liste pulite. Sperando che arrivino a convincersi però che la pulizia vera e seria da fare sarebbe ben altra…E bel altra anche la campagna elettorale se affrontasse problemi angoscianti come la liberazione del Sud dalla criminalità.