“Immaginavo quanto fosse conosciuto e rispettato anche in Europa, ma quello che ho visto oggi è difficile da credere. Qui Dražen è Dio”. (Chris Dudley – New York Times, 11 giugno 1993 – da “Gli anni di Dražen Petrović, di Stefano Olivari)
Per me, che ho sempre avuto la pallacanestro slava come punto di riferimento, per passione, determinazione e diffusione del nostro amato sport, il Dio dei canestri, non me ne vorranno tanti amici, è un ragazzino con i ricci e la faccia da impunito, che poi è diventato il più grande giocatore europeo di tutti i tempi.
Il pomeriggio di 27 anni fa, il 7 giugno 1993, Dražen Petrović lasciava i comuni mortali che tanto spesso aveva sbeffeggiato sui parquet di mezzo mondo e volava a smazzare assist in mezzo alle gambe nel paradiso dei canestri.
Nell’estate del 1981 un memorabile viaggio in Vespa assieme ad un amico mi portò fino a Sebenico, città di Petrović. Sono sincero: il reale motivo era una giovane ragazza bionda veronese che trascorreva le vacanze nel centro della Dalmazia, dove era nata la madre. Ma la passione per il basket era già fortissima e quella spedizione “speciale” ci fece scendere lungo tutta la costa adriatica dalmata anche per andare sulle tracce del giovane fenomeno, che all’epoca aveva 17 anni ed era già un predestinato. Alla fine di quell’anno Boscia Tanjević, il c.t. della nazionale jugoslava campione olimpica a Mosca e fresca di titolo europeo a Praga, convocò Petrović nella selezione sperimentale per un tour di partite contro i college americani. Per capire cosa fosse la Jugoslavia di quell’epoca: le medaglie d’oro erano state vinte da gente del calibro di Ćosić, Dalipagić, Delibašić, Radovanović, Kićanović (solo alle Olimpiadi).
Andai in pellegrinaggio al Baldekin, la mitica tana del Šibenka: 1.200 posti che diventavano 3.000 per le partite di cartello. Palazzetto intitolato a Ivo Lola Ribar, eroe della Resistenza e vecchio collaboratore di Tito. Per tutti però Baldekin, la zona di Sebenico dov’era stato costruito.
Campi all’aperto ovunque e dappertutto ragazzi che giocavano a basket ad ogni ora del giorno e della notte. Anche per quello Petrović è diventato un campione, e come lui tanti altri. Con le chiavi della palestra a disposizione per andare a tirare all’alba prima di andare a scuola e un’ossessione che ricorda tanto quella di MJ.
L’anno dopo, marzo 1982, ho potuto ammirare dal vivo il “Mozart dei canestri”, come era stato ribattezzato da Enrico Campana sulla Gazzetta dello Sport per il suo modo irriverente di giocare. Finale di Coppa Korać a Padova. Limoges-Sebenico. I francesi vincono in rimonta 90-84 e il 18enne fenomeno alza la maglia numero 4 per coprire le lacrime di delusione.
Nell’aprile del 1983 al Baldekin una delle più grandi emozioni della mia vita: la decisiva gara-3 della finale dei playoff del campionato slavo. Un muro di maglie arancioni a sostenere Sebenico contro il Bosna Sarajevo (che 4 anni prima aveva fermato il sogno di Varese nella decima e ultima finale consecutiva di Coppa dei Campioni).
Ultima azione. Bosna avanti 81-82. Ljubojević serve Dražen che attacca Radovanović ma non segna. Sirena. La panchina del Bosna si fionda in campo per festeggiare, nella bolgia l’arbitro Hadžić s’inventa un fallo di Radovanović su Petrović. Due tiri liberi: Dražen fa 2/2 e tocca quota 40 punti (a 19 anni). Vittoria 83-82 Šibenka che diventa campione di Jugoslavia.
Il risveglio per la città di Sebenico però non è così trionfale. Il Bosna ha presentato reclamo sostenendo che il fallo è stato commesso a tempo scaduto. Ed entra in ballo la politica. La Federazione è presieduta da un macedone, a Sarajevo (Repubblica di Bosnia-Erzegovina) sostengono che l’altro arbitro, un croato, abbia voluto favorire Sebenico, che è in Croazia.
Già allora (Tito era morto solo 3 anni prima) i venti del nazionalismo si fanno sentire. La Federazione squalifica incredibilmente l’arbitro che ha fischiato il fallo decisivo e decide che la partita deve essere ripetuta, addirittura in campo neutro, a Novi Sad, capitale della Voivodína molto lontana da Sebenico e assai più vicina a Sarajevo. Tutto questo nonostante le immagini televisive dimostrino in modo inequivocabile che il fallo su Petrović è stato commesso prima della sirena.
Dražen è il più determinato a non rigiocare la partita: “Non regalerò la mia vittoria”. Così il Šibenka non si presenta a Novi Sad dove in un clima surreale la ripetizione della “bella” della finale comincia con la palla a due, ma una sola squadra in campo e finisce subito dopo. 2-0 a tavolino, Bosna Sarajevo campione di Jugoslavia.
In quell’estate del 1983 Dražen Petrović approderà nella nazionale “vera”, eliminata in semifinale agli europei dell’Italia dopo una furibonda rissa, scoppiata proprio per una reazione di Dražen a Gilardi e che coinvolge, tra gli altri, Kićanović, Meo Sacchetti (attuale c.t. azzurro), Moka Slavnić, Dino Meneghin. Pugni, calci, le forbici impugnate che diventano il simbolo di quel memorabile parapiglia. L’Italia poi diventerà campione d’Europa battendo la Spagna in finale.
Dopo il passaggio al Cibona Zagabria, con due Coppe dei Campioni (a 37 punti di media), due Coppe delle Coppe, Dražen vince altre due volte (4 di fila) lo stesso trofeo con il Real Madrid e la finale del 1989 ad Atene contro Caserta è in manifesto del dominio europeo di Petrović. 60-57 all’intervallo. 102-102 pari al 40’, con Rigas che deruba Gentile e la squadra di Marcelletti negando i due liberi decisivi. Alla fine 117-113 Real. 62 punti di Petrović con 11 punti su 15 nell’overtime.
Poi sono arrivati la NBA, Portland (perdendo la finale del ’90 con Detroit), i Nets, il Mondiale vinto in Argentina sempre nel 1990, lo strappo con Divac raccontato in Once Brothers, la guerra in Jugoslavia e quel maledetto viaggio verso la Croazia passando per la Germania. La fidanzata che guidava l’auto, Klara Szalantzy, poi si è sposata con Oliver Bierhoff. Ma questa è un’altra storia.