Nel nostro Paese i lavori pubblici, le grandi opere, sono all’eutanasia o, fate voi, al fine vita.
Emblematico il caso del più importante intervento di strutture sanitarie previsto nel nostro territorio: il nuovo ospedale di Padova che dovrebbe essere un’eccellenza per l’intero Veneto.
Dopo decenni di discussioni e rinvii, la Regione e il Comune hanno trovato e firmato un accordo su come e dove farlo. Applausi e soddisfazione unanimi. Piccolo dettaglio: manca la certezza dei finanziamenti; Zaia ha chiesto un miliardo a Roma.
Altro piccolo dettaglio: i tempi. Lo stesso Luca Zaia –con enorme ottimismo – ha previsto almeno tre anni e mezzo per l’inizio lavori e almeno altri otto anni per completarlo.
Lasciamo perdere l’esempio della Cina dove in 48 ore si costruisce un palazzo e i sei mesi una diga enorme. Guardiamo noi: a quando eravamo un Paese e non il bordello attuale.
1964. L’allora presidente del consiglio Aldo Moro inaugura l’Autostrada del Sole: 759 chilometri da Milano a Bologna a Firenze a Roma a Napoli; con tanto di valichi degli Appennini. I lavori erano iniziati otto anni prima. Servirono allora otto anni per costruire l’Autostrada del Sole. Oggi ce ne vorrebbero otto (fingiamo di crederci) per costruire l’ospedale di Padova! Chiaro esempio, mi pare, di un Paese che, quanto ad efficienza, ha compiuto passi indietro da gigante…
Basta o no a dimostrare che i lavori pubblici, le grandi opere sono al fine vita? Sottolineando i tempi previsti in un servizio sul Tg Padova mi sono permesso di scherzare, ma non tanto, dicendo: auguriamo ai padovani neonati di vivere abbastanza a lungo da riuscire a vedere il nuovo ospedale nella loro città.
Oggi riusciamo a mala pena a costruire qualche rotonda. In quanto tempo? Più meno lo stesso che serviva nel 1964 per realizzare quaranta-cinquanta chilometri di autostrada.
ACHILLE LAURO ERA PIU’ SERIO
E’ iniziata la campagna elettorale per le politiche a suon di promesse, fatte a prescindere dai soldi cioè dalle risorse disponibili. Senza mai indicare come verrà coperta la spesa.
Bene ha fatto Giannelli oggi sul Corriere a disegnare Renzi e Berlusconi come Babbo Natale che dispensano regali all’angolo delle strade.
Achille Lauro era più serio. Il capostipite della famiglia di armatori, quando si candidò a sindaco di Napoli negli anni Cinquanta, comprò i voti. Si narra di mezza banconota data prima del voto e l’altra mezza dopo la verifica dal seggio…Ma li comprò con soldi veri e con soldi suoi. Non con promesse fatte ignorando che le casse del nostro stato sono devastate: debito pubblico e spesa pensionistica i più alti in Europa, dopo la Grecia.
Non si tratta di negare che le promesse fatte da Renzi (bonus per tutti) dal Berlusca (pensioni minime a mille euro) e degli stessi 5 Stelle (reddito di cittadinanza) rispondano a esigenze reali e attese concrete. Ma, se non chiarisci dove troverai le risorse per coprire le nuove spese, stai promettendo il nulla.
Tanto più oggi quando non c’è politico italiano – dal consigliere dell’ultimo comunello al capo dello Stato – a non sapere che nel 2008 ci aspetta una manovra da lacrime e sangue, con conseguente ulteriore stangata fiscale (Iva compresa) per provare a contenere la nostra spesa pubblica, non certo per espanderla ulteriormente.
Ma il punto è anche questo: che fine farebbe un leader politico che, a noi italiani, promettesse lacrime e sangue? Dritto al cimitero, altroché Fornero…Quindi non stupiamoci che facciano campagna elettorale e suon di quelle fake news che noi per primi vogliamo sentirci raccontare.
COI PROFUGHI RESA TOTALE
La protesta dei profughi (cosiddetti) che negli ultimi giorni ha investito in particolare le province di Venezia e di Padova, e di cui si sono occupati tutti i media sia locali che nazionali, è stata utile a dimostrarci che siamo alla resa totale: nell’impossibilità, non dico di governare i flussi, ma nemmeno di gestire in maniera decente i migranti che già abbiamo accolto.
Con le loro proteste, con le lamentele e le pretese, sono arrivati al punto – per dirla alla Montalbano – di scassare i cabasisi perfino alla diocesi di Padova. Una diocesi governata dal vescovo Claudio Cipolla diretta emanazione di Papa Francesco: dovere cristiano di accogliere tutti a braccia aperte.
E perché una diocesi e un vescovo così arrivino a dire, come hanno detto, “Basta! Non accogliamo più nessuno!”, vuol proprio dire che è stato superato ogni limite, non solo del buon senso, ma della stessa fratellanza cristiana. “Ci vogliono delle regole e anche i profughi devono rispettarle” ha tuonato il portavoce della diocesi.
Ma questo è il punto della resa finale: di regole, nel nostro Paese, non ce ne sono e non ci sono strumenti per farle rispettare.
Centinaia di “profughi” sono sciamati dall’hub di Cona nel veneziano e sono andati dove hanno voluto, nessuno poteva fermarli. Una cinquantina sono arrivati anche a Padova ad inscenare una protesta davanti alla prefettura.
Le regole, la ragionevolezza da tutti condivisa, imponevano di sistemare le carenze del centro di accoglienza di partenza e riportarli là. Anche per evitare che la protesta dilaghi in tutti gli altri hub veneti. E questo hanno detto il prefetto di Venezia, il sindaco e il prefetto e il vescovo di Padova.
Ma all’atto pratico cosa puoi fare con le regole vigenti nel nostro Paese? Una sola cosa. Prendere un autobus, portarlo dove sono sciamati e chiedere loro: “Prego, volete salire?”. Questo è stato fatto. Ma loro, il profughi, hanno rifiutato il cortese invito a salire e tornare a Cona. Punto. Null’altro è consentito fare nei loro confronti: non imporre la sistemazione nel luogo scelto; non imporre di frequentare un corso di italiano, non imporre di fare un qualunque lavoretto socialmente utile. Tutto e solo se accettato volontariamente (come i vaccini versione Zaia).
E, con queste condizioni, non può che esserci l’anarchia più totale. Dobbiamo forse scandalizzarci che i migranti ne approfittino quando siamo noi Paese ad aver creato le condizioni perché l’anarchia ci sia escludendo di poter imporre loro il rispetto di qualunque regola?…
FUORI DAL MONDO, NON SOLO NEL CALCIO
Ok. Col calcio siamo fuori dal mondo cioè dal mondiale. Ma l’apocalisse vera è che l’intero nostro Paese rischia di essere, anzi è sempre più, fuori dal mondo; dal mondo civile e progredito.
Basta guardare a cosa è successo ad Erbezzo, con i profughi ospitati nell’ex base Nato, scomparsi. Si spera scomparsi all’estero e non a Roma o a Milano dove pretendevano di andare. Fatto sta che nessuno sa dove siano. Fuori dal mondo con l’accoglienza made in Italy.
O vogliamo parlare della pressione fiscale rapportata alla qualità dei servizi? Fuori dal mondo. La burocrazia che ti impedisce di iniziare in tempi ragionevoli un’attività? Fuori da quel mondo che te lo consente in un paio di settimane.
La tragedia è che, sessant’anni fa quando fummo esclusi dai mondiali in Svezia, nel mondo stavamo entrandoci con impeto: il boom economico dei primi anni Sessanta, l’Oscar della lira, un numero irrisorio di pubblici dipendenti. (Quando oggi abbiamo invece l’Oscar degli statali…).
Il Tempo, il quotidiano di Roma, interpreta la rabbia di tutti i tifosi di fronte ai risultati deludenti della loro squadra e titola rivolto agli azzurri: “Andate a lavorare!”
Sessant’anni fa ci andavamo tutti eccome: una marea di meridionali pronti a venire al Nord, veneti disposti e cercare lavoro dovunque.
Oggi non solo la voglia di lavorare è quasi deparecida, ma non basta aver voglia. E’ indispensabile la competenza. Guardi ai programmi scolastici, li rapporti alle esigenze del mondo reale, e vien da piangere.
La causa prima, strutturale, che ci porta fuori dal mondo è il crollo della nostra pubblica istruzione, certificato da ogni test e raffronto europeo.
Un crollo che genera non solo il crollo di livello dell’intera classe dirigente del nostro Paese, ma la mancanza di quelle competenze che oggi sono indispensabili per chiunque voglia trovare un lavoro qualificato.
Un crollo culturale che fa sì – scusate se insisto – che oggi almeno un elettore su tre sia pronto a votare il partito di un comico. Partito che esiste solo qui da noi e in nessun altro Paese del mondo occidentale. E neppure orientale. E neppure sudamericano, repubbliche delle banane comprese.
LA SICILIA DICE POCO, SU RENZI NULLA
La Sicilia, il voto alle regionali siciliane, ha distrutto il Pd e in particolare la leadership di Matteo Renzi, che ora se la sogna di potersi ricandidare a premier. Questa è la visione e la versione correnti.
Una visione, direi, alquanto miope: ridotta a guardare la pagliuzza, ignorando la trave.
C’è infatti una piccola trave europea, che riguarda la socialdemocrazia di tutti i Paesi del nostro continente: ovunque in caduta libera, ovunque ridimensionata, la socialdemocrazia, dalle urne.
Da quando infatti un welfare, per anni e sempre più generoso nelle elargizioni, ha dovuto fare i conti con la realtà di conti pubblici ormai insostenibili, da allora il modello storico della socialdemocrazia è entrato in crisi. E a tutt’oggi la socialdemocrazia non ha trovato una proposta di governo tale da convincere i suoi ex elettori a tornare a casa.
Il quadro generale è questo. Se lo teniamo presente diventa molto riduttivo, per non dire ridicolo, attribuire al voto siciliano i problemi del Pd e di Renzi. Senza aggiungere che, rispetto all’andamento della socialdemocrazia europea, quella nostra, il Pd Renzi o non Renzi, non se la cava proprio malaccio.
Al momento l’alternativa qual è? La nostra sinistra-sinistra che di governare, cioè di impegnarsi a dare risposte concrete, non si cura: le basta testimoniare la sua purezza teorica…e magari impegnarsi a far perdere la sinistra riformista. Obbiettivo questo appena raggiunto in Sicilia.
Quanto al resto le elezioni sicule poco hanno detto che già non si sapesse. Gli elettori dei 5 Stelle continuano a votare, qualunque cosa combinino gli amministratori locali pentastellato, perché la loro resta una scelta alternativa a tutto il resto del tanto detestato partitume.
C’è la ripresa del centrodestra. C’è. Ma con un piccolo problema: ha vinto in Sicilia dove la Lega è irrilevante. Mentre qui al Nord, nel nostro Veneto in particolare, la Lega c’è eccome; mentre irrilevante, o quasi, è Forza Italia…
AUTONOMIA DAL SOGNO ALLA REALTA’
Niente da dire: un trionfo il risultato del referendum sull’autonomia. Un trionfo anzitutto per Luca Zaia e la Lega del Veneto. Un po’ ridicolo il tentativo di altri partiti di cointestarsi la vittoria.
L’iniziativa è e resta della Lega del Veneto, che ha avuto il merito di interpretare un comune sentire di tanti cittadini della nostra regione, che va ben oltre l’entità del voto leghista.
Colpisce l’omogeneità dell’affluenza e del sì in tutte le province, quando ci si poteva aspettare dati più alti nelle roccaforti venete della Lega.
Un risultato da sogno, che però adesso deve fare i conti con la realtà. Luca Zaia, come un leone ruggente, garantisce che saremo padroni a casa nostra, che ci terremo i nove decimi delle tasse pagate. Piccolo problema: la Costituzione esclude che le regioni a statuto ordinario abbiano potestà in materia fiscale…
Chiaro dunque che, se nella prossima trattativa col governo, la Regione dovesse ottenere solo nuove competenze ma senza i soldi per finanziarle, senza il famoso “residuo fiscale”, il risultato sarebbe pura fuffa.
Ma, mettiamo che Zaia, se non i nove decimi, ottenga anche solo di trattenersi tre-quattro decimi, sarebbero soldi in più a disposizione nelle casse della regione o soldi in meno da far pagare in tasse ai cittadini? Mi sembra infatti che la prima opzione espressa nelle urne sia “basta farse ciuciar i schei da Roma” e non “fasemosei ciuciar da Venexia invese che da Roma”…
Inoltre, visti i ben più modesti risultati ottenuti in Lombardia, forse la Lega del Veneto dovrebbe intraprendere una ulteriore battaglia per l’autonomia: per emanciparsi cioè da quella Lega lombarda che – da Bossi a Maroni a Salvini – continua a colonizzarla…
DEL RIO, IL PANNELLA MIGNON
Morto Marco Pannella, il leader radicale protagonista di grandi battaglie politiche, condivisibili o meno, ma attuate con enorme determinazione, cioè con durissimi scioperi della fame e anche della sete che duravano mesi e lo riducevano ad una larva d’uomo.
Morto lui, dicevo, ci ritroviamo con un Pannella mignon: il ministro Graziano del Rio. Il quale ha annunciato un digiuno per sollecitare l’immediata approvazione della legge sullo Jus soli.
Ma è un digiuno a rotazione attuato con altri 57 parlamentari del suo partito. Come dire che, ognuno di loro, digiuna circa un giorno ogni due mesi. Più che uno sciopero della fame, una dieta. Una dietarella. Che ha spinto un loro collega dell’area di centro, Gianfranco Rotondi a chiedersi, ironicamente, se siano impegnati per lo Jus soli o per rientrare nei loro vestiti dopo le crapule estive a Capalbio o a Porto Cervo…
Del Rio, lo ricordiamo, è un ministro del governo Gentiloni non un semplice peones capitato per caso in Parlamento. Quindi, sotto il profilo politico, è sconcertante che sia un ministro ad andare contro la decisione del suo governo e della sua maggioranza che hanno dovuto prendere atto di non avere i numeri per approvare lo Jus soli in questa legislatura.
Non mi interessa entrare nel merito della cittadinanza per gli stranieri nati in Italia, così come prescindo dal fatto che le battaglie di Marco Pannella fossero sacrosante o meno. L’abisso è nel modo di condurre una qualunque battaglia politica: con serietà e determinazione oppure da pagliacci.
D’altra parte è anche questo un segno di tempi politici (e non solo) avviati al viale del cimitero: ieri c’era il colosso degli scioperi della fame, oggi ci ritroviamo questo Pannella mignon. Mignon, mignon.
LA STRAGE PIU’ PAUROSA DI TUTTE
Molto interessante l’analisi della strage di Las Vegas che fa la giornalista de Il Foglio Annalena Benini. La definisce la più paurosa di tutte, non solo la più cruenta. Certo c’è il numero di vittime senza precedenti; ma, ciò che che spaventa, è che per la prima volta non si riesce a collocare l’autore in una delle tante categorie di assassini seriali che conosciamo.
Paradossalmente la Benini osserva che, se Stephen Paddock avesse ammazzato 59 persone urlando “Allahu Akhbar”, avremmo potuto incasellarlo tra i fanatici dell’Islam che arrivano a compiere stragi. Una categoria nota e quindi – da un certo punto di vista – tranquillizzante perché quantomeno già conosciuta.
Ciò che sconcerta invece è che questo ricco pensionato di 64 anni non era né un fanatico religioso né politico. Non ha senso parlare di raptus dato che la strage era stata organizzata meticolosamente portando decine di armi all’interno dell’albergo, munizioni a volontà, una mazza per rompere il cristallo delle finestre, una telecamera per controllare il corridoio.
Impossibile pensare che detestasse la musica country, sulla cui folla riunita ad ascoltarla ha fatto fuoco, dato che suo fratello racconta che anche lui, Stephen Paddock, frequentava simili concerti.
Uno psicopatico? Non aveva mai dato segni di squilibrio questo ricco pensionato bianco, senza figli, divorziato, che viveva in una comunità per over-cinquantenni benestanti, giocando a golf e frequentando i casinò di Las Vegas. Non stiamo parlando di uno già seguito dai servizi psichiatrici e magari perso di vista. Nessun elemento per poter dire che fosse un fissato, un discepolo del nulla. Una vita all’apparenza assolutamente normale. Nessuna categoria di potenziali assassini dove poterlo, almeno al momento, inquadrare.
E così, scrive Annalena Benini a conclusione della sua analisi, “la paura del nulla fa ancora più paura”.
PRIMA SICILIANI, POI GRILLINI
Il nostro dna (usi e costumi antichi) è ben più radicato delle opzioni partitiche: se c’è da scegliere non c’è dubbio che prevalga. Emblematico ciò che sta accadendo in Sicilia.
Il candidato presidente dei 5 Stelle, Giancarlo Cancelleri, ha annunciato che nella sua squadra entra, come assessore regionale in caso di vittoria, l’ex sindaco di Licata Angelo Cambiano.
Ex perché l’agosto scorso è stato sfiduciato da sindaco (in modo brusco e pressoché unanime) all’annuncio che voleva accendere le ruspe e abbattere gli edificio abusivi nella suo comune in provincia di Agrigento.
Ora, all’idea di ritrovarselo come assessore regionale, sono insorti i 5 Stelle di Licata: hanno chiuso la sede del movimento e annunciato che non faranno campagna elettorale. Perché, dicono, c’è un “abusivismo di necessità” che non può essere demolito. Scontato osservare che sono prima siciliani e poi pentastellati.
Ma più che “di necessità”, in Sicilia, l’abusivismo è storico. Ho visto di persona intere cittadine dove non un solo edificio era stato costruito con regole e permessi: tutti abusivi.
Ma tutti (o quasi) evasori anche noi Veneti negli anni Sessanta, che garantirono il boom economico nella nostra Regione. E non arrivò l’Arcangelo tributario a convertici al rispetto delle regole fiscali da un giorno all’altro. Ci sono voluti decenni per raggiungere (quasi) il risultato.
Così la Sicilia, governata in modo indecente dal dopoguerra ad oggi. Con un’autonomia tradotta in mancanza di responsabilità, cioè in una spesa pubblica dissennata foraggiata dalla fiscalità nazionale. Con politici, di tutti i partiti, impegnati solo a dispensare clientelismo, a consentire qualunque violazione delle regole. Abusivismo compreso. Quindi la prima responsabilità non è di chi ha costruito case fuori legge, ma di chi ha permesso ai siciliani di farlo impunemente.
Ed è solo ridicolo pensare che arrivi il “cavaliere sulla ruspa bianca” a radere al suolo, improvvisamente, metà del patrimonio edilizio siculo. Anche qui ci vuole (ci vorrebbe) buonsenso, con un vasto programma di rieducazione civica da attuare nel tempo. Persino i tedeschi non sono diventati tedeschi in un giorno: ci hanno messo secoli.
Se mai sono puerili queste grida a 5 Stelle “onestà, onestà!”, “legalità, legalità!”. Come se bastasse che vadano loro al governo a Roma, in Sicilia, o a Palazzo Chigi, per ottenere una subitanea conversione di massa in tutto il Paese.
DA TODOS CABALLEROS A TODOS PREMIER
Si credono, pretendono di diventare “todos caballeros”, diceva Indro Montanelli ironizzando sull’eccessiva autostima di tanti suoi connazionali.
Da todos caballeros siamo passati a todos premier, come emerso nell’ultimo fine settimana: da Salvini a Berlusconi, da Luigi Di Maio a Matteo Renzi, passando per Giuliano Pisapia , senza dimenticare l’ambizione evidente di D’Alema né quella latente di Romano Prodi…
L’età, la competenza, il passato che mai ritorna, bagatelle che non contano. Una legge elettorale che farlocca è dir poco, e che tassativamente esclude l’elezione diretta del premier. Sondaggi che, presi con ogni beneficio di inventario, escludo che qualunque partito o movimento possa raggiungere la fatidica soglia del 40% (oltre la quale scatterebbe il premio di maggioranza). Tutto questo non conta, la realtà politica non conta, l’importante e dare sfogo alle proprie ambizioni.
Quello che ci manca non è una legge elettorale tedesca. E’ il senso di responsabilità tedesco che ha dato vita a quelle grosse coalizioni guidate dalla Merkel che hanno saputo affrontare e risolvere, non a chiacchiere ma nei fatti, i problemi di questo Paese.
Da noi invece solo chiacchiere mescolate magari all’autolesionismo puro, incarnato da articoli e gruppetti a sinistra del Pd che hanno il principale obiettivo di far perdere il Pd stesso, per dare un aiutino, per far da Viagra al centrodestra…
Buon senso dice che, non prima del voto di Aprile, ma solo ad urne chiuse si cercherà di mettere assieme coalizioni risicate, solide – per citare Ungaretti – “come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Tre ipotesi sul tappeto: alleanza Salvini-Berlusconi- Meloni, alleanza Grillo-Salvini, alleanza Renzi-Berlusconi.
A questo punto delle tre preferisco la seconda: con un premier pentastellato, Di Maio, telecomandato da Grillo-Casaleggio, e un Salvini vicepremier e ministro degli interni (magari pure della Giustizia).
Lo dico perché, a questo punto, se vuoi sperare di rinascere, devi morire. Ci vuole cioè un fallimento totale per poter ricostruire il Paese dalle fondamenta. E le fondamenta può gettarle solo una nuova assemblea costituente che mandi in discarica la “Costituzione più bella del mondo”.