ORA SÌ SIAMO OPERAI (SENZA RETORICA)

C’è un paradosso nel (bellissimo) Verona dello Juventus Stadium. La nobiltà di un pari in casa di Madama che non accadeva dal 1988, mostra la mutazione di un Verona quest’anno sì davvero operaio. Definizione che l’anno scorso apparteneva alla pigra e conformistica retorica a cui sono condannate a prescindere le neopromosse, quest’anno invece perfettamente calzante.

Juric si è adeguato in fretta ai cambiamenti della rosa: c’è meno tecnica (pensate alla mediana e alla trequarti priva di Veloso e Pessina e dello stesso Amrabat straordinario in entrambe le fasi) e quindi si supplisce con un’aggressività straordinaria, un temperamento encomiabile. Oltre – ma  era arcinoto – a una mirabile organizzazione tattica. Questo spiega il vistoso (e fisiologico) calo degli ultimi 20-25 minuti. Il Verona della passata stagione (in pre-Covid) era invece capace di gestire e di gestirsi sui novanta minuti, a leggere e a cambiare pelle nel corso della partita (giocarne tante in una) con una maturità e un’abilità straordinarie. Perché poteva permettersi di correre meno (ma sempre bene). Ora, se vogliamo, siamo costretti a essere più lineari, a puntare sulla quantità finché i muscoli reggono. Insomma, siamo più “provinciali”.

L’eventuale surplus futuro di qualità – in attesa del mercato del vicino gennaio (Pessina?) – oggi è legato a delle variabili dipendenti: la crescita di condizione di Kalinic e quella in termini di esperienza e concretezza di Colley. E, forse, dal rientro di Veloso in mezzo, che però sappiamo essere giocatore fragile fisicamente e con un anno in più sul groppone.

La classifica permette una certa serenità di lavoro per portare la “macchina” a pieni giri. Sono otto punti, ma nell’analisi tecnica ovviamente sarebbero 6, con una classifica che in quel caso sarebbe allineata al livello preventivato (sopra la zona rossa di 3-4 posizioni). Juric però credo di una cosa sia consapevole ed è giusto che tutti ce la mettiamo  in testa per evitare passi falsi o illusioni: il calcio non è matematica e sebbene possa suonare blasfemo affermarlo, ci saranno avversari meno forti ma più difficili della Juve del mediocre Pirlo, perché tatticamente meno scomposti e con un’identità più delineata.

Non perdiamo di vista la nostra dimensione. Operaia.

JURIC LI HA ZITTITI TUTTI

Ci sono i blablabla, gli “intortati” da Setti, i più realisti del re (o papisti del Papa, fate voi), quelli che scambiano il calcio per la play station e arrivano finanche a dire che “il Verona si è  rafforzato”. Poi, per fortuna, c’è Ivan Juric, il dirompente Juric, che zittisce i pretoriani di Ranzani o gli apologeti del settismo, infinocchiati dalla narrazione ufficiale.

Juric che con maggiore autorevolezza ha detto, sia domenica che ieri sera nel post-Genoa, quello che si era già asserito più modestamente in questo spazio: il Verona esce indebolito dal mercato e si è persa un’occasione rispetto alle possibilità economiche a disposizione. Apriti cielo, sembrava che per taluni avessi commesso reato di lesa maestà. Guai a pensare, guai a prendere atto della clamorosa realtà, vade retro spirito critico.

Certo, come ho scritto e ribadito in tutte le salse, la mediocrità imposta da Setti basterà a salvarsi, quindi dal suo (contabile) punto di vista ha ragione lui. Ma non prendiamoci in giro. Setti ha venduto tanto e bene senza alzare come doveva l’asticella degli investimenti. Come lo studente che si accontenta del 6 quando con un piccolo sforzo potrebbe ambire quantomeno al 7.  Basta guardare l’undici titolare sceso in campo ieri contro un esangue Genoa martoriato dal Covid. E’ il famoso piccolo cabotaggio a cui accennavo nelle settimane scorse. Certamente ci sono dei giovani interessanti (Lovato su tutti), altri giocatori si affermeranno. Ma il punto non è quello: è l’impostazione di fondo, del continuo minimo sindacale, delle perenni scommesse a pochi euro, che è intollerabile.

Affidiamoci a Juric e a un gruppo di giocatori che, mi auguro, potrà ben assortirsi. soffriamo e godiamo con il nostro Verona sul campo. Perché se si butta lo sguardo sui piani alti la realtà è incolore. Con buona pace dei ruffiani e di chi, come gli struzzi, mette la testa sotto la sabbia.

CONSOLIDAMENTO O PICCOLO CABOTAGGIO?

E’ una questione di prospettiva. Dipende, insomma, da come la si guarda. Il Verona, in assoluto, si è indebolito rispetto alla scorsa stagione, tuttavia rimane squadra da salvezza tranquilla (ma meno brillante). E’ scaduto ulteriormente il livello nella media-bassa classifica, quindi Setti ha pensato bene in cuor suo che bastasse poco.

Setti è stato abile, ancora una volta, a far dimenticare in fretta le cessioni eccellenti. Io ne conto cinque tra i titolari del 2019-20 (Kumbulla, Rrhamani, Amrabat, Pessina, Borini). Se vendi in fretta, effettivamente, poi ci si scorda. Infatti, non a caso, siamo qui a valutare solo i nuovi arrivati, cancellando con un tratto di penna chi se n’è andato. Tameze, Ilic, Viera, l’ottimo Benassi fanno Amrabat? C’è qualcuno che può fare le veci dell'(irripetibile) Veloso della prima parte della scorsa stagione?  Chi sulla trequarti oggi ha le qualità di un Pessina o dell'(esoso) Borini?

Partirei appunto dal centrocampo, cuore e polmoni di ogni squadra che si rispetti. Sono arrivati in tanti, ma – Benassi a parte (peraltro giocatore da mediana a tre) – nessuno spicca, almeno rispetto ai predecessori. Troppe incognite che speriamo diventino certezze: ma, al di là di quel che sarà, qualche investimento sicuro andava fatto. Su Pessina, per esempio, era doveroso uno sforzo in più, invece ci si è trovati last minute a elemosinare all’Atalanta un nuovo prestito. Con tutti i soldi incassati dalle cessioni lo trovo, permettetemi, imbarazzante.

In attacco ci siamo rafforzati, non c’è dubbio. Sia chiaro, rispetto al nulla dello scorso anno ci voleva poco, ma Kalinic (ottimo passato remoto, incerto passato prossimo) resta un buon giocatore e con Juric può fare bene. Tuttavia non era la prima scelta (l’obiettivo era Vlahovic) e quindi rimango basito dalle dichiarazioni di Setti che l’ha definita una pazzia costosa. Da quanto sappiamo il croato è arrivato sostanzialmente a parametro zero e il ricco ingaggio (3 milioni netti che aveva nell’ultimo anno di contratto con l’Atletico Madrid) è stato spalmato su un biennale. Tradotto: quello che prendeva Pazzini è stato riversato su Kalinic. Quale pazzia?

In difesa siamo più fragili. Abbiamo perso un fuoriclasse (Kumbulla) e un ottimo giocatore (Rrhamani): non sono arrivati sostituti alla loro altezza. Non lo sono nemmeno Ceccherini e Magnani. Lovato è una (bella) scommessa. Gunter, che era un affannato gregario la scorsa stagione, oggi diventa il leader della difesa. Io una domanda me la farei…

Ma non stupiamoci: Setti quando ha preso il Verona nel 2012 ci ha visto giusto. Oggi nel calcio entrano tanti soldi e se ne possono spendere pochi. Anche in serie A. Senza sogni e con la calcolatrice in mano. E’ il piccolo cabotaggio, lo chiamano consolidamento.

I NOSTRI COLORI E I NOSTRI MASTINI: FORSE IL CLUB HA CAPITO…

Negli anni scorsi, ai tempi di Nike, ho imbastito battaglie e polemiche sulle maglie del Verona. Nel vedere quelle di quest’anno, con il ritorno pure dei mastini (a suo tempo chiedevo di ripristinarli e cancellare il discutibile ovale), ho pensato che si è chiuso positivamente un cerchio, o se volete una brutta parentesi. Già l’anno scorso eravamo tornati ai colori originari, dopo i “rivisitati” blu e giallo di Nike, quest’anno però Macron ha fatto un lavoro ancora più significativo.

Nei tempi in cui criticavo la società per certe scelte cromatiche qualche “tifoso” mi accusava di imbastire polemiche sul nulla, o si derubricavano le mie tesi ad “argomenti estivi” (sic), oppure mi si diceva che “l’importante è stare in serie A”. Quest’ultima chiosa è la più inquietante se detta da un “tifoso”, perché l’anima del club è più importante di qualsiasi categoria (e i tifosi, quelli veri, senza virgolette, lo hanno dimostrato ai tempi della C).

Invece i colori sono importantissimi, l’abito fa il monaco (cit. Manuel Fantoni, “Borotalco”), soprattutto in un club come il Verona Hellas la cui matrice identitaria è iconica, determinante, è il senso di tutto. Tradotto: se il Verona si annacqua non ha più senso di esistere. E negli anni scorsi denunciavo questa deriva, per fortuna abbandonata. In un calcio che sta perdendo sempre di più i suoi connotati (si vedano le maglie dei due club con più tifosi, Juventus e Inter) e che si sta omologando in una melassa di nulla, è necessario andare controcorrente. In direzione ostinata e contraria, avrebbe detto De André.  E la società finalmente sembra averlo capito, in ritardo, ma ora forse consapevole.

Il Verona deve distinguersi. E oggi distinguersi significa rimanere se stessi. Perché avere delle certezze è fondamentale. E i nostri colori sono simbolo e sintesi del nostro senso di appartenenza.

TRENT’ANNI DI DESTINI (NON) INCROCIATI DI HELLAS E CHIEVO

Storie parallele. Destini che scorrono. Il Chievo manca la promozione in serie A. E, vista la situazione economica in cui versa la società, pare difficile che Campedelli sia ancora in grado di allestire una squadra per riprovarci. Almeno a breve. Gli auguro di sbagliarmi. Nel frattempo il Verona di Setti, dopo qualche anno difficile e i chiari di luna del salvadanaio (primi tre anni espansivi, poi la spending rewiev di Fusco), pare aver trovato una sua dimensione finanziaria in serie A, con il rinnovo milionario di Juric e un mercato che, pur senza follie, aumenterà la fascia economica d’ingaggio dei calciatori.

Storie di società. Coincidenze, probabilmente. Sarà casuale, ma negli ultimi trent’anni anni all’ascesa dell’una (il Chievo) è corrisposto la discesa dell’altra (il Verona). Il Chievo comincia la sua scalata nei primi anni 90 (ma i prodromi ci sono già a fine anni 80), nello stesso periodo l’Hellas vive l’onta del fallimento. Mentre a metà anni 90 il Chievo di Malesani (e Baldini) preparava la scalata alla A poi compiuta da Delneri , il Verona viveva in controluce fra anni anonimi (Mutti) e saliscendi tra A e B (Perotti-Cagni). Nei primi 2000 all’Hellas la breve illusione pastorelliana e l’unica fase storica di incrocio potente tra i due club, culminato con i derby in serie A nel 2001-02. Il resto (per capirci dal 2002 al 2011) è stato soprattutto buio per il Verona e la “favola” Chievo, il primo sprofondato in C e il secondo stabile in A.

Dal 2011, lentamente (come lento fu il trend inverso nei primi 90), la ruota ha (casualmente, ca va sans dire) cominciato a girare. Il Verona in due anni si è ripreso la B e poi la A, il Chievo ha registrato un lento declino, con salvezze risicate, cessioni, zero investimenti, la perdita dei suoi uomini migliori (Sartori su tutti), i guai delle plusvalenze.

Sovvengono, ora, ed è abbastanza ironico pensarci, quelle dichiarazioni di uomini delle istituzioni (negli anni d’oro del Chievo) che dicevano che Verona due squadre in serie A non se le può permettere. Il sottoscritto non è mai stato d’accordo e auguro al Chievo di poterci riprovare. Ma la storia, la cronistoria direi, dice esattamente questo. Sarà una coincidenza,  chiaramente. Ma se per un quarto di secolo il trend è stato favorevole al Chievo, oggi tutto sembra favorire l’Hellas, che si è ripreso il primato tecnico e finanziario della città (quello sentimentale non è mai stato in discussione).

Così è se vi pare.

SASSUOLO INDICATIVA. SETTI RIFLETTA

Serbatoio in riserva. Lo ha lasciato intendere, neanche troppo velatamente, ieri sera Juric nel dopo Sassuolo. Il resto lo fa una rosa troppo risicata nei giocatori di qualità. Della serie: oltre i titolari poco o nulla. Il Verona non può permettersi di perdere Pessina (come con Cagliari e Napoli), Faraoni (Adjapong non è all’altezza si è visto ieri), o Borini, e di avere un cardine come Veloso nelle condizioni viste al Mapei Stadium.

Questo è indicativo non solo o non tanto in una eventuale lotta per l’Europa League (difficile, ma siamo pur sempre ancora a tre punti dal Milan), ma anche proiettandoci alla prossima stagione: date le partenze certe (Kumbulla, Rrahmani, Amrabat), quelle probabili (Pessina e Borini) e quelle possibili (Lazovic e Faraoni), la squadra andrà rifondata pesantemente. In questa situazione è difficile poter pensare che Juric rimanga e dopo la sconfitta con il Napoli il tecnico di Spalato ha malcelato le sue perplessità: “Qua due giocatori se ne sono già andati e un terzo è sul mercato…” ha detto riferendosi proprio a Amrabat, Rrahmani e Kumbulla.

Il Verona tra le plusvalenze dei tre giocatori e i diritti tv incasserà più o meno cento milioni di euro: eppure sinora stiamo assistendo solo a un mercato in uscita e alle solite voci di prestiti. Forse è presto, per carità, e mi auguro sia un falso allarme, ma i segnali al momento non sono entusiasmanti.

Resta intanto da dare un senso fino in fondo a questo campionato. Il Verona di Juric ha conquistato l’obiettivo stagionale con largo anticipo, resta da capire cosa potrà succedere in queste dieci partite. Se non è l’Europa sarebbe bello porsi l’obiettivo dell’ottavo posto. Sarebbe il quarto miglior piazzamento della storia del Verona, il migliore esclusa l’era Bagnoli. Il capolavoro di Juric così resterebbe scolpito nella pietra.

 

EUROPA? SETTI CI CREDA

Profumo di Europa. Juric ormai non si trattiene più: “Datemi due punti e poi…”. Poi ne parliamo, sottinteso. Finisse il campionato oggi da settimi saremmo qualificati ai preliminari di Europa League, poiché il Napoli sesto è già qualificato di diritto per aver vinto la Coppa Italia.

Il sottoscritto, sapete, ci credeva prima della ripartenza (mai avuto dubbi sullo stato fisico del Verona), figurarsi dopo la vittoria contro il Cagliari – una prima mezz’ora sontuosa, fino all’incredibile espulsione di Borini. L’Hellas ha confermato quello che ha sempre fatto vedere: squadra matura, intelligente, che non corre tanto come vuole la vulgata, ma che corre bene, grazie a un’impostazione tattica perfetta. La nota lieta è aver ritrovato Badu: ecco lui sì che mi ha felicemente smentito, non pensavo potesse tornare utile dato il lungo stop, invece il ghanese ha dimostrato gamba, fondo per tutti i 90 minuti. Nel secondo tempo è stato forse il più bravo di tutti, ma sul piano tecnico il suo talento è indiscutibile.

Domani ospitiamo il Napoli. Siamo sfavoriti: loro giungono a Verona riposati (dettaglio non da poco) e sull’onda della vittoria in Coppa Italia. Il Verona invece ha ancora qualche problemino a livello di infortuni. E’ uno scontro diretto e non mi dispiacerebbe un pareggio.

Appello alla società: creda fermamente nella lotta per l’Europa League, si dia un segnale anche ai calciatori concordando dei premi. Sono occasioni che non capitano ogni anno e sappiamo come funziona nel calcio in tutto il mondo: se non dai un segnale (anche economico) alla squadra il rischio è un rilassamento inconscio. Non varchiamo i confini da 32 anni: sarebbe una pagina storica. Ora la differenza la può fare Setti.

 

QUELLI CHE L’EUROPA…NO

Dov’eravamo rimasti? Ah sì con il Verona in piena lotta per l’Europa. L’emergenza sanitaria, l’ondata pandemica hanno sospeso il tempo, proiettandoci in un altrove di ansie e preoccupazioni che non contemplavano le robette prosaiche del pallone, quasi ci fosse una damnatio memoriae su tutto il circo pagano che prima ci sembrava indispensabile. Ora si riprende e il pensiero ritorna: provare fino alla fine a dare un senso a un campionato nel quale l’obiettivo della salvezza è già stato virtualmente raggiunto. Il Verona può giocarsela per l’Europa? Senza infortuni sì, questa è l’unica grande incognita. Mentre non credo a un calo fisico, e (mi auguro almeno) nemmeno a giocatori distratti dal mercato o dalle future destinazioni.

Quelli che davvero fatico a capire sono i tifosi…ragionieri. Intendiamoci, sono una minoranza, ma piuttosto chiassosa sui social. Mi riferisco a coloro che preferirebbero che l’Hellas non si qualificasse all’Europa League. Confutata la tesi dell’anticipo della preparazione che sballerebbe i programmi (i nuovi calendari non prevedono pausa tra un campionato e l’altro e quindi la classica preparazione pre-season non ci sarà per nessuno), ora si fa strada quella dell’accesso in Europa League che aumenterebbe il costo degli ingaggi dei giocatori a fronte di entrate solo di qualche milione di euro. Questo ragionamento è la sublimazione massima del tifoso…contabile.

Poi non ci lamentiamo, allora, se Setti per anni ce l’ha menata con lo slogan “prima il bilancio” per giustificare stagioni e squadre indegne: se il tifoso rinuncia in partenza alle emozioni, a sognare, allora possiamo chiudere qua la baracca e andarcene a casa. Che facciamo, quindi? Mettiamo in cascina i punti che ci rimangono per la fatidica (e ridicola, dato che ci si salva ormai da “secoli” a molto meno) quota 40 e poi giochiamo le partitelle del giovedì?

E’ vitale puntare sempre più in alto, anche perché sul piano tecnico le possibilità ci sono. Abbiamo un signor allenatore e un undici titolare con 6-7 giocatori da parte sinistra della classifica. Siamo il Verona e sappiamo pure che certe possibilità non capitano tutti gli anni. Invece constato che c’è qualcuno che ama per definizione il piccolo cabotaggio e mi sembra di sognare. Sono i ragionieri con le sciarpe, anche loro vittime in qualche modo del calcio moderno nel quale tutto sembra precostituito. Io dico invece: proviamoci fino in fondo. L’Europa è un pensiero troppo bello per poterlo abbandonare.

DA QUEL 1985 NON SIAMO PIÙ UNA PROVINCIALE

La mia generazione…ha perso. Scusate se cito, un po’ a manica larga, Giorgio Gaber: il fatto è che quelli della mia classe (1980) hanno ricordi sfocati, sfumati dello scudetto. Ce lo siamo perduto, ecco, per nulla vissuto. Il 12 maggio 1985 avevo 4 anni e mezzo. Ricordo qualcosa della sera del 12, un po’ di più del pomeriggio del 19 con l’Avellino. Abbiamo perso, nel senso che ce lo siamo persi, eppure non abbiamo mai dimenticato la rotta, non abbiamo mai perso la bussola, dirigenti infastiditi non sono mai riusciti a disorientarci sul significato autentico di quell’impresa.

Noi siamo la prima generazione ad aver seguito l’onda lunga, accarezzati nella seconda metà degli anni 80 (il mio primo Verona consapevole è quello del 1987-88) da un recente passato glorioso e un presente già crepuscolare. Siamo stati i primi eredi, i primi a convivere con il passaparola. Allora, quantomeno, era tutto fresco, i baracchini dello stadio (oggi, da troppo tempo, morti e sepolti, spazzati via dal marketing) vendevano ancora gadget tricolore, qualche eroe scudettato giocava ancora con noi (Volpati, Di Gennaro, Fontolan, Sacchetti, nel 1988-89 Galderisi era tornato), l’aria in città era ancora influenzata da quel successo. Insomma, non abbiamo visto, ma sapevamo bene.

Noi siamo la generazione crepuscolare. Quella non del brutto, ma del bello che sfiorisce: l’eliminazione di Brema, la retrocessione di Cesena, l’addio di Bagnoli, il fallimento.  Questo, credo, ci abbia sempre un po’ condizionato: fuori da ogni epica, che fosse lo scudetto, o perfino la serie C, perennemente lì nel mezzo, nel limbo, a sbiadire, calcisticamente scazzati e delusi, tra anni Novanta a lungo mediocri, né carne né pesce.  Eppure siamo qui e ci siamo sempre stati. Sapevamo, nel crepuscolo, che noi del Verona eravamo comunque diversi dagli altri per quello scudetto di pochi anni addietro. Ce lo avevano raccontato i nostri padri e le nostre madri e noi non lo abbiamo mai dimenticato, nemmeno quando – molti anni dopo –  hanno provato a farcelo dimenticare.

Oggi sono 35 anni da quel 12 maggio di Bergamo. Eravamo bambini che adesso abbracciano per la prima volta gli anta. Quello scudetto, per la mia generazione, è sempre rimasto pietra miliare della memoria e segno d’identità di quel che siamo: mica solo una provinciale ma qualcosa di più, come dice Volpati; club blasonato, come ricorda Tricella. Chi comanda oggi dovrebbe ricordarselo sempre, ma ancor prima dovremmo ricordarcelo noi, perché negli anni scorsi qualche cedimento c’è stato anche in una piccola parte del popolo gialloblu, quasi che qualcuno volesse sminuire o ridurre a parentesi quell’impresa nella storia dell’Hellas.  Certo, i più giovani sono stati risucchiati da un’altra epica (Piacenza, l’inferno della C), eppure negli anni più difficili di Setti  il tentativo in atto di qualcuno (forse solo sui social e blog dei vari siti, non lo so) era giustificare la mediocrità quasi fosse normale per la storia del Verona, come se quello scudetto fosse una parentesi e non contasse nel blasone e quindi nello standard accettabile e rispettabile da mantenere in campo e in società.

Oggi, fortunatamente, il clima è cambiato, ma è sempre meglio restare vigili e soprattutto muovere un passo decisivo nella consapevolezza di ognuno: considerare definitivamente e senza discussioni quello scudetto non solo come un ricordo, ma come un vero e proprio patrimonio di memoria, con annessi onori e oneri. Quello scudetto alza la soglia e innalza il blasone, più potente di tutto e di tutti. Il Verona, da allora, è qualcosa di oltre e di altro.

Infine: questo è il primo anniversario senza Roberto Puliero, la voce, l’anima narrativa di quello scudetto. L’ho pensato tutto il giorno e mi sono pure reso conto che la città che conta in questi mesi dalla sua morte non lo ha ricordato abbastanza. Senza di lui è un anniversario più triste, ma la sua figura risplende: Roberto è nel nostro pantheon, una perla unica che altri non hanno. Anche per questo siamo il Verona.

 

GIORNI DI (BUONI) PENSIERI

Il titolo è dichiaratamente ispirato a quell’immenso Maestro che è stato Gianni Mura, titolare di una strepitosa rubrica domenicale su Repubblica: “Sette giorni di cattivi pensieri”. Ma siccome non faccio il verso ai Maestri (è come bestemmiare in chiesa!) decido che i miei pensieri saranno buoni.  Mura ci ha lasciato una settimana fa e la notizia mi ha rattristato molto, non bastasse il momento che stiamo vivendo. Non l’ho mai conosciuto, purtroppo o per fortuna (mai avvicinare i propri miti, è la mia regola), ma conosco bene chi gli è stato amico. Ora però la tristezza fa posto alla gratitudine: leggevo Mura durante il Tour de France (passione assoluta comune), ricordo quelle mattine estive da ragazzino in vacanza da scuola, prima di andare in fabbrica, o il periodo universitario a Padova mentre preparavo la sessione di esami di settembre: a luglio su Repubblica trovavi il suo paginone sul Tour, a fianco quello di Gianni Clerici sul Wimbledon. Quanta bellezza. Sono grato a Mura: se scrivo, se mi sono appassionato della parola lo devo a quelli come lui.

C’è del chiarore anche nel video postato da Zaccagni su Instagram. Zac che corre, Zac guarito. E’ un segnale luminoso in questo buio, ci rimette di buonumore. Giocatore generoso, romagnolo esuberante e innamorato della vita, ma anche un po’ veronese adottivo. Un’immagine da conservare nella mente. Ti aspettiamo Zac.

Ho letto ieri sulla Gazzetta le parole del ministro dello Sport Spadafora: “Le previsioni che facevano pensare di riprendere a fine aprile, inizio maggio le competizioni sono state un po’ troppo ottimistiche” ha detto. Ma va? Che tenero, l’ha capito persino lui. La settimana scorsa firmavo su questa testata un articolo in cui definivo la volontà di Spadafora di riprendere il 3 maggio un ipotesi lunare, fuori dal mondo.  Forse Spadafora parlava pressato da qualcun altro (Lotito? De Laurentis?), bene però che stia finalmente scendendo dal pero ho pensato nel leggere la retromarcia. Pia illusione, Spadafora con una finta di corpo (in)degna di Garrincha, due righe sotto ci ha sorpreso ancora: “Rispetto all’ipotesi del 3 maggio oggi sono molto dubbioso”. C’ha ancora i dubbi lui…povera stella, anima inquieta. Ma gli vogliamo bene, l’ho detto sopra, oggi sono buono.

Sapete che idea mi son fatto io? Nella migliore delle ipotesi si riprende l’attuale campionato dopo la seconda metà di giugno (a porte chiuse), si gioca ogni due-tre giorni (stile Nba) e si chiude nel giro di un mese. Niente ferie e via con la nuova stagione a metà agosto per arrivare agli Europei 2021.  L’alternativa è che si annulli tutto, come ha detto il presidente dell’Aic Tommasi e come ha confermato alla Gazzetta il potentissimo agente Fifa Branchini.  Poi, come ha sottolineato Prandelli, “non è che si può passare dal cimitero allo stadio nel giro di due giorni”. Nonostante lo dica Prandelli non è retorica: si chiama minimo comun pudore. Voglio pensare che tutti i presidenti dei club ci arrivino. Non è difficile.

Mi direte, ma il calcio è un’azienda. Certo e aggiungo: al netto dei club milionari di serie A, pensate alle società di B e C. Vanno tutelate, per farlo si andrà verso la sospensione degli stipendi per il periodo di inattività e la proroga dei contratti in scadenza a giugno (se i campionati dovessero ripartire). Detto questo, guardiamo in faccia alla realtà: a fine emergenza ci sarà mezzo Paese in ginocchio, qualche milione di persone che sono in cassa integrazione o che il lavoro lo hanno perso. Fuori da ogni demagogia: il calcio è nel calderone, né più né meno.

Sia chiaro, il pallone deve tornare a rotolare. Guai a chi dice che non è importante. Il calcio è fondamentale, è un collettore sociale, è uno svago, è un rito laico nazional-popolare che può (deve) aiutare moralmente il Paese. Non va fatto ripartire in tempi brevi (come vorrebbero i Lotito), ma in tempi ragionevoli, cioè appena è possibile e moralmente accettabile. Ma andrà fatto ripartire. Sarà un segnale di speranza e di ripresa. Ce la faremo.