PRODI LIBERISTA, BERLUSCA STATALISTA

 

 

 

 

Sembra lo scambio delle coppie, è lo scambio dei ruoli. E gli scambisti sono Prodi e Berlusconi. Il primo da ex presidente dell’Iri (industrie di Stato) si è fatto liberista, cioè ha deciso che bisogna mettere Alitalia sul mercato per non sprecare più denaro pubblico. Berlusca, il liberista per antonomasia, l’imprenditore incarnatosi in politica, è andato ad occupare il posto lasciato libero da Romano: vuole il prestito ponte dal governo, cerca la cordata per mantenere l’italianità della compagnia di bandiera. S’è fatto statalista e incassa il plauso del sindacato e di Bertinotti.

Se parliamo di tattica elettorale il Cavaliere come al solito ha fatto goal: nel senso che ha rimesso al centro della scena quel governo Prodi con i suoi ministri puntualmente litigiosi che Veltroni tanto si era impegnato a far dimenticare…

Ma se parliamo di risultati elettorali rimango più perplesso: non mi sembra infatti che i veneti fossero disperati all’idea che la compagnia di bandiera passasse dal tricolore italiano a quello francese; a loro, come a tutti, interessa volare a costi accettabili e possibilmente senza che ti rubino i bagagli. Chiunque lo garantisca è ben accetto.

Direi che il comune sentire della nostra regione lo ha interpretato meglio il governatore Giancarlo Galan: ben venga Air France e grazie che si accolla il baraccone mangia soldi di Alitalia. Gli stessi leghisti veneti fanno fatica a convincersi e spiegare che vale la pena di fare qualunque cosa per salvare il baraccone. Un po’ diverso per i leghisti lombardi che, da partito territoriale, sono tenuti a difendere quantomeno Malpensa…

Ma il Berlusconi statalista crea problemi ai suoi alleati del Nord produttivo e liberista. Così come il Prodi liberista va in conflitto con gli alleati storici della sinistra politica e sociale. Lo scambismo non paga. O sbaglio?

QUALI STRADE PER LA PATRIA VENETA

L’indipendenza del Veneto. Tema caro ai frequentatori di questo blog. Proviamo a capire se è solo un sogno o un obiettivo percorribile e raggiungibile: ci sono delle strade, e quali, per ricostituire la “Patria Veneta” cara a Gino, a Michele e agli altri venetisti?

La premessa che fa Gino è incontestabile: “la grandezza di uno Stato non dipende dall’estensione geografica ma dal grado di civiltà”. Il grado di civiltà però non basta a garantire né la sopravvivenza ne la ricostituzione di uno Stato: ci vuole la forza economica, politica, culturale e mediatica in senso lato, anche militare.

Nella fattispecie lasciamo pur perdere la forza militare, cioè quel ricorso alle armi che Gino, Michele e, qualunque persona assennata, esclude in partenza. Ma se la “Patria Veneta” di cui parliamo è la Serenissima, non possiamo dimenticare che è durata nei secoli grazie alla potenza economico-mercantile, fulcro del peso e della potenza politica della Repubblica di Venezia.

Venendo all’oggi, temo che senza forza politica, senza peso economico e mediatico, non si vada da nessuna parte: al massimo si arriva ad asserragliarsi sul campanile di San Marco… Un gesto simbolico, che ebbe vasta eco, che colpì l’immaginario venetista, ma che non mi pare abbia fatto compiere alcun passo concreto sulla strada dell’indipendenza del Veneto.

Sempre Gino indica la via del referendum, sul modello della Scozia dove “un partito indipendentista come lo Snp ha proclamato di volerlo indire”. Gino stesso ha perfettamente ragione quando aggiunge che comunque verrebbe bocciato a causa del peso economico-mediatico del potere dominante che ha fatto “credere ai veneti di essere italiani”. Va però aggiunto che nel nostro Veneto nemmeno esiste un partito indipendentista che abbia proclamato di volerlo indire questo benedetto referendum. Oppure forse esisterà anche il partito indipendentista veneto, ma è così insignificante che nemmeno se ne conosce l’esistenza…Come dire che senza peso politico nemmeno si comincia ad andare da una qualsiasi parte.

Mi domando dunque se i venetisti non debbano riconsiderare l’ipotesi di muoversi di conserva con la Lega Nord: che sarà anche un po’ infida, in quanto troppo lombarda, ma che oggi sembra la forza politica più in grado di innescare un processo di federalismo e di autonomia che cominci a ridare un po’ di respiro anche alla “Patria Veneta”

O ci sono strade più rapide e dirette per arrivare al traguardo?

TORNA IL VENTO DELLA SECESSIONE

 


Torna a spirare il vento della secessione e non per bocca di Umberto Bossi; ma attraverso le parole di un imprenditore prestato (con successo) alla politica, Riccardo Illy, presidente del Friuli Venezia Giulia che governo con una giunta di centrosinistra. Illy che, intervistato da Stella sul Corriere della sera, si domanda “Per quanto ancora il Nord potrà resistere alla tentazione secessionista?”.

Il governatore del Friuli definisce la politica “autistica” rispetto alle esigenze del nostro territorio, una politica che “ha tradito una parte del nostro Paese”. “Così perdiamo il Nord” è il titolo dell’ultimo saggio scritto per Mondadori da Riccardo Illy.

L’approccio è rovesciato. Non si parla più di un Nordest egoista e poco solidale, che pensa solo a far soldi e non si cura del resto del Paese. Si sottolinea invece il tradimento perpetuato contro i cittadini delle nostre regioni, il loro lavoro, l’impegno la serietà. Accentuato dal confronto con i Paesi europei nostri confinanti dove invece esigenze ed attese di modernizzazione trovano risposte da parte della classe politica.

Il vento della secessione spira anche attraverso Ilvo Diamanti, editorialista de La Repubblica, responsabile dell’istituto demoscopico che realizza ogni settimana un’indagine per Il Gazzettino. L’ultima di queste indagini rileva come sia “raddoppiata l’ostilità verso il Sud”: nelle nostre regioni un cittadino su due considera “il Mezzogiono un peso per lo sviluppo del Paese” e aggiunge “nel 1997, quando la Lega invocava l’indipendenza della Padania, puntava l’indice contro il Sud il 26%.

Oggi invece è il 51% a farlo. E molti sono anche elettori del centrosinistra.

Ritornando ad Illy pone una questione cruciale: i cittadini del Nordest non sono spinti alla secessione da un desiderio irrazionale o dal loro egoismo, ma è la mancanza di risposte adeguate da parte della politica ad alimentare il vento della secessione. Si può non essere d’accordo?

CE LA FARA’ GALAN A STOPPARE TOSI?

 

 



Berlusconi lo ha annunciato senza nemmeno informare prima il diretto interessato: Galan sarà il capolista al Senato in Veneto per il Partito della libertà. Ma perchè il Cavaliere costringe il governatore a recitare un film già visto nemmeno due anni fa?

Anche alle ultime politiche Galan aveva fatto il capolista, era stato eletto e poi si era dimesso da Palazzo Madama per restare al vertice del Veneto. Adesso si replica: stessa trama e stesso esito finale. Come mai?

Spiegano che la candidatura di Galan sarebbe funzionale sul fronte interno al centrodestra: cioè servirebbe a frenare i consensi verso una Lega Nord che tutti i sondaggi danno in forte crescita. Il timore di Forza Italia è che si ripeta in tutto il Veneto quanto accaduto l’anno scorso a Verona, dove l’effetto Tosi ha ridotto i forzisti azzurri ai minimi termini…

Ma ce la farà Galan a stoppare Tosi? Vi pare possibile che l’elettore di centrodestra, fin qui orientato a dare il proprio voto alla Lega, abbia un ripensamento adesso che il presidente del Veneto si è candidato come capolista del Pdl al Senato? Sono davvero curioso di sentire una raffica di pareri.

Intanto la cosa certa è che Galan, costretto da Berlusconi a reinterpretare lo stesso film, rischia davvero e rischia direttamente mettendo in gioco (forse per la prima volta) il suo personale appeal elettorale: se riuscirà a stoppare Tosi e la Lega potrà certamente dire “il Veneto sono io” e non sarà vanaglorioso il progetto di varare un “Forza Veneto” o un “Popolo della Libertà del Veneto”. Ma, se la Lega dovesse avere ugualmente una forte crescita di consensi, a Galan non basterà spiegare che…senza lui capolista al Senato sarebbe cresciuta ancora di più…

UN FERDINANDO PER GLI IMMIGRATI

 


Per governare efficacemente l’immigrazione ci vorrebbe un Ferdinando, servirebbe la legge di Ferdinando. Altro che Bossi-Fini o Turco-Napolitano o Amato-Ferrero (che, per fortuna, non ha visto la luce). Riscopriamo la legge che Ferdinando I di Borbone (udite! udite!) ha varato nel 1817 per stabilire quali stranieri potevano stabilirsi nel suo Regno delle Due Sicilie ed ottenere la cittadinanza.

La ricetta di Ferdinando I l’ha riscoperta Magdi Allan che la descrive sul Corriere di oggi, 10 marzo. Vi rimando dunque al sito del Corriere per vedere tutti i dettagli. Qui mi limito a sottolineare il principio che ha guidato il re borbone: viene prima l’interesse del mio Stato e quindi ottengono la cittadinanza quelli stranieri che rendono servigi, che portano talenti ed invenzioni, che pagano le tasse. Cioè quelli immigrati che sono un affare per chi li accoglie.

Passando dal Regno delle Due Sicilie del 1817 alla Repubblica italiana del 2008, mi sembra che sia stato fatto esattamente l’opposto: non solo la rinuncia a selezionare gli ingressi, ma soprattutto abbiamo messo al primo posto non l’interesse del nostro Stato bensì l’interesse e le attese degli stranieri; cioè l’esigenza della solidarietà, dell’accoglienza, dell’inserimento. Abbiamo accettato in maniera acritica la formula “gli immigrati sono una risorsa”, senza andare mai a verificare il rapporto reale costi-benefici. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vederli.

Il prossimo che assumerà la guida del governo, Berlusconi o Veltroni che sia, cosa farà? Seguirà oppure no la ricetta di Ferdinando I di Borbone? Nell’affrontare il tema, certamente epocale e complesso dell’immigrazione, si chiederà anzitutto cosa convenga al nostro Paese? Oserà sfidare l’accusa di xenofobia e di razzismo o continuerà ad aprire le porte a tutti i diseredati del mondo?

 

LA PELLE DI WAIGO, LE BALLE DI ZILIANI

 

Da un lato c’è il colore della pelle di Papa Waigo, il calciatore senegalese che ha giocato nell’Hellas Verona e adesso è esploso nella Fiorentina di Prandelli; dall’altro lato ci sono le balle di Paolo Ziliani, il giornalista sportivo che stende le pagelle per Controcampo. Domenica Ziliani ha dato un voto alto all’attaccante che aveva segnato il gol della vittoria a Torino contro la Juve e poi si è divertito ad aggiungere che nel Verona veniva fischiato per via della pelle nera e che adesso i tifosi dell’Hellas saranno contenti di essere ultimi in serie C, ma con una squadra tutta di bianchi.

Le reazioni e le bugie smascherate di Ziliani le trovate tutte nel blog di Vighini. Ma il problema non sono tanto le balle, intese come bugie, quanto le balle, intese come attributi, che mancano al Paolo Ziliani il quale è un perfetto esempio di quella viltà diffusa che spinge ad essere arroganti con i deboli e servili con i potenti: capirai che coraggio ci vuole e che rischi corri a ripetere il luogo comune della curva del Verona ( e di Verona tout court) come luogo d’elezione del razzismo.

Non si tratta di sostenere che la curva dell’Hellas sia un luogo di ritrovo di gentiluomini dell’Ottocento. Però non si può nemmeno ignorare che tutte le curve sono così e che la differenza – in peggio – la fa anzitutto la massa critica, cioè l’ampiezza del branco. Ed i branchi più numerosi, ululanti, violenti e volgari li troviamo nelle grandi città: da Napoli a Roma (messa letteralmente a ferro e fuoco non più tardi di qualche mese fa…) da Milano a Torino (dove proprio a Papa Waigo domenica scorsa ne hanno urlate di tutti i colori). Paolo Ziliani lo sa benissimo. E sa anche che non può permettersi di trattare da razzisti i tifosi di grandi società e di città che hanno forte peso politico, perchè rischierebbe di compromettere la sua carriera giornalistica. Mentre per sparare a zero contro questo Verona sull’orlo del baratro ci vuole lo stesso coraggio del “vile che uccide un uomo morto”.

Facendo un paragone politico, è come sparare a zero sempre e solo su Mastella. Il quale non è certo senza peccato nel sottobosco delle spartizioni in Campania. Però non è lui che voleva papparsi la Banca nazionale del lavoro, e non è nemmeno lui ad avere conflitti di interesse ovunque. E non a caso i senza balle alla Ziliani continuano a parlarci di Mastella, mentre quelli con gli attributi (dove sono?) non la smettono mai di martellare Silvio e gli amici di Walter…

 

CUFFARO SI’, MOGGI NO

 


Totò Cuffaro sì, nessun problema a ricandidarlo capolista nella sua Sicilia. Luciano Moggi no, assolutamente no, non solo non è il caso di candidarlo ma è più prudente far finta nemmeno di conoscerlo. Questa la scelta chiara, netta e… grottesca del leader dell’Udc Pierferdi Casini.

Sabato Moggi era andato a Roma alla convention dell’Udc. Seduto in prima fila era stato prodigo di applausi e complimenti nei confronti di Casini dichiarando che avrebbe sicuramente votato quel partito. Dopo di che, un po’ sul serio un po’ per scherzo, aveva anche accennato ad una sua candidatura dicendosi certo che almeno 9 milioni di tifosi juventini l’avrebbero votato. Perchè io – aveva aggiunto – rappresento la Juve che vinceva sempre, non come quella di oggi, quella di Cobolli Gigli, che invece perde.

Preoccupatissimo, par di capire, di perdere anche lui, Pierferdi Casini ha subito escluso la candidatura di Moggi. E fin qui niente da obiettare: è lui il leader dell’Udc e, come tutti i leader si sceglie tutti i candidati. Ma la cosa grottesca è stata la presa di distanza di un Casini che ha negato anche di conoscere Moggi, perfino di averci parlato una qualche domenica nella tribuna d’onore di un qualche stadio, che ha voluto precisare di averlo incontrato allora per la prima volta…

Che dire? Che Peirferdi è molto più riservato di Totò “vasa vasa”, cosi soprannominato per l’abitudine di familiarizzare a baciare un po’ tutti, anche certi personaggi ambigui della sua Sicilia…

Tra Totò Cuffaro e Luciano Moggi chi dei due vi sembra il più inquietante, quello dal quale tenersi alla larga per prudenza? Casini, come abbiamo visto, non ha dubbi: Cuffaro sì, Moggi no.

MISSIONI MILITARI A NAPOLI E PALERMO

 

Secondo il Censis, Centro studi investimenti sociali di Giuseppe De Rita, nelle due storiche capitali del nostro Mezzogiono, Napoli e Palermo “quasi la totalità degli abitanti convive con le organizzazioni criminali”. Cosa significa convivere con mafia e camorra? Si può disquisire: significa essere complici e riconoscere la loro autorità, oppure significa subirle ed essere oppressi nella vita e nel lavoro quotidiano. Accettando questa seconda lettura, e quindi escludendo qualunque complicità, è chiaro che la quasi totalità degli abitanti di Napoli e di Palermo devono essere liberati dal giogo della criminalità organizzata; va garantita loro pace e sicurezza.

Esattamente quello che le nostre missioni militari all’estero sono impegnate a garantire a Kabul piuttosto che a Beirut. Ma rendiamoci conto che anche e soprattutto a Napoli e a Palermo vanno mandati i corpi speciali (non certo l’esercito con compiti da netturbino); ci vogliono delle apposite missioni militari per cercare di garantire pace e sicurezza ai cittadini del nostro Mezzogiorno.. Non si può continuare a far finta di credere che bastino le misure ordinarie e la politica degli annunci: sequestrati i beni della camorra! Terminato il maxiprocesso alla mafia con condanne a 150 ergastoli! Arrestato il boss, dei boss, dei boss: il numero 1, il numero 2, il numero 127! Tutti annunci che non riescono più a nascondere la realtà: cioè che le organizzazioni criminali sono sempre più potenti e pervasive.

La commissione antimafia recentemente ha paragonato la ‘ndrangheta ad Al Qeida. E, proprio come nella lotta ai terroristi in Iraq, ci vuole una fase due: o troviamo un nostro Petraeus che, con una strategia radicalmente nuova, cominci a conseguire qualche successo a Napoli e a Palermo, oppure sarà giocoforza ritirarsi dalle due storiche capitali del Mezzogiorno. Rinunciare a quella occupazione iniziata 150 anni con le armi dei garibaldini e dei savoiardi. Restituire il Sud ai suoi legittimi governanti e…mettere fine alle enormi spese di una occupazione che non giova né al Settentrione né al Meridione…

Scherzi a parte, l’unica cosa inaccettabile è far finta di nulla: ignorare che c’è stato il fallimento completo di qualunque politica assistenziale nei confronti del Mezzogiorno, che serve una svolta epocale che va posta al centro dei programmi elettorali. Non si può cioè procedere come Veltroni preoccupato solo di individuare il capolista Pd utile a limitare i danni in Campania, o come Berlusconi impegnato a trovare l’alleato giusto per vincere in Sicilia. Quasi che stessimo parlando di un Veneto o di una Toscana.

Siamo invece di fronte ad una voragine che ha già inghiottito il Sud e che minaccia di fare altrettanto col Nord.

 

CONTI ESTERI E ILLUSIONI FISCALI

Il caso dei conti bancari in Liechtenstein ha qualcosa di analogo con la castrazione chimica di cui parlavamo ieri. Nel senso che anche qui c’è un grosso equivoco da chiarire: portare i soldi all’estero, aprire un conto in qualunque Paese non è più un reato. Non lo è da quando è stata accetta la libera circolazione delle merci e dei capitali. L’eventuale reato, tutto da dimostrare , è legato al fatto che su quei soldi non siano state pagate le tasse e quindi siano frutto di evasione fiscale.

 

E’ quanto l’Agenzia delle entrate sta cercando di appurare. Nell’attesa abbiamo però la conferma che i soldi degli italiani vanno all’estero, in Liechtenstein come in tanti altri Paesi stranieri. Gli investitori, i gruppi finanziari portano le loro risorse economiche dove vogliono e dove trovano più conveniente farlo: diciamo, in genere, all’estero. Mentre non si ha notizia di flussi contrari: non ci sono cioè frotte di inglesi, tedeschi, americani, ne di investitori stranieri in genere che riversino fiumi di denaro in Italia e li depositino in banche italiane.

Chi sono gli italiani che tengono qui i loro soldi? Evidentemente le persone comuni, il risparmiatore medio che ha alcune decine di migliaia di euro, troppo pochi per giustificare trasferimenti, apertura di conti esteri e, in genere, operazioni da alta finanza.

E qui arriviamo alle illusioni fiscali di quella sinistra arcobaleno alla Bertinotti convinta di ottenere la giustizia ridistributiva inasprendo la tassazione delle rendite finanziarie. Principio, in se, giustissimo. Peccato però che le grandi rendite finanziare non restino nel nostro Paese in attesa che arrivi il Bertinotti di turno a tosarle: chi le possiede le ha già portate all’estero, in Liechtenstein o in altri Paesi; perchè è lui libero di scegliere dove andare a far tassare i suoi capitali.

In attesa della “falce” di Bertinotti resta solo il risparmiatore medio, la famiglia con i suoi quattro risparmi. Vogliamo portaglieli via? Vogliamo ripetere operazioni alla Giuliano Amato? Chi vuol provarci si accomodi, ma non venga a raccontarci che sta combattendo la sacra e gloriosa battaglia contro le grandi rendite finanziarie, quando sta solo raspando quattro soldi dalle tasche degli italiani.

CASTRAZIONE CHIMICA REGALO AI PEDOFILI

Castrazione chimica per i pedofili! Adesso non la esclude nemmeno Walter Veltroni; Calderoli e Fini continuano a richiederla. Sembra la soluzione definitiva e terrorizzante: tale da inibire qualunque ulteriore violenza sessuale sui bambini. Invece – se appena ci riflettiamo e chiariamo qualche equivoco – è un autentico regalo fatto ai pedofili stessi.

Primo equivoco: nella castrazione chimica non c’è proprio nulla di definitivo, niente a che vedere col colpo di forbici che evoca e che priverebbe per sempre il reo degli organi sessuali. Si tratta infatti di un farmaco che inibisce la produzione del testosterone, l’ormone da cui dipendono gli appettiti sessuali, ma che funziona solo per il periodo per cui viene somministrato. Dopo di che tutto torna come prima. Appetiti sessuali compresi.

Ma l’autentico regalo che si fa ai pedofili, invocando per loro la castrazione chimica, è quello di classificarli come malati, preda degli appetiti incontrollabili dovuti al testosterone in eccesso, e quindi non responsabili delle loro azioni: come dire che, se violentano i bambini, non è colpa loro ma della natura che li ha fatti malati, ossia con sfrenate produzioni ormonali. Esattamente come l’attenuante dell’infermità mentale che, se riconosciuta all’omicida, lo trasforma in un soggetto bisognoso di cure e gli evita la galera.

Quindi Veltroni, Calderoli e Fini invocando l’intervento farmacologico per i pedofili concedono loro, a priori, il “regalo” dell’attenuante per malattia.

Mi sembra invece più serio partire dal principio che ognuno è responsabile dei propri comportamenti ed è in grado di controllare i propri appetiti: non basta cioè un eccesso di testosterone per giustificare né la violenza sessuale sui bambini né lo stupro di una donna.

Insomma i reati di pedofilia sono qualcosa di troppo grave per concedere loro attenuanti: altrochè castrazione chimica, i responsabili vanno messi in carcere e tenuti dentro.