L’AFFANNO È IL NEMICO DA EVITARE. LA PAZIENZA LA NOSTRA ALLEATA

Mi sovviene John Fante nella prefazione del suo Chiedi alla polvere. Fante faceva le pulci alla società americana dell’epoca, a “un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere”, a “coloro ingannati dall’idea che felici fossero quelli che si affannavano”.

Ecco lasciando stare il sublime scrittore americano e tornando sulla terra, il concetto dell’affanno come demone mi è tornato in mente pensando a questo redivivo Verona che piano piano cerca di risalire la corrente. Bene ha detto ieri Zaffaroni spiegando che, per adesso, conta trovare certezze attraverso le prestazioni, sottintendendo che la smania di vittorie potrebbe essere psicologicamente pericolosa. È un po’ quello che scrivevo una settimana fa: ora è meglio essere formiche e non cicale, giocare (anche psicologicamente) con la consapevolezza di avere (ancora) due risultati su tre a disposizione. Il tempo non è tantissimo, ma nemmeno così stretto, permette di darsi uno spazio di un paio di mesi e una decina ancora di partite per recuperare il gap.  Affannarsi a voler rimediare subito, condizionati subitaneamente dalla classifica, invece ci condurrebbe a più rischi. Tattici, cioè giocare all’arma bianca e così prestare il fianco all’imbucata. Psicologici: se tu aneli ansiosamente a un obiettivo, al primo inciampo entri per nemesi in un loop mentale negativo. Non possiamo permettercelo.

Quel che dice Allegri parlando di Juve, vale anche per noi: si deve ragionare su micro-obiettivi. Il Verona tra un mese ha lo scontro diretto proprio con la quart’ultima, lo Spezia, che viaggia a +4. Prima però abbiamo Salernitana e Fiorentina in casa e in mezzo la Roma all’Olimpico. Non disdegnerei 4 punti (una vittoria, un pari e una sconfitta) in questo trittico, ma ne basterebbero anche 3, che comunque ci permetterebbero probabilmente di rosicchiare almeno un altro punticino ai liguri. Dopo La Spezia, avremmo comunque altre 13 partite: una vita (calcisticamente) se ancora in vita (cioè in lotta salvezza).  

Quel che serve, ora, è soprattutto la pazienza e l’attitudine a fare la corsa su se stessi e non sulla classifica. La squadra uscita dal mercato, con Duda e Ngonge, è più forte; il carisma di Sogliano ha poi rivitalizzato due ottimi giocatori come Lazovic (che da trequartista o ala di punta si allunga la carriera e torna nel suo ruolo degli inizi alla Stella Rossa) e Tameze, da cui non possiamo prescindere.

Non c’è l’attaccante, questo è vero (del resto i bomber costano…), ma una buona fase difensiva e le mezze punte forse potranno supplire. In tal senso fatemi spendere una parola su Lasagna: additarlo a capro espiatorio di tutto e tutti è la via più facile e populista ed è pure ingeneroso, del resto a Verona non siamo nuovi nella specialità (ricordo le critiche a Salvetti che fu il vero artefice della salvezza con Perotti). Lasagna ha più di 200 partite in A e ha giocato in nazionale: ha note difficoltà sotto porta e sovente sbaglia i tempi di giocata, ma dà profondità come pochi. Usiamolo e proteggiamolo per quel che sa (e può) dare, non attacchiamolo per quel non ha e mai avrà. La salvezza passa anche da questi dettagli.  

FORMICHE E NON CICALE. ORA VA BENE COSI’ (ASPETTANDO LA PUNTA E LA VOLATA FINALE)

Il Verona finalmente ha un senso. Il pari di Udine sigilla una tendenza in atto, sconfitta di San Siro a parte: ora c’è una squadra e gli otto punti nelle ultime cinque partite lo certificano. Abbiamo trovato continuità e muovere (quasi) sempre la classifica in questa fase del campionato è il fattore più importante. Sbaglia chi storce il naso per il punto di Udine: serve eccome, ora meglio essere formiche piuttosto che cicale da effimeri e irripetibili exploit. Crea solidità, in attesa che oggi la chiusura del mercato ci consegni un uomo gol. Solo quello potrà trasformare l’acqua in vino, cioè i pareggi di ieri sera (nel finale hai messo sotto l’Udinese senza cavare un ragno dal buco…). in vittorie.

Bocchetti ha sfruttato a dovere la sosta dei mondiali, stabilendo un rapporto franco con il ds di ritorno Sogliano, che a sua volta ha sistemato lo spogliatoio. I calciatori fanno sempre la differenza: è servito perciò ritrovare mentalmente uomini chiave (Lazovic e Tameze), tirare fuori dal cassetto il desaparecido Djiuric e, in difesa, recuperare Magnani (ieri sera superbo), buon stopperone di serie A frenato in carriera da frequentii guai muscolari, e nelle scorse partite Dawidovicz, che è pur sempre un nazionale. Se con l’inamovibile Hien giocano loro e non un Gunter, evidentemente tutto cambia. Poi attenzione a Terracciano, a cui se non vogliamo rovinare la carriera va tolta l’etichetta di jolly tuttofare. Lui ha il passo, la tecnica e la profondità del tornante destro, non a caso a Udine con Duda nel secondo tempo ha cambiato volto al centrocampo.

Infine il capitolo mercato. Sogliano finora non ha sbagliato una mossa. Ilic era il più sacrificabile per fare cassa senza indebolirsi e infatti lo si è ceduto. E’ arrivato il nazionale slovacco Duda, veterano in Bundesliga, che, intendiamoci bene, è un colpaccio per la nostra modesta dimensione. Ngonge ha passo, tecnica e spunto sulla trequarti e, dopo Amrabat, conferma ciò che anni fa mi confidò l’ex ds Gibellini: Olanda e Belgio sono i mercati europei da cui pescare i giovani talenti.

Tuttavia (e torniamo sempre lì) serve come il pane il goleador, senza il quale sarà difficilissimo salvarsi. Se avessimo 30 partite da giocare potremmo restare anche così, basterebbe fare le formichine a vita, ma ne mancano 18 e almeno cinque vanno vinte, tenendo conto che altre cinque fisiologicamente le puoi perdere.

Ora il verbo è resistere: quindi perdere poco, restare a galla e rosicchiare nelle prossime 6-7 giornate un paio di punti alla quart’ultima. Tessere pazientemente la tela, senza ansie eccessive, pronti poi per la volata finale.

CON L’INTER PASSO INDIETRO. SETTI IN DIFFICOLTA’ SUL MERCATO

Se miracolo dovrà essere, non sarà con l’atteggiamento di ieri a San Siro. Il peccato mortale è aver preso gol dopo due minuti e 40 secondi, cambiando lo spartito a favore dell’Inter. Una squadra chiamata a una rimonta quasi impossibile non può permettersi un approccio così molle e indolente. Poi possiamo discutere di tutto, della prestazione certamente incoraggiante del Verona negli altri 87 e passa minuti, pur con gli enormi limiti di creatività e finalizzazione che ci portiamo dietro da agosto e riconoscendo che la sonecchiosa Inter si è limitata a gestire la pratica. Ma non si può prescindere da quei primi tre minuti, quando abbiamo concesso campo e spazi con facilità disarmante (il gol di Lautaro Martinez è ovvia conseguenza), mandando subito in malora anche la speranza di poterci giocare qualche possibilità.

E’ un passo indietro rispetto a Torino e Cremonese, contro le quali l’Hellas aveva mostrato sprazzi di una semi-rinascita, con il recupero psicologico (Lazovic e Tameze) e fisico (Dawidovicz) dei nostri pezzi da novanta e un maggiore ordine tattico. Bisogna rendersene conto in fretta se non si vuole sbagliare contro l’ottimo Lecce, a questo punto il vero banco di prova per capire se – in attesa di una svolta sul mercato – il Verona di Zaffaroni e Bocchetti nel girone di ritorno ha reali chances di recuperare il terreno perduto.

Quest’anno ci si salva a 35-36 punti, difficilmente meno, significa doverne raccogliere 26-27 nelle venti partite restanti. Complicato anche per il buon Verona visto con il Toro e quello discreto che ha battuto la modestissima Cremonese. Impossibile per quello di ieri di San Siro. Qualche speranza c’è se si trova innanzitutto un filotto di continuità nei risultati e nel frattempo si aggiunge qualità vera al centro dell’attacco. Lazovic e Lasagna, ma anche lo stesso Djuric, con un uomo gol accanto possono esaltarsi. Lazovic, con i piedi che ha, l’esterno di trequarti lo può fare benissimo, quello era il suo ruolo a inizio carriera nella Stella Rossa e, a 32 anni, oggi lo valorizzi più lì che a tutta fascia come in passato. Lasagna non vede la porta, ma salta l’uomo e crea spazi come pochi, va utilizzato per quello (molto) che sa fare, non demolito per ciò che non è. Nelle condizioni attuali il ritorno di Borini è (era?) un’idea intelligente, perché gioca sia da trequartista che da punta e ha fiuto del gol; ma secondo la Gazzetta dello Sport economicamente il Verona non sembra nemmeno in grado di competere con la neopromossa Cremonese.

Servirebbe vendere (come se negli ultimi anni non si fosse venduto abbastanza), ma per non indebolirsi non si possono cedere Doig o Tameze, l’unico sacrificabile sarebbe Ilic, che però è costato 10 milioni e che difficilmente porterebbe una plusvalenza. Ecco spiegato perchè sul mercato siamo incartati. Ma qui torniamo a Setti e a una gestione economica-finanziaria degli anni scorsi che pone tante (troppe) domande.

VITTIME DI UN TEMPO SOSPESO (INVECE SERVONO FACCE NUOVE)

Non bastano due allenatori (il tandem Bocchetti—Zaffaroni ci riporta ai primi anni ’90 di Liedholm-Corso) per dimenticare il vecchio. E così Ivan Juric, da un anno e mezzo al Torino, dopo la partita del fu Comunale, oggi Olimpico, troneggia in sala stampa disquisendo del Verona. Ne parla come se fosse ancora il “suo” Verona. Indica la strada, dispensa consigli sull’applicazione del “suo” calcio al discepolo Bocchetti, accenna alla migliore formazione e suggerisce financo le operazioni di mercato di questo gennaio (“non va sbagliato l’attaccante”).

Orologi rotti, spazi temporali inesistenti, impalpabili. L’Hellas Verona lotta affannato contro un tempo sospeso, di cui è vittima. Juric non c’è più da un anno e mezzo, eppure è come se questo anno e mezzo non fosse mai trascorso. La sua ombra aleggia da sempre, nelle nostre cronache, nel vociare dei tifosi, ma soprattutto più o meno inconsciamente anche in società. Del resto Setti, dopo Ivan, ha piazzato sulla panchina degli emuli (Tudor e poi Bocchetti) e anche nei brevi interregni di Di Francesco e Cioffi pretendeva il calcio del croato. Ebbene, le dichiarazioni di oggi pomeriggio del convitato di pietra – Juric appunto – scoperchiano il vaso di pandora e con esso deflagra l’equivoco: non ci siamo ancora emancipati dal (mirabolante) passato, lo vogliamo rivivere, aneliamo impossibili déjà-vu , senza però che ci siano le condizioni per ripeterlo in altre vesti e con nuovi attori.

Segno di debolezza. Del club. Di un presidente che naviga a vista, di anno in anno, va a fiammate e chiari di luna. Nella scorsa stagione ha fatto il passo più lungo della gamba (basta vedere il monte ingaggi dei Simeone, Barak ecc), salvo trovarsi a dover ridimensionare in estate, quindi incartato e senza potere contrattuale (da qui la svendita dei big). Aggiungici la confusione totale nella scelta dei dirigenti (Marroccu) e dell’allenatore (Cioffi, pagato non poco peraltro). La tempesta perfetta, già vista ai tempi di Gardini-Bigon e poi Fusco, corroborata dagli inopportuni e ineleganti mega-compensi da amministratore che Setti si auto-elargisce.   

L’arrivo di Sogliano è una pezza di buon senso, perché Sean, pur in una fase delicata e non certo ascendente della carriera, rimane comunque uomo di calcio capace di stare alla scrivania ma anche sul campo. Forse una piccola scossa nello spogliatoio si è pure avuta: il pari e la discreta prestazione di Torino sono timidi segnali di risveglio. Svolta o pannicello caldo? Si vedrà lunedì con la Cremonese.

Però il mercato langue. Non ci sono soldi (i chiari di luna settiani dopo i fasti del 2021 ora dicono spending-review), dunque è necessario cedere un big per poter reinvestire qualcosa e tentare qualche innesto interessante (il più sacrificabile è Ilic, che però nel migliore dei casi sarà un nuovo caso-Simeone, ergo una piccola plusvalenza poiché è costato dieci milioni e una percentuale della rivendita va al Manchester City). Ci vorrebbe una punta che sappia fare gol e più di qualche faccia nuova. Rinnovare il gruppo per ricreare entusiasmo e poi giocarsela, vada come vada.

“Quando non hai niente, non hai niente da perdere” (Bob Dylan).  

ECCO PERCHÈ SETTI HA SCELTO SOGLIANO

Carta della disperazione, o del rilancio? Il ritorno di Sean Sogliano è forse un po’ tutte e due agli occhi di Maurizio Setti, che aveva (ingiustificatamente) silurato il suo ds nel 2015 dopo tre anni di ottimi risultati sportivi ed economici (leggi plusvalenze), per continuare la storia di amorosi sensi con l’allora direttore generale Gardini. Il quale, mentre accusava Sean di spendere troppo, firmava un quinquennale milionario a un Pazzini con il ginocchio disastrato. Altri tempi.

I tempi di oggi invece accertano che Setti è seriamente preoccupato, altrimenti non avrebbe richiamato uno spirito libero come Sean, lui presidente che – come molti altri – ama avere (legittimamente) il controllo di tutto. Ma Setti è uomo pragmatico e sa che retrocedere significherebbe compiere il primo dei due passi per perdere il Verona e tutto il business che ne deriva. Il secondo passo sarebbe non risalire immediatamente, ca va sans dire, cosa peraltro possibilissima (vedi Parma, che ha ben altri capitali). Diciamocelo: non sempre ti va ricca come l’anno di Pecchia (2016-17), non sempre trovi il Palermo che fallisce, il Cittadella che ti fa l’harakiri e Aglietti il miracolo sulle macerie di Grosso (2018-19). Insomma, Setti è uomo (molto) fortunato (anche quest’anno: scelte disastrose, squadra smobilitata, ma sosta del mondiale provvidenziale), ma è lui il primo a sapere che la fortuna è meglio non sollecitarla troppo che poi magari ti si rivolta contro.

In sostanza Setti, impaurito e sotto-pressione, si trova nella condizione di tornare a fare puramente calcio, ridimensionando la politica dei procuratori e del calciomercato “telecomandato” dall’alto. Da qui la scelta di tornare a lavorare con un uomo di calcio e non di politica, finanza o relazioni.

Basterà? Non lo so, salvarsi resta molto complicato, ma il tempo c’è. Servirà mettere mano alla squadra (cambiare almeno 4 titolari) e forse anche alla conduzione tecnica. Servirà innanzitutto saper vendere chi non serve, per poter comprare i giocatori funzionali alla causa.

Il Sogliano II non è così sorprendente neanche sul piano…emotivo. Lui e Setti si erano lasciati malissimo e fino al 2018 i rapporti (anche pubblici) erano al vetriolo. Poi il graduale riavvicinamento, non a caso già due volte Sean è stato vicino al Verona: nella primavera 2019, prima che arrivasse Aglietti e agguantassimo i play off, e la scorsa estate dopo l’addio di Tony D’Amico.

Il suo ritorno intanto ha già ha avuto un effetto: ha rincuorato e (ri)motivato la tifoseria, molto legata al ds, il quale a sua volta ama Verona (ma in pubblico, per evitare ruffianerie, non lo sentirete mai pronunciare dichiarazioni roboanti al riguardo) e che a Verona torna ad avere una compiutezza sentimental-professionale che in questi anni, altrove, forse aveva smarrito. La mia impressione, infatti, è che Sogliano abbia lavorato in altri club senza mai davvero dimenticare l’Hellas e, anzi, appesantito dal rimpianto di un cammino che lui ha vissuto come interrotto sul più bello. Adesso si chiude un cerchio. E, chissà, forse se ne riapre un altro…

DOPO L’AUTO-COMPENSO (MILIONARIO), ARRIVA L’AUTO-ELOGIO

Le dichiarazioni di Setti? Lunari e quindi incommentabili. Perché non val nemmeno la pena spendere due righe per chi afferma che il Verona di oggi è più forte di quello della scorsa stagione; o per chi dopo anni di slogan ragionieristici (“prima il bilancio” e il “Verona si deve auto-sostenere”), con le spalle al muro e impopolare tra opinione pubblica e tifosi, cambia subitaneamente narrazione e cerca forse di commuovere la platea spiegando che il club nel quale lui auto-percepisce compensi milionari “spende più di quanto incassa”. Cosa dire? Ascoltate le sue parole, auguriamo sinceramente a Setti, come faremmo con chiunque, tanta salute e di tornare a dormire sereno.

Del resto la conferenza stampa di ieri del presidente del Verona è un triste, affannato, crepuscolare, narcisistico soliloquio, in cui mancava solo che si facesse l’applauso da solo. Non una mezza autocritica, il barile delle colpe scaricato sui collaboratori (“sono tutti in discussione”), e anzi l’auto-elogio, non bastasse l’auto-compenso: “Ho molti meriti in questi dieci anni” (rispetto, ca va sans dire, alla storia del Verona).

Resta l’ennesimo scempio dopo i campionati di Gardini-Bigon del 2015-16 e Fusco-Pecchia del 2017-18. Il solito smantellamento dopo una manciata d’anni discreta, con ricchi diritti tv (ininterrotti dal 2013, considerando tali anche i paracadute) e plusvalenze. L’ennesima altalena, come scrivevo lunedì scorso, di investimenti e disinvestimenti (i risultati sportivi sono una conseguenza). E come da tradizione quando butta male, le conferenze stampa piene di vuoti, vaghezze e alibi. Un déjà vu che non ci viene spiegato, perché forse non tutto può spiegare. Ma quantomeno Setti ci risparmi inutili parole. E’ già dura sopportare questa agonia.

SETTI? PRESIDENTE VOLUBILE E INAFFIDABILE

Com’è che faceva quella vecchia canzone? “Ho perso le parole…”. Del resto dopo anni che spiego chi è Maurizio Setti, fatico oggi a sottolineare e rinverdire ciò che si sta palesando – ora agli occhi di tutti – come ovvio.

Eppure, cinque-sei mesi fa mi ero illuso anch’io, pensando che un (lieve) tentativo di consolidamento del club e della categoria fosse in atto. Invece il presidente del Verona si è confermato quello di sempre: l’uomo dei chiari di luna, della crescita e (quando meno te lo aspetti) dei ridimensionamenti repentini.

Assistiamo allo stesso film per la terza volta dopo l’esperienza del tandem Gardini-Bigon nel post Sogliano, alla fosca parentesi di Fusco (con Pecchia e una retrocessione che a detta di molti è sembrata programmata) e adesso alla cura dimagrante di Marroccu dopo gli anni brillanti con Juric, D’Amico e Tudor. A proposito, all’ex collaboratore di Cellino dovrebbero perlomeno risparmiare le interviste (ieri una nuova perla: ha detto che la “squadra è talmente debole e fragile”, ma di grazia chi l’ha costruita?).

Con Setti il Verona non può avere continuità. Mai l’ha avuta e mai l’avrà. Certo abbiamo sottolineato più volte come siano piuttosto strani questi ripetuti mutamenti subitanei di linea economica, con disinvestimenti e smantellamenti in picchiata. Nonostante dal 2012 il club incassi corpose plusvalenze e diritti tv sempre più ricchi e non si siano mai palesati grandi problemi di bilancio che giustificassero il passo del gambero. Abbiamo visto il Setti ranzanesco senza remore che dava carta bianca a Sogliano; quello che ci diceva che Sogliano aveva speso troppo, ma intanto con Gardini firmava un milionario quinquennale a Pazzini che aveva conclamati problemi al ginocchio; quello titubante e risparmiatore con Fusco; quello tornato  gradualmente a investire con Juric (con l’ingaggio di giocatori sconosciuti al grande pubblico ma nazionali già noti agli addetti ai lavori, vedi Amrabat che aveva fatto Champions e Mondiali) e soprattutto Tudor; quello che la scorsa estate ancora una volta è tornato indietro e  ha smobilitato tutto, nel momento che meno te lo aspetti, al quarto anno consecutivo di serie A, cioè quando un club dovrebbe stabilizzarsi e continuare nella graduale crescita.

Sul piano aziendale (cioè dell’azienda calcio) non troviamo una logica in questa volubilità. E la cronistoria dei fatti, quella sopra elencata, rende Setti un presidente di calcio inaffidabile.

L’EQUIVOCO. NON POSSIAMO (PER ORA) SOSTENERE IL GIOCO ALLA JURIC

Fragile e delicato, il Verona. Gira che ti rigira, molti nodi restano lì da sbrogliare. Bocchetti ha certamente migliorato il Verona – pressing alto, il vecchio codice di Juric dell’uomo contro uomo, squadra di nuovo compatta – ma rimane la sensazione di fondo di una squadra vulnerabile, che ce la mette, eccome se ce la mette, ma poi si scioglie sul più bello. Con il Milan un gol preso in contropiede, con il Sassuolo infilati con facilità disarmante. Nel mezzo, quello che è oggi l’equivoco di fondo: se vuoi applicare il (dispendioso) calcio di Juric, devi avere una condizione atletica che sappia supportarlo.

Per tacere della qualità dei giocatori. Juric, pur senza un centravanti degno di nome, schierava sulla trequarti Zaccagni e Pessina e l’anno dopo Zaccagni e Barak, collanti determinanti per il suo gioco; nonché difensori di razza che sfruttavano la preparazione maniacale del tecnico croato nella fase di non possesso e ti vincevano i famosi uno contro uno in quelle (poche) circostanze che, perso il pallone, ci si trovava scoperti. Tudor è riuscito a riproporre, a suo modo, un copione simile anche senza buoni difensori (a parte Casale), approfittando abilmente del talento offensivo dei tre funamboli da 40 gol e svariati assist, Simeone, Caprari e Barak.

Ecco, non nascondo una mia perplessità: si è scelto Bocchetti per spendere poco  (in linea con il mercato estivo di smantellamento) e per ridare ancora una volta, come un anno fa con Tudor, continuità al verbo del mentore Juric, come richiesto anche dai senatori della squadra (checché ne dica Setti che, smentendole piccato, ha confermato le pressioni dello spogliatoio). Eppure la domanda è lì sospesa: possiamo giocare come Juric (e Tudor), pur privi della medesima condizione atletica e dei giocatori adatti? E se la condizione atletica arriverà (sia benedetta la pausa dei mondiali in Qatar), dal mercato di gennaio non aspettiamoci nulla. Setti lo conosciamo.

BOCCHETTI FORTE, MARROCCU DEBOLE. LA SPERANZA PARTE DA QUI

Perfino la massima di Marx è stata superata: “La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda in farsa”. Setti, nel suo piccolo, è oltre alla farsa dacché è già alla terza replica dopo l’infausto interregno Gardini-Bigon e la gestione sconcertante di Fusco.

Questi tempi di Marroccu infatti lasciano sbigottiti oltremodo: il diesse prima ha smembrato la squadra cinque secondi dopo aver dichiarato incedibili i suoi big; poi (fin dall’estate) ha creato un cratere intorno a Cioffi, a forza di ultimatum che hanno logorato l’allenatore toscano; infine ha provato a imporre il pluri-esonerato e più volte retrocesso Diego Lopez, che aveva allevato a Cagliari e si era portato dietro anche Brescia. Setti lo stava assecondando finanche sul tecnico sudamericano – che per non farsi mancare nulla si è fatto licenziare pure in Cile – salvo poi fare retromarcia per il niet dei senatori della squadra.

Ora, in una situazione normale, in qualsiasi azienda, una figura come Marroccu – colpito dalla perfetta nemesi (a furia di indebolire Cioffi, si è indebolito anche lui) – sarebbe stata allontanata, ma il calcio di normale non ha nulla e, conoscendo Setti, non ci aspettiamo niente di simile.

In tutta questa commedia da B-Movie, speriamo di salvarci dalla B che conta, quella calcistica. Una speranza c’è, nonostante la classifica, gli enormi limiti tecnici della squadra e l’inesperienza di Bocchetti, nuovo allenatore e anche allenatore nuovo, alla sua prima panchina professionistica. La speranza si nutre proprio delle ragioni che hanno portato Setti a scegliere Bocchetti. Il quale, con due allenatori (Di Francesco e Cioffi) a libro paga e il ridimensionamento estivo, è certamente una scelta di ripiego (altrimenti firmava Andreazzoli), ma che è stato voluto dal gruppo storico. E questo crea una cerniera tra lui e lo spogliatoio e una barriera con il resto del mondo, compresa qualche figura in sede.

Insomma, Bocchetti è già forte in partenza, mentre Marroccu lo è senz’altro meno. Non male per (ri)cominciare.

SETTI SCHERZA CON IL FUOCO, MA CIOFFI NON SIA LA VITTIMA SACRIFICALE

Paracadutati di tutta Italia unitevi. Il riferimento oggi corre soprattutto alle elezioni politiche e a una legge elettorale che permette, con buona pace della territorialità, di calare dall’alto i candidati in collegi che nulla c’entrano con la città di origine o di residenza.  

Parlando di cose più serie, quindi di calcio (“la cosa più seria tra le meno serie” Sacchi dixit), uno degli antesignani del paracadute non può invece che essere considerato Maurizio Setti, che ha già usufruito del notevole “premio a perdere” nel 2016 e nel 2018. E, facendo gli scongiuri, mica pensiamo che gli servirà anche nel 2023. Lo ripetiamo, per quanto il presidente del Verona abbia colpevolmente smantellato la squadra, in questa mesta e modesta serie A tre più scarse di noi sulla carta ci sono.

Epperò, va detto, Setti ha scelto ancora una volta di giocare con il fuoco, come fece nella disgraziata stagione di Pecchia. Poi sappiamo quanto fu difficile (e fortunoso!) risalire con Aglietti, ché se fosse stato per Grosso… Il paracadute infatti ti aiuta una stagione, ma se non risali subito poi entri in un ginepraio che sai dove cominci ma non sai dove finisci.

Imputo a Setti non tanto di aver venduto (ci sta). E non voglio nemmeno tornare a soffermarmi sul “a quanto” lo ha fatto (evidentemente sotto-prezzo, ma qui entreremmo in un discorso più ampio sulla debolezza negoziale del Verona al calciomercato). L’errore davvero imperdonabile, perché nulla c’entra con il vil denaro, è la gestione, il come tutto ciò è avvenuto. Insomma, i modi e i tempi, perché quei modi e quei tempi hanno cambiato le carte in tavola last minute all’allenatore e hanno dato un messaggio pericoloso ai big poi rimasti: illudendoli che il Verona fosse una stazione di passaggio, li si è resi scontenti. Ciò ha creato per forza di cose qualche squilibrio nello spogliatoio. E le imbarazzanti dichiarazioni estive del nuovo direttore sportivo non hanno certamente contributo a rasserenare il clima.    

E qui veniamo all’allenatore. Non è difendibile in eterno, sia chiaro (e sulle sue incertezze ci torneremo), ma prima di metterlo in discussione deve essere proprio la società a impegnarsi per riportare tranquillità in seno alla squadra. O è stato deciso che, male che vada, è Cioffi la vittima sacrificale?