Nove mesi di dolcezza
E adesso che lo storico scudetto è nelle sue mani, scopriamo di colpo quanto sia difficile dir “bravo” al Verona, in maniera originale. Questo impaccio è il più bel complimento che si possa fare alla squadra che ha dominato la stagione con la sua forza, la sua bravura e la sua simpatia. Ci sentiamo quasi disarmati: in tanti mesi di “veronite acuta” gli elogi sono pressoché esauriti. Ma c’è la realtà davanti ai nostri occhi: ed essa, pur nuda di ogni aggettivo, val più di mille squilli di tromba. Caro Verona, goditi questo scudetto: e cerca di restare “grande” o quanto meno all’altezza dell’amore spontaneo che ti sei conquistato.
Anche se la gioia è immensa, noi pensiamo che il “momento magico” di questo scudetto veronese è stato quello del primo approccio, come avviene del resto in ogni incontro d’amore. Nulla si può sostituire alla sensazione dell’attimo in cui si scopre che qualcosa di bello sta maturando, magari un capolavoro. E allora, parlando del Verona, dobbiamo tornare indietro sino ai prodigi dell’autunno, alle vigorose imprese sui campi invernali, alle trionfali sfide con le grandi, alle perentorie risposte ai momenti di incertezza.
Ed esaurito il viaggio scopriamo che questo del Verona è stato uno degli scudetti più lunghi della storia del nostro calcio, centellinato goccia dopo goccia, una domenica dopo l’altra. Una corsa di testa, senza spezzettamenti di ritmo, una impresa non legata a un episodio o a una circostanza, una dolcezza da delibare.
Ecco perché è mancato l’ultimo fremito, quello del traguardo finale. Dove non era arrivata la matematica era giunta la convinzione di tutti.
Lo scudetto era già da tempo il verdetto di un voto plebiscitario. Il resto è stato contorno, diremmo quasi finzione. La stessa stanchezza finale del Verona, il suo piccolo appannamento delle ultime giornate ci appare oggi un atteggiamento rispettoso nei confronti degli altri: come se il Verona non gradisse che i grandi sconfitti della nobiltà calcistica uscissero umiliati.
Una città splendida, paziente e misurata, una società governata con la saggezza antica e con la modernità del nostro tempo, due gagliardi stranieri che han giocato divertendosi senza ridicoli struggimenti psicologici, quattro giocatori di livello medio consegnati alla nazionale, un grande maestro in panchina. Ecco, se un segreto vogliamo proprio trovare, cerchiamolo in questo Osvaldo Bagnoli, personaggio timido, ruvido e amabile, che non ha inventato il calcio dei marziani, ma ha gestito il suo capolavoro come si gestisce una sana fabbrica: idee e lavoro, lavoro e idee. E una spruzzatina di coraggio al momento giusto.
Dietro questo Verona, splendida provinciale, senza storia alle sue spalle, che trionfa nel più bello e più ricco campionato del mondo, c’è in fondo anche un po’ di quella “piccola Italia” delle fatiche e dei prodigi nascosti che si tiene lontana dalle vuote contorsioni della grande e stucchevole vetrina: e tiene in piedi il nostro Paese. Il Verona ne è il simbolo, anche se il significato di un’impresa sportiva non va mai dilatato, né frainteso.
Il Veneto, grande e storica miniera del nostro sport, non aveva mai goduto di una soddisfazione del genere. Questo scudetto applaudito da tutti realizza, quindi, un atto di giustizia, riafferma la credibilità del nostro campionato e dà anche coraggio a chi, sfidando le gerarchie calcistiche, al modello Verona intende accostarsi.
E adesso, che la festa cominci…
Candido Cannavò – La Gazzetta dello sport – lunedì 13 maggio 1985