TRENT’ANNI DI DESTINI (NON) INCROCIATI DI HELLAS E CHIEVO

Storie parallele. Destini che scorrono. Il Chievo manca la promozione in serie A. E, vista la situazione economica in cui versa la società, pare difficile che Campedelli sia ancora in grado di allestire una squadra per riprovarci. Almeno a breve. Gli auguro di sbagliarmi. Nel frattempo il Verona di Setti, dopo qualche anno difficile e i chiari di luna del salvadanaio (primi tre anni espansivi, poi la spending rewiev di Fusco), pare aver trovato una sua dimensione finanziaria in serie A, con il rinnovo milionario di Juric e un mercato che, pur senza follie, aumenterà la fascia economica d’ingaggio dei calciatori.

Storie di società. Coincidenze, probabilmente. Sarà casuale, ma negli ultimi trent’anni anni all’ascesa dell’una (il Chievo) è corrisposto la discesa dell’altra (il Verona). Il Chievo comincia la sua scalata nei primi anni 90 (ma i prodromi ci sono già a fine anni 80), nello stesso periodo l’Hellas vive l’onta del fallimento. Mentre a metà anni 90 il Chievo di Malesani (e Baldini) preparava la scalata alla A poi compiuta da Delneri , il Verona viveva in controluce fra anni anonimi (Mutti) e saliscendi tra A e B (Perotti-Cagni). Nei primi 2000 all’Hellas la breve illusione pastorelliana e l’unica fase storica di incrocio potente tra i due club, culminato con i derby in serie A nel 2001-02. Il resto (per capirci dal 2002 al 2011) è stato soprattutto buio per il Verona e la “favola” Chievo, il primo sprofondato in C e il secondo stabile in A.

Dal 2011, lentamente (come lento fu il trend inverso nei primi 90), la ruota ha (casualmente, ca va sans dire) cominciato a girare. Il Verona in due anni si è ripreso la B e poi la A, il Chievo ha registrato un lento declino, con salvezze risicate, cessioni, zero investimenti, la perdita dei suoi uomini migliori (Sartori su tutti), i guai delle plusvalenze.

Sovvengono, ora, ed è abbastanza ironico pensarci, quelle dichiarazioni di uomini delle istituzioni (negli anni d’oro del Chievo) che dicevano che Verona due squadre in serie A non se le può permettere. Il sottoscritto non è mai stato d’accordo e auguro al Chievo di poterci riprovare. Ma la storia, la cronistoria direi, dice esattamente questo. Sarà una coincidenza,  chiaramente. Ma se per un quarto di secolo il trend è stato favorevole al Chievo, oggi tutto sembra favorire l’Hellas, che si è ripreso il primato tecnico e finanziario della città (quello sentimentale non è mai stato in discussione).

Così è se vi pare.

SASSUOLO INDICATIVA. SETTI RIFLETTA

Serbatoio in riserva. Lo ha lasciato intendere, neanche troppo velatamente, ieri sera Juric nel dopo Sassuolo. Il resto lo fa una rosa troppo risicata nei giocatori di qualità. Della serie: oltre i titolari poco o nulla. Il Verona non può permettersi di perdere Pessina (come con Cagliari e Napoli), Faraoni (Adjapong non è all’altezza si è visto ieri), o Borini, e di avere un cardine come Veloso nelle condizioni viste al Mapei Stadium.

Questo è indicativo non solo o non tanto in una eventuale lotta per l’Europa League (difficile, ma siamo pur sempre ancora a tre punti dal Milan), ma anche proiettandoci alla prossima stagione: date le partenze certe (Kumbulla, Rrahmani, Amrabat), quelle probabili (Pessina e Borini) e quelle possibili (Lazovic e Faraoni), la squadra andrà rifondata pesantemente. In questa situazione è difficile poter pensare che Juric rimanga e dopo la sconfitta con il Napoli il tecnico di Spalato ha malcelato le sue perplessità: “Qua due giocatori se ne sono già andati e un terzo è sul mercato…” ha detto riferendosi proprio a Amrabat, Rrahmani e Kumbulla.

Il Verona tra le plusvalenze dei tre giocatori e i diritti tv incasserà più o meno cento milioni di euro: eppure sinora stiamo assistendo solo a un mercato in uscita e alle solite voci di prestiti. Forse è presto, per carità, e mi auguro sia un falso allarme, ma i segnali al momento non sono entusiasmanti.

Resta intanto da dare un senso fino in fondo a questo campionato. Il Verona di Juric ha conquistato l’obiettivo stagionale con largo anticipo, resta da capire cosa potrà succedere in queste dieci partite. Se non è l’Europa sarebbe bello porsi l’obiettivo dell’ottavo posto. Sarebbe il quarto miglior piazzamento della storia del Verona, il migliore esclusa l’era Bagnoli. Il capolavoro di Juric così resterebbe scolpito nella pietra.

 

EUROPA? SETTI CI CREDA

Profumo di Europa. Juric ormai non si trattiene più: “Datemi due punti e poi…”. Poi ne parliamo, sottinteso. Finisse il campionato oggi da settimi saremmo qualificati ai preliminari di Europa League, poiché il Napoli sesto è già qualificato di diritto per aver vinto la Coppa Italia.

Il sottoscritto, sapete, ci credeva prima della ripartenza (mai avuto dubbi sullo stato fisico del Verona), figurarsi dopo la vittoria contro il Cagliari – una prima mezz’ora sontuosa, fino all’incredibile espulsione di Borini. L’Hellas ha confermato quello che ha sempre fatto vedere: squadra matura, intelligente, che non corre tanto come vuole la vulgata, ma che corre bene, grazie a un’impostazione tattica perfetta. La nota lieta è aver ritrovato Badu: ecco lui sì che mi ha felicemente smentito, non pensavo potesse tornare utile dato il lungo stop, invece il ghanese ha dimostrato gamba, fondo per tutti i 90 minuti. Nel secondo tempo è stato forse il più bravo di tutti, ma sul piano tecnico il suo talento è indiscutibile.

Domani ospitiamo il Napoli. Siamo sfavoriti: loro giungono a Verona riposati (dettaglio non da poco) e sull’onda della vittoria in Coppa Italia. Il Verona invece ha ancora qualche problemino a livello di infortuni. E’ uno scontro diretto e non mi dispiacerebbe un pareggio.

Appello alla società: creda fermamente nella lotta per l’Europa League, si dia un segnale anche ai calciatori concordando dei premi. Sono occasioni che non capitano ogni anno e sappiamo come funziona nel calcio in tutto il mondo: se non dai un segnale (anche economico) alla squadra il rischio è un rilassamento inconscio. Non varchiamo i confini da 32 anni: sarebbe una pagina storica. Ora la differenza la può fare Setti.

 

QUELLI CHE L’EUROPA…NO

Dov’eravamo rimasti? Ah sì con il Verona in piena lotta per l’Europa. L’emergenza sanitaria, l’ondata pandemica hanno sospeso il tempo, proiettandoci in un altrove di ansie e preoccupazioni che non contemplavano le robette prosaiche del pallone, quasi ci fosse una damnatio memoriae su tutto il circo pagano che prima ci sembrava indispensabile. Ora si riprende e il pensiero ritorna: provare fino alla fine a dare un senso a un campionato nel quale l’obiettivo della salvezza è già stato virtualmente raggiunto. Il Verona può giocarsela per l’Europa? Senza infortuni sì, questa è l’unica grande incognita. Mentre non credo a un calo fisico, e (mi auguro almeno) nemmeno a giocatori distratti dal mercato o dalle future destinazioni.

Quelli che davvero fatico a capire sono i tifosi…ragionieri. Intendiamoci, sono una minoranza, ma piuttosto chiassosa sui social. Mi riferisco a coloro che preferirebbero che l’Hellas non si qualificasse all’Europa League. Confutata la tesi dell’anticipo della preparazione che sballerebbe i programmi (i nuovi calendari non prevedono pausa tra un campionato e l’altro e quindi la classica preparazione pre-season non ci sarà per nessuno), ora si fa strada quella dell’accesso in Europa League che aumenterebbe il costo degli ingaggi dei giocatori a fronte di entrate solo di qualche milione di euro. Questo ragionamento è la sublimazione massima del tifoso…contabile.

Poi non ci lamentiamo, allora, se Setti per anni ce l’ha menata con lo slogan “prima il bilancio” per giustificare stagioni e squadre indegne: se il tifoso rinuncia in partenza alle emozioni, a sognare, allora possiamo chiudere qua la baracca e andarcene a casa. Che facciamo, quindi? Mettiamo in cascina i punti che ci rimangono per la fatidica (e ridicola, dato che ci si salva ormai da “secoli” a molto meno) quota 40 e poi giochiamo le partitelle del giovedì?

E’ vitale puntare sempre più in alto, anche perché sul piano tecnico le possibilità ci sono. Abbiamo un signor allenatore e un undici titolare con 6-7 giocatori da parte sinistra della classifica. Siamo il Verona e sappiamo pure che certe possibilità non capitano tutti gli anni. Invece constato che c’è qualcuno che ama per definizione il piccolo cabotaggio e mi sembra di sognare. Sono i ragionieri con le sciarpe, anche loro vittime in qualche modo del calcio moderno nel quale tutto sembra precostituito. Io dico invece: proviamoci fino in fondo. L’Europa è un pensiero troppo bello per poterlo abbandonare.

DA QUEL 1985 NON SIAMO PIÙ UNA PROVINCIALE

La mia generazione…ha perso. Scusate se cito, un po’ a manica larga, Giorgio Gaber: il fatto è che quelli della mia classe (1980) hanno ricordi sfocati, sfumati dello scudetto. Ce lo siamo perduto, ecco, per nulla vissuto. Il 12 maggio 1985 avevo 4 anni e mezzo. Ricordo qualcosa della sera del 12, un po’ di più del pomeriggio del 19 con l’Avellino. Abbiamo perso, nel senso che ce lo siamo persi, eppure non abbiamo mai dimenticato la rotta, non abbiamo mai perso la bussola, dirigenti infastiditi non sono mai riusciti a disorientarci sul significato autentico di quell’impresa.

Noi siamo la prima generazione ad aver seguito l’onda lunga, accarezzati nella seconda metà degli anni 80 (il mio primo Verona consapevole è quello del 1987-88) da un recente passato glorioso e un presente già crepuscolare. Siamo stati i primi eredi, i primi a convivere con il passaparola. Allora, quantomeno, era tutto fresco, i baracchini dello stadio (oggi, da troppo tempo, morti e sepolti, spazzati via dal marketing) vendevano ancora gadget tricolore, qualche eroe scudettato giocava ancora con noi (Volpati, Di Gennaro, Fontolan, Sacchetti, nel 1988-89 Galderisi era tornato), l’aria in città era ancora influenzata da quel successo. Insomma, non abbiamo visto, ma sapevamo bene.

Noi siamo la generazione crepuscolare. Quella non del brutto, ma del bello che sfiorisce: l’eliminazione di Brema, la retrocessione di Cesena, l’addio di Bagnoli, il fallimento.  Questo, credo, ci abbia sempre un po’ condizionato: fuori da ogni epica, che fosse lo scudetto, o perfino la serie C, perennemente lì nel mezzo, nel limbo, a sbiadire, calcisticamente scazzati e delusi, tra anni Novanta a lungo mediocri, né carne né pesce.  Eppure siamo qui e ci siamo sempre stati. Sapevamo, nel crepuscolo, che noi del Verona eravamo comunque diversi dagli altri per quello scudetto di pochi anni addietro. Ce lo avevano raccontato i nostri padri e le nostre madri e noi non lo abbiamo mai dimenticato, nemmeno quando – molti anni dopo –  hanno provato a farcelo dimenticare.

Oggi sono 35 anni da quel 12 maggio di Bergamo. Eravamo bambini che adesso abbracciano per la prima volta gli anta. Quello scudetto, per la mia generazione, è sempre rimasto pietra miliare della memoria e segno d’identità di quel che siamo: mica solo una provinciale ma qualcosa di più, come dice Volpati; club blasonato, come ricorda Tricella. Chi comanda oggi dovrebbe ricordarselo sempre, ma ancor prima dovremmo ricordarcelo noi, perché negli anni scorsi qualche cedimento c’è stato anche in una piccola parte del popolo gialloblu, quasi che qualcuno volesse sminuire o ridurre a parentesi quell’impresa nella storia dell’Hellas.  Certo, i più giovani sono stati risucchiati da un’altra epica (Piacenza, l’inferno della C), eppure negli anni più difficili di Setti  il tentativo in atto di qualcuno (forse solo sui social e blog dei vari siti, non lo so) era giustificare la mediocrità quasi fosse normale per la storia del Verona, come se quello scudetto fosse una parentesi e non contasse nel blasone e quindi nello standard accettabile e rispettabile da mantenere in campo e in società.

Oggi, fortunatamente, il clima è cambiato, ma è sempre meglio restare vigili e soprattutto muovere un passo decisivo nella consapevolezza di ognuno: considerare definitivamente e senza discussioni quello scudetto non solo come un ricordo, ma come un vero e proprio patrimonio di memoria, con annessi onori e oneri. Quello scudetto alza la soglia e innalza il blasone, più potente di tutto e di tutti. Il Verona, da allora, è qualcosa di oltre e di altro.

Infine: questo è il primo anniversario senza Roberto Puliero, la voce, l’anima narrativa di quello scudetto. L’ho pensato tutto il giorno e mi sono pure reso conto che la città che conta in questi mesi dalla sua morte non lo ha ricordato abbastanza. Senza di lui è un anniversario più triste, ma la sua figura risplende: Roberto è nel nostro pantheon, una perla unica che altri non hanno. Anche per questo siamo il Verona.

 

GIORNI DI (BUONI) PENSIERI

Il titolo è dichiaratamente ispirato a quell’immenso Maestro che è stato Gianni Mura, titolare di una strepitosa rubrica domenicale su Repubblica: “Sette giorni di cattivi pensieri”. Ma siccome non faccio il verso ai Maestri (è come bestemmiare in chiesa!) decido che i miei pensieri saranno buoni.  Mura ci ha lasciato una settimana fa e la notizia mi ha rattristato molto, non bastasse il momento che stiamo vivendo. Non l’ho mai conosciuto, purtroppo o per fortuna (mai avvicinare i propri miti, è la mia regola), ma conosco bene chi gli è stato amico. Ora però la tristezza fa posto alla gratitudine: leggevo Mura durante il Tour de France (passione assoluta comune), ricordo quelle mattine estive da ragazzino in vacanza da scuola, prima di andare in fabbrica, o il periodo universitario a Padova mentre preparavo la sessione di esami di settembre: a luglio su Repubblica trovavi il suo paginone sul Tour, a fianco quello di Gianni Clerici sul Wimbledon. Quanta bellezza. Sono grato a Mura: se scrivo, se mi sono appassionato della parola lo devo a quelli come lui.

C’è del chiarore anche nel video postato da Zaccagni su Instagram. Zac che corre, Zac guarito. E’ un segnale luminoso in questo buio, ci rimette di buonumore. Giocatore generoso, romagnolo esuberante e innamorato della vita, ma anche un po’ veronese adottivo. Un’immagine da conservare nella mente. Ti aspettiamo Zac.

Ho letto ieri sulla Gazzetta le parole del ministro dello Sport Spadafora: “Le previsioni che facevano pensare di riprendere a fine aprile, inizio maggio le competizioni sono state un po’ troppo ottimistiche” ha detto. Ma va? Che tenero, l’ha capito persino lui. La settimana scorsa firmavo su questa testata un articolo in cui definivo la volontà di Spadafora di riprendere il 3 maggio un ipotesi lunare, fuori dal mondo.  Forse Spadafora parlava pressato da qualcun altro (Lotito? De Laurentis?), bene però che stia finalmente scendendo dal pero ho pensato nel leggere la retromarcia. Pia illusione, Spadafora con una finta di corpo (in)degna di Garrincha, due righe sotto ci ha sorpreso ancora: “Rispetto all’ipotesi del 3 maggio oggi sono molto dubbioso”. C’ha ancora i dubbi lui…povera stella, anima inquieta. Ma gli vogliamo bene, l’ho detto sopra, oggi sono buono.

Sapete che idea mi son fatto io? Nella migliore delle ipotesi si riprende l’attuale campionato dopo la seconda metà di giugno (a porte chiuse), si gioca ogni due-tre giorni (stile Nba) e si chiude nel giro di un mese. Niente ferie e via con la nuova stagione a metà agosto per arrivare agli Europei 2021.  L’alternativa è che si annulli tutto, come ha detto il presidente dell’Aic Tommasi e come ha confermato alla Gazzetta il potentissimo agente Fifa Branchini.  Poi, come ha sottolineato Prandelli, “non è che si può passare dal cimitero allo stadio nel giro di due giorni”. Nonostante lo dica Prandelli non è retorica: si chiama minimo comun pudore. Voglio pensare che tutti i presidenti dei club ci arrivino. Non è difficile.

Mi direte, ma il calcio è un’azienda. Certo e aggiungo: al netto dei club milionari di serie A, pensate alle società di B e C. Vanno tutelate, per farlo si andrà verso la sospensione degli stipendi per il periodo di inattività e la proroga dei contratti in scadenza a giugno (se i campionati dovessero ripartire). Detto questo, guardiamo in faccia alla realtà: a fine emergenza ci sarà mezzo Paese in ginocchio, qualche milione di persone che sono in cassa integrazione o che il lavoro lo hanno perso. Fuori da ogni demagogia: il calcio è nel calderone, né più né meno.

Sia chiaro, il pallone deve tornare a rotolare. Guai a chi dice che non è importante. Il calcio è fondamentale, è un collettore sociale, è uno svago, è un rito laico nazional-popolare che può (deve) aiutare moralmente il Paese. Non va fatto ripartire in tempi brevi (come vorrebbero i Lotito), ma in tempi ragionevoli, cioè appena è possibile e moralmente accettabile. Ma andrà fatto ripartire. Sarà un segnale di speranza e di ripresa. Ce la faremo.

 

 

 

E IL CRONISTA PERSE IL SENSO DI TUTTO…

E’ tutto così surreale. Quello stadio, Marassi, spoglio. E il mondo fuori, impazzito e impaurito. Si gioca al Ferraris, mentre si litiga fuori sull’opportunità di scendere in campo e sui diritti in chiaro o in scuro, senza ovviamente che si tratti di una querelle cromatica ma solo di vil denaro.

Il cronista fatica anche solo ad abbozzare un ragionamento calcistico. Si può parlare della partita che è stata? Ha senso? Sono giorni in cui non ha senso nulla. Parlano di campionato falsato, ma è il mondo, la nostra vita da due settimane a essere falsata. Là fuori c’è un Paese che è un minestrone di comportamenti e reazioni: chi, irresponsabile, si ammassa nei bar o nelle piste da sci; chi, impanicato, si barrica in casa. Estremi opposti, due facce della stessa medaglia: i menefreghisti e gli allarmisti. L’equilibrio mai, il riuscire a continuare a vivere la vita di tutti i giorni nel rispetto di nuove regole sembra impossibile.

Josè Saramago, premio Nobel per la Letteratura, e immenso scrittore portoghese, in Cecità scriveva che l’uomo, nel dramma, “è per metà indifferenza e per metà cattiveria”. Altroché spirito unitario e retorica del volemose bene.  E così la stazione di Milano è presa d’assalto di notte da chi vuole fuggire da quella che, da lì a poche ore, sarà zona rossa. Una cretinaggine che, a punirla, certo ci sarebbero voluti il Mascetti, il Perozzi, il Melandri, il Necchi e il Sassaroli di Amici Miei, i quali sulla banchina avrebbero pensato bene di schiaffeggiare i passeggeri. Non saprei invece chi chiamare in causa per addomesticare per bene chi, uscito dai focolai, se ne è andato bellamente a sciare. O forse lo saprei anche, ma qui è l’autocensura a fregarmi.

Che senso ha parlare di calcio? Che, certo, è sacro cazzeggio, ma è pur sempre cazzeggio. Eppoi ci ha tolto dall’antipatica incombenza il buon Juric, a cui è bastato un mezzo telegramma: “Abbiamo regalato la partita alla Sampdoria”. Che senso ha parlare del gomito birichino del mai irreprensibile Dawidowicz, o di un Var che oramai ha sostituito l’arbitro, che quasi viene da rivangare la rivolta luddista contro le macchine industriali?

Non so se sia giusto continuare. Non sono all’altezza per esprimere un giudizio. “Show must go on” scriveva amaro e sarcastico Brian May e cantavano i Queen. “Empty spaces what are we living for/spazi vuoti, per che cosa stiamo vivendo?“. Non so che dire, per me si può anche continuare a far finta, a trascinarsi.  Forse è anche giusto. Forse ci distrae. Ha un senso sinistro sentire che quelli, i signori della stanza dei bottoni, anche in questi giorni insistono a litigare su soldi e diritti tv, a disquisire di campionato europeo. Agnelli e Marotta e Zhang: potete tranquillamente continuare, metaforicamente, a giocare a chi piscia più lontano (poi ci diranno che è solo pioggia…di interessi). Siete quasi rassicuranti, sembra che niente là fuori sia cambiato. “Inside my heart is breaking/il cuore mi si sta spezzando dentro/My make-up may be flaking/il trucco forse si sta sfaldando“. Già, il trucco. Il re è nudo più che mai e ci voleva un fottuto e maledetto virus per capire definitivamente lo spessore di chi tira i fili del calcio italiano.

“But my smile still stays on/ma il mio sorriso permane“.  Sì perché passeremo anche questa e allora sì che il cronista troverà di nuovo un senso a parlare di calcio. E sarà bello quel giorno anche maledire, bonariamente (è pur sempre una palla che rotola) quel gomitaccio di Dawidowicz, la nota inconsistenza di Di Carmine e gli arbitraggi ai tempi del Var, che assomigliano a quel tale che completa i cruciverba sbirciando le soluzioni.

 

TRE MESI E…DUE CAMPIONATI

Dopo il trionfo con la Juve il rischio sbronza e quindi di hangover era altissimo. Per questo il pareggio di Udine è un buon risultato, al netto di cosa si sia divorato Zaccagni nel finale. L’unico neo, se vogliamo, è di un Verona – rispetto ai soliti eccellenti standard –  apparso meno aggressivo e padrone del campo. Spero si tratti di un piccolo passaggio domenicale (peraltro comprensibile dopo i fasti del ko a Madama) e non di un appagamento, anche inconscio, che inizia a farsi sentire.

Ho scritto che l’obiettivo Europa è da coltivare. Ciò non significa arrivarci (continuo a pensare che tre-quattro squadre del nostro gruppone ci siano superiori), ma intanto siamo ancora al sesto posto, seppur in coabitazione. Ritengo che il Verona possa chiudere il campionato realisticamente a 52-53 punti, ma per mantenere  questa classifica ne serviranno una decina in più. Difficile, ma perché non provarci? Cosa abbiamo da perdere? Capiremo presto il senso finale del nostro (ottimo) campionato nel miniciclo che ci porterà alla partita con l’Inter. Cagliari, Samp, Napoli, Sassuolo, Parma e Brescia, per motivi diversi, sono tutte partite alla portata. Anche il Napoli in casa nostra è un match contendibile.

Parallelamente si giocherà l’altro…torneo: la conferma o meno di Juric, il futuro, i giocatori che possono restare e chi partirà per forza, il consolidamento o la ripartenza da zero. Se ne parlerà tanto (giustamente), anzi si è già cominciato con la conferenza stampa di Juric di venerdì scorso.  Su questo fronte sono più pessimista, per questo vorrei consolarmi con qualche altra impresa in campo. Godiamocela, finché dura.

 

 

L’EUROPA NON È SOLO UN SOGNO

“Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono” scriveva Hemingway ne Il vecchio e il mare.  Anche il nostro Ivan Juric, uomo di letture e figlio di un uomo di lettere, deve pensarla così. Lui dribbla l’insidia di pronunciare la parola Europa, che almeno nel calcio rimane un concetto ancora affascinante. Juric, da tanti anni in Italia, recita la filastrocca italiana dei “40 punti”, quelli intesi della quota salvezza (che se va bene invece sarà a 36 punti). “E poi vedremo” aggiunge però sibillino il pirata di Spalato.

No, meglio non dirlo ad alta voce. Eppure il Verona (in attesa dei risultati odierni) è sesto in classifica, ma il discorso si spinge oltre. Se batti la Juve (con il miglior Ronaldo) con l’autorevolezza di ieri sera (in rimonta, con la prima mezz’ora sublime, con la capacità di gestire il calo e la sfrontatezza di ribaltare in un quarto d’ora il risultato) hai la conferma che sei forte. Scrivo la conferma e non la scoperta, perché che il Verona sia un’ottima squadra allenata divinamente lo sappiamo da un po’. A inizio dicembre qua scrivevo che eravamo da 9°-12° posto, ma da allora alcuni giocatori sono cresciuti ulteriormente (Pessina, Lazovic e Zaccagni), altri si sono confermati (Amrabat, Rrhamani, Kumbulla, Veloso), altri ancora sono arrivati (Borini ha alzato il livello tecnico davanti), aggiungici un Pazzini che gestito in questo modo sa ancora far valere la sua classe di vecchio campione (117 gol in serie A con quello di ieri).

Insomma ora non possiamo più nasconderci: si deve puntare all’Europa League, poi vada come vada.

Un inciso: dovremmo volerci un po’ più bene, almeno a livello di città e di critica. Essere per una volta meno umili e provinciali e smetterla di ridurre il Verona a una questione di cuore, grinta ed entusiasmo. Solo con quelli non vai da nessun parte. Diamoci un taglio con la retorica e godiamoci per un anno (almeno per un anno) la consapevolezza di essere una squadra medio-grande del campionato italiano. Per organizzazione tattica, of course, ma non solo, anche per qualità tecnica individuale, che spesso crediamo appartenga solo ai giocatori dal nome altisonante.

Invece il calcio ha storie complesse. Ci sono i fuoriclasse, i campioni, gli ottimi giocatori, i buoni giocatori e quelli di categoria. Veloso è un ottimo giocatore con tratti da campione (50 partite e oltre nel Portogallo di Ronaldo), ma non ha sfondato. E’ a fine carriera ma rimane uno che sa giocare come pochi e il “suo” Juric e l’aria veronese lo hanno rivitalizzato (direi anche l’essersi liberato del peso di essere il genero del presidente del club per cui gioca). Idem Lazovic, che pure al Genoa ha ben figurato, ma che ai tempi della Stella Rossa era uno dei ventenni più chiacchierati d’Europa. Amrabat a 23 anni vanta presenze in Champions e al Mondiale: se poi i dirigenti dei grandi club non se ne sono accorti prima è un problema loro. Ma ottimo giocatore è, per di più nel pieno della carriera. Per Rrahmani si può dire lo stesso. Kumbulla invece è più di un ottimo giocatore, è un campione che può diventare fuoriclasse, ma già oggi è uno dei più forti difensori italiani e tra i pochi con profilo europeo (non per niente lo vuole mezzo continente). Pessina è stimato dall’Atalanta, che infatti ce lo ha dato in prestito con valorizzazione: oggi è tra i migliori centrocampisti del campionato, è già un ottimo giocatore e probabilmente diventerà un campione. Ottimo giocatore che sembrava poter diventare campione è Borini (il gol di ieri è da cineteca per fattura), che però rimane tra i migliori nel suo ruolo tra gli italiani. Poi ci sono i buoni giocatori, quelli da media classifica: Zaccagni, Silvestri e Faraoni.

Voglio dire, non siamo sesti per caso, la sorpresa oggi è realtà. Per questo è giusto provare ad andare fino in fondo, verso l’Europa. Con questi valori potrebbe non essere solo un sogno.

DUE MESI PER SOGNARE

Due pali e un rigore (non dato!) clamoroso su Borini. Siamo arrivati vicini a vincere, eppure rischiavamo anche di perderla, con il forcing finale del Milan e il nostro commovente ed esaltante muro difensivo. Sarebbe stato beffardo. Il calcio è strano e una partita può avere mille sfaccettature. Ieri si sono visti tanti match dentro lo stesso: Verona dominante, poi sofferente, ancora comandante, infine in dieci e di nuovo in affanno.

Sono domeniche dal sapore antico che valgono la pena di essere vissute e che ci riportano alla parte più bella del calcio: il duello, il filo della tensione, l’adrenalina, l’illusione, la voglia di realizzare l’impossibile, la sofferenza. E ancora: la domenica pomeriggio (il vero e unico orario da campionato), l’inverno, il cielo grigio tendente al plumbeo, il mitico San Siro con un colpo d’occhio degno della tradizione dei due club avversari. E, permettetemi una nota apparentemente marginale in realtà sostanziale, i colori delle maglie, quelli veri.  Il Milan strisciato di rossonero e i pantaloncini bianchi e il Verona con il suo completo blu (il blu nostro) con i bordi gialli. E’ stato un vero Milan-Verona.

Alla vigilia, ve lo confesso, sentivo odore di vittoria. E sarebbe stata sacrosanta e anche probabile se il mediocre e “casalingo” arbitro Chiffi si fosse accorto di quel pestone a Borini al 90° in area di rigore che ancora grida vendetta  – e che tuttavia è passato sotto silenzio (meglio, si vede, il simpatico cabaret di Comisso della Fiorentina a reti quasi unificate).  E’ stato solo pareggio ma un fatto resta: il Verona di San Siro conferma di essere squadra da parte sinistra della classifica che un pensierino (senza affanno) all’Europa può farlo, se non altro per dare un senso fino in fondo a questo bel campionato.

Con Lazio e Juve abbiamo poche chances, almeno sulla carta. Quest’anno – se un piccolo appunto dobbiamo fare – quello che sinora manca a referto è l’impresa, il risultato da mettere in cornice. Questo sarebbe il momento di provarci. Con la Lazio poi non abbiamo nulla da perdere in tutti i sensi: è un recupero e, andasse male, la classifica rimarrebbe quella di oggi: meno due dall’Europa League. Dalla settimana prossima però inizia un lungo ciclo alla portata: Udinese, Cagliari, Sampdoria, Sassuolo, Parma e Brescia. In mezzo il non irresistibile Napoli in casa nostra. In due mesi capiremo se è lecito sognare.