Sono le 7.31 del 13 ottobre 2014. Sono in piedi da mezz’ora e sto preparando mio figlio Donato per portarlo al nido. Si illumina il telefono. Il messaggio è di Stefano Edel. “Furio Stella è morto poco dopo le 2 all’ospedale di Monselice. Sono distrutto”. Mi siedo. Mi manca il respiro. Non riesco nemmeno a piangere, a buttare fuori il dolore. Mi rimane tutto dentro, incastrato tra il cuore che batte come un tamburo bastonato e la bocca dello stomaco irrimediabilmente chiusa. Sapevo che non mancava molto a quel momento, sapevo che il male che ti portavi dentro non saresti riuscito a sconfiggerlo nonostante una forza d’animo che pochissimi hanno, ma cosa vuoi che ti dica Furio: non si è mai pronti al distacco senza ritorno. Mai.
Mi siedo sul divano. Guardo verso l’alto. E ti vedo, Furio. Vedo i tuoi occhi azzurri e il tuo sorriso appena accennato. Poi ti sento sghignazzare. Probabilmente stavi raccontando a Dio qualcosa della tua vita. Una vita piena, intensa, mai banale, che sei riuscito a trasferire in tutta la sua originalità nel mestiere di giornalista, che ti apparteneva come a pochi di noi. Noi che abbiamo cercato di imparare da te ma non potevamo raggiungere le tue vette, pur provando a seguire il tuo esempio. Vogliamo parlare delle vignette che disegnavi? Ironiche quanto gli articoli che scrivevi. Una volta me ne mandasti una. Stavo intervistando Antonio Di Nardo e di me si vedevano solo gli stivaloni che erano lunghi quanto Di Nardo stesso. Era senza parole. Non servivano. Faceva ridere così.
E le tue interviste? A te non fregava nulla del canovaccio tipico del calciatore: “abbiamo giocato con il coltello tra i denti”, “dobbiamo dare il centodieci per cento”, “ci aspetta la partita della vita”. Se provavo a inserire in un mio articolo anche solo mezzo virgolettato del genere alzavi il telefono e mi dicevi: “Martina, con queste notizie io mi ci pulisco il c… Riscrivi il pezzo per favore e fai in modo che i nostri lettori possano rilassarsi cinque minuti nel leggerlo. Con queste banalità gli facciamo venire l’orchite”. Per te “la partita della vita” era provare ad andare oltre le frasi fatte senza alcun contenuto emotivo.
Già, le emozioni. Tu ne regalavi anche solo chiedendo a una persona come stava, mettendole la mano sulla spalla o abbracciandola. Figuriamoci quante se ne respiravano nei tuoi pezzi, quando andavi oltre l’uomo in mutande che rincorre una sfera rotante. Raccontando, mai banalmente, che giochi faceva da piccolo, quanti fratelli aveva, se aveva la morosa, se gli piaceva cucinare, se suonava uno strumento, se aveva un tatuaggio e il suo significato, in un’epoca in cui faceva notizia averne uno, non come adesso che fa notizia non averne, di tatuaggi.
E le tue pagelle? A volte brevi e spietate (La Grotteria in un Pro Patria-Padova: “sperduto nelle pampas bustocche. Voto 5”; Un attaccante di cui non ricordo il nome al termine di una partita vinta per pura fortuna negli ultimi minuti: “e dovremmo dargli 6 solo perché ha fatto un gol di schiena per grazia ricevuta? Pussa via. Voto 5”), altre volte quasi dissacranti (Thomas Fig che rientra in campo dopo un lungo infortunio: “Ah finalmente un po’ di Fig in campo: voto 6”, senza contare che Fig era entrato al posto di Seno…).
Se un calciatore ti piaceva perché ci vedevi un talento particolare (ricordo ad esempio il brasiliano Robert, primi anni 2000), te lo prendevi da parte e, come un papà, provavi a dargli qualche consiglio. Di cuore. Appoggiando la penna e il blocco degli appunti per entrare dentro di lui.
Furio caro, potrei andare avanti a scrivere per ore racconti su di te. E non passa giorno in cui il grande dolore per averti perso così presto non sia un po’ attenuato dalla consapevolezza che è stata un’immensa fortuna, umana e giornalistica, per me aver vissuto con te più di 10 anni di lavoro quotidiano. Chissà cosa avresti detto del Coronavirus. Vorrei tanto sapere come l’avresti affrontata questa pandemia. Che spiegazione ti saresti dato, nel tuo essere geniale.
Mi limito qui oggi (magari l’anno prossimo scriverò un altro pezzo) ad un ultimo lato umano. Quando seppi che un male di quelli che non perdonano aveva deciso di attaccarti ti telefonai. Era fine maggio del 2012. “Ciao Furio come stai?”. “Allora Marty – mi rispondesti – bene non sto. Quindi se mi chiami d’ora in poi deve essere o per darmi una buona notizia o per raccontarmi una barzelletta. Ma non chiedermi più come sto. Per quelli nelle mie condizioni sentirsi chiedere ‘come stai’ non è per nulla una gran cosa”. “Aspetto un bambino Furio. E’ un maschio. Si chiamerà Donato e nascerà a dicembre”. “Looooooo (diminutivo di Carlotta, sua moglie, ndr) avevo ragione io: la Marty aspetta un bambino. Che bello. Marty, sono felice con te”.
Non prendevi mai l’aereo, Furio. Le tantissime trasferte insieme le abbiamo fatte tutte a bordo della tua Honda civic grigia, girando principalmente Lombardia, Marche, Emilia Romagna e Toscana. Nell’anno in cui il Napoli era in serie C (2004-2005) pur di non volare hai preso il treno e hai viaggiato di notte. Ora però so che, da quel maledetto 13 ottobre 2014, stai volando in cielo in mezzo alle nuvole. Come il falco che sei sempre stato.
P.S.: avresti compiuto oggi 63 anni. Eri un Ariete. Segno forte, determinato. Un abbraccio infinito a tua moglie Carlotta e a tuo figlio Lenny che il 29 febbraio ti ha reso nonno del piccolo Anthony (che, non vorrei dire, ma ti somiglia un sacchissimo!). Un abbraccio affettuoso anche a Fabio e Carla.